Fino a Dogali/Tragedia
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XI. [La Tragedia]
Pare strano a me stesso: in questo libro incominciato come sfogo agli
orribili spasimi della mia malattia, non riesco a parlare di me. Un
orgoglio intrattabile mi vieta di gettare in pascolo al pubblico
dolori che hanno talvolta vinta la mia volontà e fiaccato il mio
carattere, giacchè mi sembrerebbe in tal modo di elemosinare coi
lenocinii della frase quella compassione, che gli accattoni di
mestiere tentano coi lenocinii della voce.
Ho scritto cento pagine sul Macchiavelli in venti giorni, ma d'allora non ho più toccato la penna.
La primavera è tornata, sono ancora a letto. Mi hanno seppellito per tre volte la gamba entro una parete di gesso e mi hanno detto di restare calmo.
Quando potrò alzarmi la debolezza sarà tale che dovrò per qualche mese usare le gruccie.
Così rientrerò nella vita.
Vi sono dei giorni che sento sollevarsi dal fondo dell'anima dei turbini di collera, che fischiano e ruggono come il Simoun può fare nel deserto. Tutta l'energia della mia volontà non può nulla su la mia gamba ferita: per muoverla debbo chiamare la povera Lucia, che me la solleva come un tronco. E tutto questo perchè? Se avessi ricevuto nel ginocchio una palla di falconetto come Giovanni dalle Bande Nere, alla buon'ora! ferita e morte avrebbero un significato; invece sono caduto come l'ultimo degli imbecilli, e quanto soffro e tutto il tempo necessario a guarire è dolore e tempo perduto.
L'inutilità della sofferenza, ecco il dolore del dolore!
Alzate dunque un patibolo davanti ad ogni morente, giacchè val meglio essere ucciso che morire; nel primo caso è una lotta, nel secondo un esaurimento; la tragedia è un diritto dell'uomo, la morte è una fine da animale.
Quante volte mi sono inteso chiedere che cosa sia la tragedia e quanti libri si sono scritti per spiegarla! Ma domanda e risposta egualmente malinconiche confondevano tragedia e morte. No, non è vero. La tragedia non è la morte, ma la morte umana, nella quale lo spirito discende colla coscienza della propria immortalità. Sapendo di morire l'uomo è il solo che non muoia nella natura. L'animale si esaurisce: esso non sa nè come nè quando sia nato, ignora le leggi della vita, non si domanda se il paesaggio nel quale passa abbia un passato, e che cosa sia venuto a rappresentarvi. L'uomo invece interroga, apprende; tutto passa nella natura, ma ciò che è passaggio in essa diventa serie nel suo pensiero; la serie gli dà la legge, la legge gli rivela il secreto. Appena lo spirito pensa sè medesimo, ripensa il mondo nell'antichità della sua geologia e nell'eternità della sua durata. Solo l'eterno può pensare l'eternità.
Ma lo spirito è nell'uomo e non è l'uomo: colui che pensa non è pari al proprio pensiero; il pensiero si realizza in lui e non è lui. L'uomo morrà e il suo pensiero sarà immortale, ecco la tragedia. La morte accade dunque dentro di noi e sotto di noi. Il nostro spirito può contare i passi coi quali si avvicina, studiare il riflesso della sua ombra sulla nostra fisonomia, analizzare le impressioni del suo freddo nel nostro organismo. I sentimenti che nel nostro spirito soffrono e gridano non sono della sua natura, ma saliti dal fondo della nostra animalità si sciolgono come vapori nella impassibilità adamantina del suo cielo.
Che cosa importa al sole delle esalazioni, che incapaci di salire fino a lui ricadono in pioggia a fecondare i campi, che il sudore di tutte le generazioni umane non basterebbe ad inumidire?
