Fosca/Capitolo III
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III.
Ho parlato del mio paese natale.
Mi duole che queste pagine non sieno destinate a venire alla luce, per poter rendere pubblico un odio che conservo da lunghi anni nel cuore, l’unico che il tempo e la riflessione non abbiano fatto che avvalorare ed accrescere.
Io amo la terra, questa grande madre, questa gran patria comune; io l’amo tutta senza distinzione di suoli e di climi; l’amo come una parte di me, io che non sono che una porzione minima di lei stessa.
Io ho sentito spesso le sue attrazioni, l’appello che ella fa a’ suoi atomi, le sue creature; agli uomini, le sue particelle animate. A primavera, quando il sole la dardeggia de’ suoi raggi; in quel periodo di febbre, di ardenze, di fecondità, quando dal suo seno pieno di amore erompono le famiglie degli insetti e delle erbe, quando ella sorride di un sorriso pieno d’incanti e di fiori, io ho sentito spesso con una specie di furore il desiderio di rientrare nel suo seno; io mi sono prosteso per abbracciarla; ho sentito che essa mi chiamava, e ho gridato: «Tu mi vuoi, tu mi chiami, — io vengo, io vengo.» Sì, io amo la terra, questa bella terra; io son certo che essa sarà lieve sulla mia fossa, quando stringerà dolcemente il mio petto colle sue braccia di selci e di radici; ma vi è in essa un punto che io odio, ed è quell’angolo freddo ed uggioso dove son nato.
È di là che ho incominciato a gettare uno sguardo sul mondo, e a vederlo triste ed ingrato; è là che non ho potuto aver mai nè una nobile gioia, nè un nobile dolore; è là che conobbi gli uomini che mi hanno insegnato ad odiare gli uomini; è là, finalmente, che non ho potuto amare.
Avrei voluto levarne le ceneri de’ miei cari, perchè l’ultimo anello che mi congiungeva alla mia patria fosse anche spezzato.
Fui torturato lungo tempo da un’idea insistente e malinconica: mi pareva che quelle reliquie adorate non potessero aver pace là sotto, perchè, io stesso, io sento che le mie ossa fremerebbero se sepolte sotto quelle zolle abborrite.