Fosca/Capitolo V
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo IV | Capitolo VI | ► |
V.
Fummo felici, ineffabilmente felici.
Passammo attraverso una serie di sensazioni nuove, ardenti, vertiginose. Mai due anime avevano combaciato così pienamente, mai due nature si erano congiunte, fuse, identificate in una sola come le nostre.
Clara aveva indole forte, giusta, severa; vi era nulla di fatuo, nulla di fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai più affettuosa, più dolce, più arrendevole, più accarezzevole, più eminentemente donna.
Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. Scopersi più tardi il segreto di quel fascino immediato che aveva esercitato sopra di me. Essa rassomigliava a mia madre. Mia madre poteva aver avuto la stessa bellezza e la stessa età quando io nacqui.
Una volta amanti, ci abbandonammo con una specie di dolce disperanza alla nostra passione; non avemmo più limiti; ella pure era tal natura da non conoscerne. Avremmo quasi desiderato di soffrire, di porre il nostro amore come ostacolo alla nostra felicità, al nostro avvenire, per rendercene meritevoli. Ci sentivamo struggere dalla smania di sacrificare qualche cosa l’uno all’altra. Così eravamo troppo immeritatamente felici. Non potevamo dare un prezzo a quelle gioie; le sentivamo troppo intense, troppo profonde!...
Ci raccontammo tutta la nostra vita. Ci trasfondemmo l’uno nell’altra senza rossore, senza dissimulazioni, senza esitanze. Essa aveva vissuto poco nel mondo, aveva sposato a sedici anni un uomo che le era indifferente, non aveva mai amato, nessuno le aveva mai chiesto dell’affetto, adorava suo figlio. In quella vita di isolamento e di disamore era nondimeno felice.
Come tutte le donne veramente ingenue s’era data a me senza fingere, senza esitare; essa aveva pensato a lungo alle conseguenze della sua colpa; aveva lottato a lungo; ma una volta decisa, si era abbandonata senza ritegno. Non so se ella ne arrossisse e ne gemesse in segreto; il suo contegno non lasciò mai penetrare in me questo dubbio, essa non mi parve mai che felice. Mi diceva spesso con aria di credulità e di spavento, affatto puerile: «Sono così felice che ho paura di morire.»
Il suo rimpianto più acerbo era di non avermi conosciuto prima; non si doleva dell’avvenire che il tempo ed i suoi legami ci avrebbero, o tardi o tosto, attraversato, ma del passato che avevamo vissuto lungi l’uno dall’altro, senza conoscersi, senza sapere che esistevamo, di quei bei giorni della prima gioventù che non avevamo potuto trascorrere assieme.
«Oh, s’io t’avessi conosciuto allora! quanto sarei stata felice di darti questo mio cuore puro ed intatto, di offrirti tutta la mia gioventù, tutta la mia freschezza — giovinetta, anch’io era bella!... Come tu avresti saputo formare il mio cuore, come t’avrei amato, come t’avrei ubbidito!»
Tali le parole che essa mi diceva soventi. Ella soffriva di non poter legare a me le prime e le più pure memorie della sua esistenza.
Come aveva preveduto, la mia salute era rifiorita, io era ritornato forte, lieto, sereno; ma mi pareva aver tolto a lei tutto ciò che aveva aggiunto a me stesso. Essa non avvizziva, ma deperiva con lentezza. Si era come tramutata, non era più quella di un tempo. Mi pareva fosse divenuta più alta, più gentile, più flessibile; la vedeva come fosse stata un’immagine di sè stessa.
Spesso essa mi diceva scherzosamente: «Ho voluto essere il tuo medico, e ho trascurato un po’ troppo me medesima.» Non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme col suo affetto. L’amore fa spesso di tali miracoli.
Del resto io non dirò come e quanto noi fossimo felici. Triste quella felicità che si può dire! Io mi era serbato fino allora eccezionalmente puro, essa eccezionalmente ingenua. Ci eravamo amati, ella per pietà, io per gratitudine; la stima, la simpatia, la conoscenza profonda delle nostre anime, più che la nostra stessa gioventù, ci avevano condotti alla passione. Ella a venticinque anni, io a ventotto, eravamo ancora due fanciulli. In un gran centro di corruzione come cotesto, noi eravamo rimasti illibati, puri, vergini, ricchi di illusione e di fede — e la felicità e la grandezza di un tale amore non possono essere raccontate.