La prima tragedia si svolse sulla terra col primo uomo. Era egli un animale perfezionato o una statua animata dal soffio di Dio? In ambo i casi la tragedia fu uguale, giacchè animale era diventato uomo col pensiero, statua riteneva il pensiero che l'aveva vivificata. Ma nella sua coscienza di primo sentì egli tutto ciò che sarebbe accaduto nella sua posterità? In questo mondo, che forse lo guardava colla stessa meraviglia onde era da lui spiato, vide egli l'immensità del teatro che doveva accogliere le tragedie di tutti i suoi nascituri? Quando il sole tramontò la prima volta a' suoi occhi, pensò egli che la morte doveva essere come l'ombra? E quando la luna sorse a diradarla, comprese egli che l'ombra e la morte non erano che apparenze come tutte le negazioni?
Lo stormire delle foreste e il murmure del mare gli parvero voci come la sua, nelle quali più grandi parole esprimessero un più grande pensiero?
In questo secolo si è potuto rifare la preistoria, ma chi ci darà la psicologia del selvaggio? Chi analizzerà i sentimenti che la sua lingua non può tradurre e hanno impresso sulla sua faccia quella terribile immobilità contemplativa, davanti alla quale la temerità della nostra analisi, che ha decomposto Dio, si arresta i nterdetta?
Poi la tragedia divenne storia appena l'uomo invece di battersi colla natura si battè con sè medesimo. Alla terribile seduzione dell'ignoto, colla quale la natura attirava il selvaggio negl'antri delle selve e nelle voragini del mare, la storia sostituì l'attrazione delle idee, e gl'individui si avventarono verso di esse, generazioni intere si slanciarono, popoli innumerevoli si precipitarono, e muoiono ancora gli uni sugli altri per estrarle dagli abissi dello spirito, donde fiammeggiano cerulamente come le stelle nelle alte notti sull'oceano. Tutto passa e non ne resta nella scienza e nella coscienza che un'idea: ideale per le genti che volevano conquistarla, ricordo per le genti che l'hanno ereditata.
Il popolo più grande nella storia è il più tragico, l'ebreo, che si immola al conquisto di Dio: l'uomo più grande è Cristo, che si lascia uccidere per diventare Dio, e lo diventa.
Tutto è tragedia. Se il popolo vi è inconscio e nel giubilo delle proprie forze vi agisce obbliando la fine, la tragedia diviene epopea, e allora il suo canto ha la sonorità delle onde, l'impeto del venti, la trasparenza del cielo. Ovunque l'epopea è uguale a sè stessa. L'uomo vi si muove in una superba giocondità, che lo rappatuma colla natura da lui chiamata a parte del suo trionfo sulla idea nella quale si trasfigura: ma l'epopea è breve e non si rinnova mai più. Pochi popoli vi arrivarono, nessuno vi è ritornato. E non appena il canto epico finisce, comincia il coro tragico. La grande idea, nella quale l'anima del popolo sperava di quietare, diventa un promontorio da cui si scorgono più radianti lontananze, una stella dal lembo estremo della quale si vedono carovane di stelle migrare per l'infinito.
E la tragedia riappare nella severità del proprio pensiero, mentre il suo ritmo è spezzato dai singhiozzi dei morenti sotto lo spasimo della nuova disillusione. Ma se nell'epopea il popolo si era sollevato in massa, slanciandosi collo sforzo di un sentimento comune verso il prossimo ideale che lo inondava di luce e di calore, nella tragedia vera il popolo guarda aggrondato in cupo silenzio i suoi più intrepidi eroi ripetere soli quel conato, che tutti avevano fatto e che a tutti per un momento era sembrato trionfare.
È l'era dei grandi individui. Qualunque sia l'idea alla quale s'immolano o il fatto nel quale soccombono, la loro tragedia non muta: mentre tutto il popolo guarda nell'immobilità della stanchezza o nel terrore della disperazione, essi soli osano levarsi. Che la loro fronte sia coperta da un elmo o da un'infula, la loro mano armata di spada o di compasso, si avanzano verso la morte. Il progresso umano esige in quell'ora il sacrificio dei migliori, perchè solamente la loro morte può rendere intelligibile a tutti il secreto della legge che la storia sta per rivelare.
Ma al momento culminante della tragedia il popolo, che non capisce quasi mai, maledice l'eroe morente per lui. È questa la suprema differenza della tragedia colla epopea. Nell'una l'eroe è acclamato prima della battaglia, sostenuto in essa da tutti i voti, pianto dopo di essa da tutti gli occhi: nell'altra l'eroismo è come un insulto alla impotenza del popolo, che spia quindi arcigno la lotta cercando nella catastrofe una ragione alla propria inerzia.
