Fior di Sardegna/Capitolo XXXV

Capitolo XXXV

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Capitolo XXXIV Capitolo XXXVI
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XXXV.


... Attendeva da un’ora, davanti a un libro che non leggeva, la faccia bianca quasi di morta nascosta fra le mani scheletrite, consumate dalla febbre, gli occhi cerchiati di nero, fatti enormi dall’angoscia che la divorava, dall’attesa e dall’eterna paura. Fuori la luna splendeva sul cielo bianco di una orientale notte estiva; i fiori, gli ultimi fiori bianchi, olezzavano nel silenzio azzurro e nella calma della notte, ma che importava a Lara della luna e dei fiori? Solo l’astro del dolore brillava sul suo cielo, solo i fiori della morte olezzavano nel sentiero della sua vita. Quando suonarono le undici, un fremito le passò per le spalle, sull’abito oscuro indossato forse in segno di lutto per la morte dei suoi sogni e delle sue ultime speranze: era così fantastica Lara!

Si levò mentre l’ultimo rintocco sfumava triste nell’aria silenziosa e un sorriso acre le increspò lo labbra bianche, inaridite, mormorando: — Un’agonia? È morto qualcuno? — Scrollò il capo: le idee fuggivano dal suo cervello stanco di soffrire, si confondevano, danzando una ridda infernale, per sparire poi ad un tratto lasciandole la mente orribilmente vuota.

— Le undici! — riprese, avviandosi con passo incerto verso la porta — Chi è morto? Ah, sì, lui! E’ morto! Fra due mesi sarò morta anch’io! — Prima di uscire si guardò nello specchio, e si accomodò i capelli, istintivamente, come nelle notti belle di luna in cui lui doveva vederla e baciarla.

Lara non era bella e lei lo sapeva, pure in quel momento le sembrò di esserlo, nel momento in cui dava l’addio alla vita e alle sue vanità. Perchè? Non sappiamo spiegarlo; ma sappiamo che in quel momento le parve di essere bella, lei che sempre aveva creduto di essere piuttosto brutta, tranne gli occhi.

Ma forse in quella notte era realmente bella, la piccola Lara. Un nastro nero le annodava in alto i capelli [p. 170 modifica]bruni, lasciando sfuggire due ciocche arricciate sulle tempie: quell’acconciatura le dava un’aria graziosissima, infantile e aristocratica, e sul viso pallido sin sulle labbra, increspate a un sorriso di indicibile dolore, spiccavano i grandi occhi oscuri, resi profondi ed enormi dalle occhiaie livide e da una espressione cupa, disperata, fatta più tetra dall’oscurità della notte. Un’intera storia di dolore si leggeva nello smalto di quegli occhi; lunga storia di amore, d’odio e di angoscia, di affanni fisici e morali, — straziante storia di notti insonni, di lagrime, di speranze distrutte, di sogni di fuoco, stolti, infondati, sfumati davanti alla cruda e inesorabile realtà. — Aprì la porta e scese le scale a poco a poco, appoggiandosi al muro per non cadere, tanto le tremavano le gambe. Era così debole e dimagrita, che oramai le vesti le scivolavano giù per la vita esile come un giunco; i piedi le ballavano entro gli stivaletti pur tanto piccoli, e i suoi polsi divorati dalla febbre erano così sottili che si sarebbero potuti stroncare a mani. Solo gli occhi, ardenti di passione e di febbre, rimanevano vivi, neri, fra tanta squallida rovina.

Arrivata in giardino, Lara si appoggiò di nuovo al muro e scrutò l’orizzonte placido, argenteo, aspirando con voluttà i forti profumi delle ultime rose olezzanti alla luna, gli occhi fissi sulle creste delle montagne azzurreggianti nella lontananza solitaria. Un fulgido scintillìo le attraversò gli occhi mentre mormorava con un singulto spasmodico: — Lassù!... lassù ti ho giurato eterno amore, fedeltà eterna! Oh, vedrai come saprò mantenere la mia promessa, vedrai!... —

Allora si rizzò fiera sull’esile personcina e, quasi una misteriosa energia le fosse piovuta coi ricordi dalla cima dei monti lontani, s’incamminò rapidamente verso il cancello. Un momento le rimancò la forza: cadde, si raschiò una mano e dalla piccola ferita sprizzò il sangue, rosso e ardente, ma non provò dolore alcuno, e sorrise stranamente nel vedere il sangue: credeva che le sue vene non ne contenessero più!...

