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parte quinta | 333 |
— Eccola che piange, adesso, la mia creatura! Se ho scherzato! Sono uno sciocco, io; faccio certi scherzi stupidi che ti fanno piangere. Ti prego, non piangere più.
— Non piango, Alberto mio.
— Piglia un po’ del mio caffè.
— No, grazie: non ho voglia.
— Piglialo, piglialo.
— Ho da fare la comunione, oggi, verso l’una.
— Ah!... scusami allora. Non capisco mai nulla. In che chiesa vai?
— Alla chiesa solita, Santa Chiara.
— Ma la tua pietà religiosa ti fa penare, cara.
— Tutto mi fa soffrire, Alberto mio. È il mio destino. Ma soffrire per Dio è bello.
— Facciamoci monaci tutti due, Lucia.
— Tu scherzi: ma io volevo farmi monaca sul serio. Fu mio padre che non volle. Faccia il Signore che egli non si penta mai di questo divieto.
— E perchè, Lucia? Pensa: se ti fossi fatta monaca, non avresti conosciuto me, non ci saremmo amati, e non saresti la mia moglie cara.
— A che serve l’amore, a che serve il matrimonio? Tutto è corruzione, tutto è putredine nel mondo.
— Lucia, tu sei lugubre.
— Perdonami, Alberto; ma la tetraggine, che m’infosca l’anima, si espande e contrista colui che amo. Sarò sorridente per non contristarti.
— Povera cara! so quanto ti costo. Ma vedrai, starò molto meglio, presto, e ci divertiremo in questo inverno. Avremo feste, balli, corse...