Eppure di tutti i destini individuali il più degno d'invidia è il più tragico.
Se nell'epopea l'eroe rappresenta il popolo, nella tragedia lo riassume, giacchè vi compie la vita della propria generazione iniziandola in quella della generazione non nata. L'epopea è un meriggio, la tragedia un'aurora, nella quale la esultanza della luce erompe dalla lacerazione delle tenebre.
La tragedia antica, la massima rimasta nell'arte, ha per tema un Dio, non in quanto è tipo religioso ma per quanto si mescola nella vita umana e vi opera. Amore ed eroismo vi sono quindi espressi con un'altezza di sentimento e di linguag gio quali l'arte posteriore non seppe nemmeno più comprendere. Le prime battaglie significate nelle prime tragedie esprimono o la lotta che l'individuo spirituale impegna colla natura, e vi brilla il raggio giocondo dell'epopea; o quelle che impegna con sè medesimo, e sono la vera tragedia nella quale la vittoria o la morte diventano egualmente impossibili. Ercole può acquetarsi nell'amore o morirvi: Prometeo è immortale, e non può nè vincere, nè morire, nè essere liberato. La battaglia che il suo spirito ha cominciato coll'infinito ricomincerà a ogni ora, in ogni uomo, in ogni popolo. Tutti vi saranno uguali. Nell'epopea la gerarchia sembra costituire o almeno risultare dall'eroismo; nella tragedia il grande pensatore e il selvaggio, l'austero e il dissoluto, il mistico che crede a tutto e lo scettico che dubita di tutto, saranno egualmente trattati. Se la loro ragione cercherà di evitarla, il loro istinto la troverà nelle proprie profondità; la tragedia è nel pensiero umano, che limitato dalla propria umanità sente l'infinito e l'eterno non potendo nella propria forma momentanea essere nè l'uno nè l'altro.
E mentre la prima tragedia si ripete nella immobilità dei proprii dati a traverso tutte le generazioni, scoppiano fra di esse i drammi storici composti di tragedia e di epopea. In essi l'urto non è più fra il pensiero umano e il pensiero cosmico, ma fra il pensiero storico di una generazione e quello della serie alla quale essa appartiene. Il ritmo dei periodi e delle forme storiche regola i mutamenti della scena e delle parti; i maggiori individui dì ogni generazione non recitano che nei prologhi e nei finali, giacchè il loro ufficio è doppio e debbono significare in sè stessi la morte e la risurrezione. La loro vita si diffrange in questo sforzo per ricomporsi nella idealità del tipo storico.
Nessuna generazione di popolo è quindi senza tragedie. La loro sceneggiatura potrà variare dall'olocausto all'assassinio: i personaggi avranno o crederanno di avere in sè stessi scopi ben più piccoli di quelli pei quali muoiono, e daranno della loro inevitabile sconfitta finale meschine ragioni di più meschini errori commessi; ma la fatalità delle idee, che per tragica spira discendono dall'infinito spirituale nella realtà storica, saranno le vere cause delle loro catastrofi.
A distanza di secoli le grandi vittime si rimandano il medesimo grido di dolore e di orgoglio; a distanza di continenti e di mari le cime tragiche si veggono l'una l'altra, e Cristo morente si volge verso il Caucaso, e Napoleone da Sant'Elena guarda verso il Golgota.
I più grandi uomini, che conchiusero o iniziarono le più grandi epoche, soccombettero nelle più disperate tragedie, Mosè morì sul Tabor, Cesare sotto il pugnale di Bruto, Alessandro nelle acque del Cidno: Colombo, che scopre l'America, ne ritorna carico di catene, il rogo brucia quasi tutti coloro che agitano nelle tenebre la fiaccola del pensiero, il trionfo è negato a tutti quelli che vincono nel campo dell'idea. La tragedia del pensiero umano col pensiero cosmico ricompare nei drammi storici, nei quali il grand'uomo non può interamente assorbire nè la generazione che spinge nel futuro, nè indovinare quella che ne evoca; e allora tutto quanto rimane fuori di lui, o dietro alle sue spalle nella storia del suo popolo, o davanti alla sua fronte oltre i raggi de' suoi occhi nel destino del popolo che sta per sorgere, si congiunge sul suo capo come un'immensa vôlta che si abbassa e lo schiaccia.