Riprese il cammino. Le sembrò di veder un uomo fra gli alberi, forse suo padre... pure proseguì lo stesso. Che le importava? Massimo stava là ad attenderla, e lei [p. 171 modifica]doveva andarci, voleva andarci ad ogni costo per vederlo ancora una volta, l’ultima, e dirgli che moriva per lui.

Nella sua debolezza Lara era forte dell’energica volontà dei bimbi viziati che vogliono ad ogni modo soddisfare un loro capriccio. Arrivò al fine, aprì il cancello, ma non vide nessuno, e come la famosa notte in cui erano rimasti sì a lungo insieme, Lara mormorò: — Ah, se non venisse, se non venisse! — E non veniva infatti, benchè l’ora del convegno fosse trascorsa; mille dubbi attraversarono la mente della fanciulla, che, risoluta a tutto, uscì dal cancello e s’inoltrò per la campagna, finchè una siepe che Massimo varcava per venire a lei non le troncò il passo. Tutta quella campagna ora apparteneva a Marco Ferragna, che proponendosi di coltivarla a frutteto, cominciava già a farla lavorare. A destra sfuggiva in una china tortuosa che finiva nella valle vicina e Marco faceva costruire un muraglione tagliando a picco la china per impedire ogni comunicazione del futuro frutteto con la valle. Stanca di aspettare, tremando di febbre e di ansia, Lara gettò un cupo sguardo da quella parte. — Un salto, un salto... e lì sotto!... — L’abisso, reso più profondo di ciò che realmente era, dalla luce bianca della luna, sorrideva a Lara, ma Massimo comparve subito dietro la siepe, e si fermò meravigliato di veder lì la fanciulla, che per poco non mandò un grido nel vederlo.

Il cuore pareva volesse scoppiarle in seno: le labbra le fremevano tanto, che non poteva parlare, e a poco a poco quel tremito nervoso la invase tutta. Massimo era là! Massimo! Massimo che lei adorava ancora, sempre, nonostante tutto, per cui diventava pazza, per cui moriva lentamente, per cui dava il suo sangue, le ultime stille del suo sangue impoverito dalla febbre e da quell’amore fatale che le dilaniava la vita! Alla sua vista l’effimera energia che la sosteneva scomparve, e si appoggiò alla siepe per non cadere: tutto le girava intorno in un vortice confuso, bianco, velato, tutto aveva una voce per lei, i profumi estivi salienti dalla valle, il ruscello scrosciante in lontananza, le creste dei monti sorridenti alle carezze della luna... Massimo era là!... E Lara fu per gettarglisi al collo attraverso la siepe, e scordare i dolori sofferti fra la voluttà dell’abbraccio fremente di lui, [p. 172 modifica]e godere ancora un istante di gioia baciandolo, ricevendo sulle labbra fredde, bianche, inaridite, la vita dalle labbra ardenti di lui. Ma fu un lampo. — Lara!... — mormorò il giovine, cercando un varco nella siepe. Lei sussultò e tornò in sè, nella sua triste calma da palude nel cui fondo s’agitavano i vermi della morte. Comprese a volo che Massimo cercava dove passare e mormorò:

— È inutile! Non rimango! — La voce le fischiava quasi fra i denti stretti, nella gola arida serrata da un nodo. Ma lui cercava ancora. Lara lo seguì e ripetè più forte:

— È inutile! non rimango! — Allora il giovine si fermò e stese la mano, ma Lara non mosse la sua; solo chiese:

— M’hai scritto? — Si morsicò le labbra subito. Che importavale ormai delle lettere di lui? Perchè gliele chiedeva? E poteva forse accettarle?

— Sì, — rispos’egli guardandola con stupore. — E tu mi hai scritto?

— Sì, anch’io! Ma prima di consegnarti la mia lettera, è necessario che tu, come ti ho scritto, mi restituisca tutte le altre mie...

— Le ho qui! Eccole, Lara! Perchè tutto questo?... — chiese Massimo porgendole un grosso plico, e con accento stupito ed amaro.

