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parte quinta 331


— Gli ho da dire altro?

— Dagli la mesata sua.

— Centosessanta lire?

— Sì: fatti dare la ricevuta.

— Va bene. Vuoi ancora del caffè?

— Sì: dammene ancora. È debole oggi.

— Siccome sei nervoso... Voleva dirti: andremo noi al ballo dell’Unione?

— ... sì.

— Posso farmi fare, per allora, un abito di broccato crème?

— Ti starà bene il colore?

— La sarta dice di sì.

— Esse dicono sempre così. Ma fattelo pure.

— Metterò le perle al collo.

Egli non rispose. Guardava nella sua tazza e pensava. Poi la fissò lungamente, tanto che Caterina se ne meravigliò.

— Orsù — disse poi, guardando l’orologio — io debbo andarmene.

Si alzò e ella lo seguì, com’era solita. Egli attraversò la casa, tutta: al suo scrittoio si fermò, cavò dalla scrivania un portafogli molto grosso e se lo pose in tasca.

— T’ingrossa — disse ella, ridendo.

— Non importa.

In camera egli gironzò un poco, come se cercasse qualche cosa dimenticata. Poi prese i guanti e il cappello.

— Dovresti prendere il paletôt: l’aria è rigida.

— Hai ragione, lo prenderò.

Finì di abbottonarsi i guanti: ella, ritta, lo guardava