Una più tragica necessità aggiunge ancora la commedia alla tragedia. Quindi tutte le generazioni innumerevoli dei piccoli si addossano feroci al grand'uomo per rattenerlo lungo la via, o insinuare almeno nell'eroico dolore della sua meditazione lo spasimo della loro mordacità animalesca; e lo odiano come non possono odiarsi fra sè medesimi, e lo perseguono col coraggio che la coscienza del numero dà agli insetti e l'inconscio dell'istinto ai bruti. Dietro al tallone di ogni Achille vi è sempre un Tersite, a fianco di ogni Sigfried vi è un Hagen.
La commedia ride delle ferite che prodiga senza accorgersene, e ha ragione; ma ride anche di quelle di cui s'accorge, e ha torto. Nullameno, le sue bassezze sono necessarie all'altezza della tragedia per attirare l'attenzione di coloro, che migrano nella storia e guardano continuamente indietro per rinvigorirsi il coraggio di andare avanti.
Mentre la tragedia segna il passaggio di un periodo ad un altro, e quindi ha per ragione di dolore e di grandezza la differenza fra la totalità di quanto una generazione morente consegna a quella che nasce e la piccola originalità che vi aggiunge, differenza e contraddizione che spiegano il disprezzo delle generazioni pei proprii grandi troppo preoccupati del futuro; la commedia invece è tutta circoscritta nella vita storica della generazione che la produce. E come non può abbracciare tutta la sua vita, giacchè cogliendone l'agonia si muterebbe in tragedia, così in quella stessa dell'individuo non può cogliere che un momento, il quale isolato diventa falso. La commedia non esprimerà mai tutto l'uomo, non potendo farlo morire: ma se non può farlo morire, non può nemmeno farlo vivere. La vita comica nell'arte e nella natura non sarà mai che un frammento ingannevole della vit a reale.
Se la commedia tripudia nella gioia del proprio istante, presto si cangia in farsa; se pensa nel proprio tripudio e sale fino alla satira, tramonta tosto nella tragedia. Essa non è dunque che un sorriso su due labbra fatte per parlare o in due occhi aperti per vedere.
L'efficacia delle rappresentazioni comiche e tragiche è quindi profondamente diversa: il riso suscitato dalle prime inclina l'anima verso il piacere irreflessivo del sentimento, l'angoscia eccitata dalle seconde l'innalza sulla cima più alta del pensiero, scoprendole il destino del quale vive e del quale deve morire.
Nessun grand'uomo è passato senza tragedia nella storia. Quando la catastrofe non potè livellare la sua testa alle altre colla mannaia, la sua vita sopportò tutta la contraddizione che parve mancare alla sua morte. Il presente fu per tutti i grandi uomini una carcere, donde spingevano il pensiero nel passato e nel futuro: il loro linguaggio non era quello dei discorsi loro indirizzati, la loro parola suonava come un'eco che rispondesse ad echi lontani. Sulla loro fronte, che di rado il diadema segnò del proprio peso, le rughe s'impressero ben presto; i loro occhi avevano e comunicavano l'abbarbaglio d'invisibili visioni. Invano talora i piccoli impietositi offersero loro con ingenua vanità il conforto della propria ammirazione: una superba malinconia isolava quegl'inconsolabili e metteva sulle loro labbra un triste sorriso perfino nel tumulto dei maggiori trionfi.