Lara prese tremando il plico e lo avvolse subito nel suo grembiulino oscuro, sembrandole che le abbruciasse la mano, in cui realmente sentiva un acuto dolore per la piccola ferita ancora sanguinante. Trasse la sua lettera e la porse al giovine, ma siccome egli non si muoveva per prenderla, si chinò sulla siepe e gli narrò con voce rotta e fremente il contenuto della lettera; gli disse in poche parole l’infamia di cui lo aveva creduto e ancora lo credeva capace, tutto il dolore che la conduceva alla tomba... — Senti, — conchiuse, sempre china sulla siepe, gli occhi sfavillanti nella penombra, perchè i raggi della luna le battevano sulle spalle lasciando il viso spaventosamente pallido nella semioscurità, — tu mi hai ucciso, sì, esulta! fra due mesi mi accompagnerai al cimitero! — C’era in queste parole una fredda, orribile ironia, che fece impallidire il giovine, il quale esclamò con angoscia:

— Tu dunque morrai?... [p. 173 modifica]

— Sì morrò! — rispose lei a voce quasi alta, sempre fremente, col cuore pronto a scoppiarsele nel seno contorto da singulti spasmodici, nervosi, atroci. — Morrò! Nel discorso funebre che certo mi farai, ricordati di dire che è stata la famiglia Massari ad assassinarmi!... — Questa parola parve susurrata sotto terra, tanto fu lugubre e odiosa. Lara gettò la lettera sulla siepe e fuggì via, lasciando Massimo fulminato, impotente a gridarle: Fermati; impotente a dire una sola parola di giustificazione, sbalordito, chiedentesi se non sognava.

Lara si allontanò; in quel punto due persone erano in lei: una le gridava di fermarsi, di sentire le discolpe di Massimo, di perdonarlo se colpevole, se innocente di abbracciarlo e far svanire a furia di baci la fosca nuvola che velava il loro avvenire. L’altra invece le gridava: La vendetta è compiuta! Fuggi, o sei perduta! — E Lara fuggiva, ma rasentando il muro altissimo che pochi istanti prima l’aveva tentata, strisciò vicina all’abisso e ne misurò l’altezza con lo sguardo. Oh, no! Era troppo basso... la morte non era certa... e poi due mesi in più, due mesi in meno, che importavano? Passò oltre. Il cuore le batteva forte forte, la prima persona continuava a invitarla ad indietreggiare, a tornare da Massimo, ma la seconda la spingeva in avanti. E Lara andò, andò in avanti, verso la sua camera, verso la sua morte. Rinchiuse le porte, risalì rapida le scale e si chiuse a chiave nella sua camera solitaria. Cadde affranta sulla sedia davanti al tavolino, sparpagliò sopra le sue lettere e lesse quella di Massimo. Perchè la leggeva dal momento che tutto era finito?... Quando ne terminò la lettura, il suo volto non era più pallido, ma livido, sfiorato dall’espressione di un’atroce e disperata sofferenza. Oh, se Marco l’avesse veduta in quell’istante, come si sarebbe pentito della sua falsa rivelazione! — La pazzia rumoreggiava nel cervello della povera Lara. Si strinse disperatamente la testa fra le mani, la testa che le scoppiava, e solo allora pianse, un pianto desolato, delirante, ogni cui lagrima lasciava un’impronta di morte nella sua povera anima spezzata.

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L’indomani Lara non potè levarsi neppure, invasa dalla misteriosa sonnolenza di due giorni prima, nella quale [p. 174 modifica]conservava però tutto il ricordo dell’ultimo convegno, e un barlume di gioia nel fermo pensiero che fra due mesi doveva morire. — Sì, tutto era finito, decisamente finito! Lara non pensava più a Marco, nè alla famiglia, nè a Massimo: non pensava a nessuno: si ricordava di aver immensamente sofferto, ma si consolava ripetendosi con un vago sorriso a fior di labbro: fra due mesi, fra due mesi!...

Per le imposte socchiuse penetrava la luce d’oro fiammante di una torrida giornata di luglio, ma Lara non provava caldo, e con gli occhi chiusi, abbandonata ad un torpore pesante, vagava su mille cose, su mille pensieri confusi, vorticosi, indistinti fra la veglia e il sonno. Sul tardi la porta della sua camera si aprì, entrò Pasqua e accostandosi al letto di Lara, la scosse dicendole: — Ehi, signora! Sono le dieci! Perchè non ti levi? Ti sei coricata tardi ieri sera?

— No! — rispose Lara senza muoversi, gli occhi sempre chiusi.

— E allora perchè non ti levi? Sono le dieci, sai!...

— Lasciami stare, noiosa! Mi sento male...