No, non compiangete, non adorate! Lasciate Cristo morire sulla croce: tutta la vostra riconoscenza non vi farà penetrare nel secreto della sua bontà; lasciate Socrate bere la cicuta: il perchè del suo eroismo resterà sempre un mistero per voi che non l'avreste fatto; lasciate Dante errare nell'esilio: cacciato da Firenze discenderà nell'altro mondo; lasciate Colombo ritornare dall'America carico di catene: egli che l'emancipa, ne riporta le catene all'Europa che deve spezzarle; lasciate Napoleone morire a Sant'Elena: egli che ha liberato l'Europa dal dispotismo, ultimo despota deve finire prigioniero; lasciate Garibaldi esulare a Caprera: egli ha fatto l'Italia; che cosa potreste voi fare per lui?
Che cosa v'importa se Galileo diventa cieco e Beethowen sordo? Non sono già gli occhi che scoprono i segreti della natura, o le orecchie che ne sorprendono le armonie. Che cosa v'importa se Camoëns muore all'ospedale e Giannone in carcere? I loro poemi e le loro storie non saranno per questo meno liberi, poichè la fortuna della vita non ha mai influito sulle opere dei grandi. Essi vivono soli: anche quando il mondo li acclama si sottraggono per un invincibile orgoglio alle ovazioni. Vittor Hugo si rifugia a Guernesey, Carlyle si chiude nel proprio studio come in una cella, Wagner erra per tutte le campagne come un bandito.
Lasciate passare la tragedia del pensiero e andate piuttosto a criticare quella dell'azione. Ieri è morto Gambetta, fondatore della terza repubblica francese, giovane, nell'apoteosi della vittoria: Bismark, il suo gigantesco rivale, ha taciuto e forse per ciò tutti gli altri hanno parlato sul destino di un uomo, che diventerà un'epoca nella storia del proprio popolo. Cavour morì come Gambetta; Mazzini, che era già stato vinto prima, venne a spirare in Italia come le rondini vecchie tornano, potendo, a morire sotto il tetto della casa nella quale nacquero. Che cosa hanno pensato tutti questi grandi all'ultima ora, mentre i piccoli ciarlavano sapientemente della loro opera e cercavano fra sè stessi il loro successore? Vela, scolpendo la testa di Napoleone I morente, è forse riuscito ad esprimerne il supremo pensiero in un dolore che i muscoli non sentono più e in un'idea che la morte non può colpire: ma il tragico capolavoro rimane per sempre un mistero, perchè una maschera non è un viso, nè una espressione della sua fisonomia tutto il suo pensiero.
La tragedia artistica non può contenere tutta la tragedia spirituale nella propria azione.
Se Cristo non avesse predicato ed agito, forse che non sarebbe stato Cristo egualmente? O forse che Cristo non pensò oltre quello che disse e non volle oltre quello che operò? La sua tragedia nella storia non è dunque che una scena di quella che in lui si svolse, e forse la sola accessibile al mondo e quindi la più bassa. Il Cristo vero è quello che non conosciamo, ma indoviniamo confusamente attraverso le sue opere e le sue parole.
La tragedia artistica ha per limite e quindi per negazione l'azione. Eschilo ebbe d'uopo d'una favola per scrivere il Prometeo, che gli riuscì grande oltre i confini della medesima.
La tragedia del pensiero balenò allo sguardo di Shakespeare quando scrisse l'Amleto, poichè l'infelicità del suo principe danese non deriva già dall'assassìnio del padre o dall'incesto della madre, ma dalla contraddizione di una coscienza eroica col mondo, nel quale anche fuori della propria famiglia avrebbe trovato gli stessi dolori e gli stessi delitti. Amleto non è un malato, padre di tutti i futuri romantici come si è preteso; allora non sarebbe tragico, perchè nella tragedia occorrono due forze egualmente libere. Ma è l'uomo che si libra col pensiero al di sopra della propria condizione, oltrepassando i confini del proprio tempo, sfondando le convenzioni della morale e della religione per affacciarsi fra le loro rovine all'infinito. Il suo dolore è profondo ma sano, come sicura la sua opera e puro il suo amore.
Ma neanche a Shakespeare fu concesso di rappresentare la tragedia del pensiero: il suo abbozzo rimasto nella storia dell'arte accanto al Prometeo di Eschilo non è che ombra ed eco.