— Quand’è così... — fece Pasqua con leggera ironia. Girò sulle calcagne e se ne andò via cantarellando, mentre Lara ricadeva nel suo sopore. Ma dopo un poco la porta si riaprì e comparve il volto pallido e calmo di donna Margherita, che si avvicinò senza far rumore sino al letto di Lara e le posò una mano sulla fronte. Lara trasalì e spalancò gli occhi.

— Tu sei malata! — disse donna Margherita. — Vuoi che avvisiamo il medico?

— Il medico?... — esclamò Lara sedendosi sul letto. — Scherzate, mamma?...

— No! Pasqua mi ha detto che tu sei malata, e infatti...

— Lasciatela dire! Mi leverò subito, subito! Malata? Medico? Ma che! Mi leverò, mi leverò... subito... subito!....

Donna Margherita uscì scrollando la testa. Allora Lara si mise a vestirsi lentamente, pensando: — Un medico?... Farmi guarire? No, no, io non voglio. Bisogna mostrarmi sana... — Ma vestita che fu, le gambe le si piegarono e cadde seduta sulla sponda del letto, col viso orribilmente pallido. [p. 175 modifica]

— Mio Dio, mio Dio, — mormorò con angoscia, — come farò?...

Si rialzò, fece penosomente teletta, e scese le scale appoggiandosi ai muri. Nella camera da pranzo una delle serve le chiese perchè s’era levata così tardi, aggiungendo:

— Oh, come è pallida, donna Lara! Si sente male? — Lara si provò a scherzare, ma la voce le uscì strozzata dalla gola; ricadde seduta e mormorò: — Rosa, portami una tazza di caffè nero, qui! Mi sento stanca, non so perchè, e non posso camminare. Ah, che caldo!

— Sì, è caldo, molto caldo! Si stanno scatenando raggi di fuoco dal sole quest’oggi. Anch’io sono snervata, e non posso nè pure aprire gli occhi, — rispose la serva; e mentre serviva il caffè aggiunse: — forse lei si è trattenuta alla finestra di notte. Sa, fa male ciò, male...

Lara finiva di bere il caffè e Rosa chiacchierava sempre, allorchè picchiarono alla porta della strada. — Avanti — disse Lara. Entrò una servotta in costume con un giornale piegato in mano e Lara la guardò stupita, perchè riconobbe in lei la serva della famiglia di Mariarosa. Che voleva?

— Buon giorno! — disse la serva, indirizzandosi a Lara dopo essersi accertata che non v’era altri, Rosa essendo uscita; — la signorina Mariarosa le manda tanti saluti, e le chiede come sta.

— Bene, grazie! — rispose Lara sempre più stupita.

— Inoltre la prega di leggere questo giornale, dove è sognato con un lapis rosso.

— Che cos’è?

— Ma... io non so! — Lara prese il giornale e ripetè: Tante grazie, dunque! — Non si degnò di ricambiare i saluti a Mariarosa e accomiatò la serva con un freddo: Buon giorno.

— Che cosa sarà? si ripeteva, spiegando il giornale. Era l’ «Avvenire di Sardegna». Cercò, cercò e alfine trovò due tirate di lapis rosso, appena visibili, ai lati di una piccola corrispondenza da un villaggio del Logudoro, che diceva press’a poco così: «E’ accaduto ieri una grave disgrazia. Al nostro giovine medico Nunzio N*** che in un mese dacchè era ritornato fra noi, si aveva acquistato l’affetto di tutta la popolazione, gli si è esploso il fucile, [p. 176 modifica]mentre stava per salire a cavallo e recarsi ad una partita di caccia al cinghiale sulle nostre montagne. Rimase cadavere sul colpo. Taluni pretendono che siasi suicidato: anzi, ne indicano la causa: una signorina, che pare siasi fidanzata con altri, dopo avergli fatto girare il cervello col suo amore e le sue promesse; ma ciò è assurdo, è infondato. Resta confermata la disgrazia, e la popolazione ne è costernata... »

Come è facile credersi, Lara non prestò fede a quest’ultima versione. Nunzio si era suicidato, per lei, dopo averla saputa fidanzata ad altri, mentre credeva giunto il momento di farla sua! — Il passato risorse, fiero, inesorabile, profilato.

Lara si ricordò la sera, la prima sera d’amore, sull’onde di smeraldo del mare, si ricordò l’ultima sua lettera a Nunzio, e diventò livida in volto. Veniva il rimorso!...

Fu il colpo di grazia. Lara si lasciò scivolare il giornale per terra, e ripiegandosi su sè stessa, per la prima volta in sua vita, svenne.