Se l'arte potesse giungere nelle proprie rappresentazioni alla tragedia del pensiero, i suoi tipi, troppo più alti di Prometeo e di Amleto, si chiamerebbero Satana e Cristo: ma Dante si è esaurito nella caricatura del primo e tutto il cristianesimo si è estenuato nella spiegazione del secondo.
E vi è nella vita e nella storia una posizione più tragica di tutte quelle trovate dall'istinto artistico, nella quale periscono i grandi uomini indarno preparati dalla natura ai grandi avvenimenti. Non è vero, non è possibile nemmeno come ipotesi che i massimi genii sieno soli e un tegolo caduto per caso sulla testa di un ragazzo, che si chiamava Cesare o Napoleone, potesse arrestare o deviare la storia del mondo. Bisogna che nel disegno della storia molti individui fossero capaci di quella stessa funzione, nella quale uno solo appare per ragione di unità. Nessuno ha mai saputo o saprà mai in qual luogo o in quale circostanza la storia avesse dato la posta a questi grandi sconosciuti e per quale accidente, uguali nelle forze e nella coscienz a delle intenzioni, arrivassero a tali distanze di tempo che il primo diventò l'unico, e l'ultimo non fu sospettato da alcuno. Forse il fatto che li rattenne fu frivolo e l'ostacolo leggero, perchè la storia non avendo più specialmente bisogno di alcuno fra essi era indifferente ai loro nomi. La loro giovinezza ebbe le medesime ansie e i medesimi sogni; la loro vita era scissa: saranno sembrati stravaganti se non pazzi ai mediocri ragionevoli che li circondavano. Ma quando venne l'elezione e l'eletto si chiamò Cesare, tutti gli altri innominati sentirono il coperchio del sepolcro racchiudersi sopra la loro anima.
Perchè si parla dunque ancora della Maschera di ferro, di questo povero gemello di Luigi XIV, che morì alla Bastiglia senza aver mai potuto mostrare il volto? Non è dunque una maschera il viso di ogni uomo grande, al quale gli avvenimenti non consentono di mostrarsi? Che cosa è più il pugnale di Bruto o lo scoglio di Sant'Elena, che conchiudono una vita gloriosa nella quale l'individuo assorbì tutto un mondo, dinanzi a questa prigionia nell'ombra e nel silenzio sofferta dai rivali, cui fu contesa l'espressione del pensiero e l'azione della volontà?
Dov'è il poeta che scenda in questo abisso e sappia poi descriverlo? Da chi sarà compreso questo poeta degl'incomprensibili? Perchè Miche langelo e Kant, vecchi, a distanza di secoli pronunciano la stessa parola: sono stanco?!
Immaginate Cristo muto e paralitico, e ditemi se l'impotenza ad agire non sarebbe stata per lui più straziante di tutti gli strazii che la fantasia de' suoi credenti ha poi accumulato nella sua passione?
Ah! non turbiamo con questa tragica curiosità la tragedia di coloro, che portarono nella eternità il rimpianto di avere inutilmente vissuto!
Una strana leggenda circola nei giornali sopra Emilio de Girardin,
Da quando giovinetto ebbe i primi sogni di gloria egli non chiuse più la porta del proprio appartamento. Una notte un amico va a trovarlo per un bisogno improvviso. Suona, il portinaio della casa gli apre, infila correndo le scale, arriva all'uscio di Girardin: è socchiuso. Un sospetto lo turba, ma non si ferma, entra. La camera è buia, Girardin dorme. Al rumore si sveglia.
— Ah!
— Come mai, esclama l'amico che aveva già acceso un fiammifero, il tuo
uscio è socchiuso?
— Lo lascio sempre così.
— Perchè?
Un lampo passò negl'occhi di Girardin:
— Se fosse chiuso, il solo ritardo necessario ad aprirlo potrebbe
farmi perdere l'occasione suprema della mia vita.
L'altro, che non comprese, alzò le spalle.
Un giorno a Girardin vecchio fu chiesto col sardonico sorriso della gente seria, se adesso chiudeva l'uscio.
— Ieri per la prima volta: ho compiuto i settant'anni. Troppo tardi!
Troppo tardi, l'ultima parola di tutti i destini falliti.