Eugenio Anieghin/Capitolo Ottavo

Capitolo Ottavo

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Capitolo Settimo

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CAPITOLO OTTAVO.

Fare thee well, and if for ever.
Still for ever fare thee well.

Byron.

Allorchè io fioriva tranquillamente nei giardini del Liceo; allorchè io leggeva molto Apuleio e niente affatto Cicerone; la Musa m’apparve un giorno di primavera nella valle misteriosa, presso alle acque che scorrevano in silenzio. La mia cella di studente s’illuminò a un tratto. La Musa mi vi imbandì lauti rinfreschi; mi insegnò a celebrare i piaceri della gioventù, la nostra antica gloria e i trepidi sogni del cuore. Quando la menai fuori meco nella società, la gente l’accolse con benevolenza e mi fece animo a proseguire d’amarla. Il vecchio Dergiavin1 volle conoscermi, e mi benedi nei suoi ultimi istanti di vita.

Facendo mia unica legge il mio capriccio, intarsiai nei miei scritti ogni mia bizzarria e impressione. Lanciai la Musa in mezzo allo strepito dei banchetti e delle dispute, e divenne il terrore delle guardie notturne. Pagò coi carmi il suo scotto in quei conviti, scherzando come una baccante, bevendo e cantando in onore dei commensali. E la gioventù corse dietro ai suoi passi ed io insuperbiva cogli amici di possedere sì leggiadra compagna. [p. 185 modifica]

Io poi abbandonai la loro società, e ne fuggii lontano. La Musa mi seguì. Quante volte coi suoi racconti amabili essa addolcì il mio amaro esilio! Quante volte, frai dirupi del Caucaso, montò a cavallo meco come un’altra Leonora2 al lume di luna! Quante volte sulle spiagge della Tauride mi condusse attraverso le nebbie oscure a udire il rombo dell’Eusino, il perenne inno delle Nereidi, la danza eterna delle onde, il vasto concento del mare in onore del padre dei mondi!

Lungi dalle città pompose e dai festini illustri, essa visitò nelle infelici steppe della Moldavia le tranquille tende della razza vagabonda delli Zingari. E fra quelle divenne selvaggia, e obliando il linguaggio degli Dei, favellò un idioma strano e indigente, e modulò canzoni mezzo barbare..... Ma in un subito, cambiò il destino della mia Musa. Eccola seduta nel mio giardino, vestita da signorina nobile, con un pensiero melancolico negli occhi e un volume francese fralle mani.

Ora per la prima volta io la meno a un raut del gran mondo. Io guardo le sue bellezze con un brivido di gelosia. Essa passa tralle file strette delli aristocratici, dei zerbini militari, dei diplomatici, delle dame orgogliose. Si asside in silenzio, gira gli occhi attorno e si diverte a veder passare le signore in gran gala che salutano la padrona di casa, e compongono poi nel salotto un quadro vivente di cui i signori formano, per così dire, la cornice. Ammira l’ordine perfetto delle [p. 186 modifica]società oligarchiche, la calma d’una nobile alterigia e quella confusione di qualità e di età diverse.

Ma chi è costui che se ne sta muto e tetro nella folla loquace e scintillante? Sembra straniero a tutti. Passano innanzi a lui tutte quelle figure come una serie di noiose apparizioni. Gli sta impresso in fronte lo spleen o l’arroganza afflitta. Perchè trovasi egli qui? Sarebbe forse Eugenio?.... Possibile!...

“Sì, è desso.”

“Da quando in qua tornò? È sempre lo stesso originale o s’è corretto? Ditemi, perchè mai torna a star fra noi? Che parte vuol fare, che personaggio vuol rappresentare da vero commediante ch’egli è? Farà il Melmoth, il Cosmopolita, il Patriota, il Childe Harold, il Quacchero, il Tartufo? Che maschera presceglierà?... O forse si contenterà d’essere un galantuomo come voi ed io, come tutti siamo?”

“Comunque sia, io gli darò almeno il consiglio di rinunziare a quella moda rancida. È assai lungo tempo ch’egli gabba il mondo...”

“Lo conoscete?”

“Sì, e no.”

“Perchè dunque lo trattate con tanta acrimonia?”

Forse perchè ci travagliamo indefessamente a giudicar di tutto; perchè l’imprudenza d’un’anima focosa o ferisce o allegra la nullità3 egoistica; perchè lo spirito amante di libertà e di spazio, forza gli altri a fargli posto; perchè troppo spesso acconsentiamo ad accettar ciarle per fatti; perchè la stoltezza è credula e maligna, perchè le cianciafruscole hanno importanza per gli uomini d’importanza, e perchè la [p. 187 modifica]mediocrità sola è all’altezza delle nostre spalle, e non ci sembra stramba e folle?

Fortunato colui che in gioventù fu giovine; colui che maturò nella giusta stagione; che seppe sopportar con coraggio il freddo ognor crescente dell’età, che non si pascè di sogni ambiziosi e grandi; che non allontanò da sè il profano volgo; che di venti anni fu un damerino e un bravo, e di trenta anni prese una moglie adorna d’una buona dote; che di cinquanta anni si liberò dei suoi debiti particolari, e altri; che zitto zitto, piano piano, acquistò riputazione, onori e ricchezze; e di cui tutti s’accordano a dire: il tal di tale è un’ottima persona.

È un tormento il pensare che la gioventù ci fu data invano, che la tradiamo, e che ci tradisce ad ogni istante; il veder che le nostre migliori brame, le nostre più floride speranze, si sono sbiadite e sperse come le foglie dei boschi al vento d’autunno. È affannoso il mirare davanti a sè in prospettiva una infinita serie di pranzi e dover considerar la vita come una funzione e seguir le pedate della gente senza poter dividere nè le opinioni, nè le passioni delle masse.

Converrete meco, lettore, che è una posizione intollerabile quella d’un uomo, il quale divenuto l’oggetto delle critiche universali, è dichiarato dalle persone di senno un originale pretenzioso, o un matto feroce, o un mostro diabolico, o finalmente il fratello carnale del mio demonio familiare. Anieghin, (io torno a intrattenervene), Anieghin, dopo di avere ucciso in duello l’amico; dopo di avere vissuto sino a ventisei anni senza scopo e senza giudizio, [p. 188 modifica]languiva in una inerzia fracida, senza impiego, senza moglie, senza occupazione, e non sapeva prender gusto a nulla. Lo spleen s’indonnò di lui; volle mutare aria (pensiero funesto, croce volontaria d’un gran numero di ricchi). Lasciò il suo villaggio, la solitudine delle selve e dei campi, ove di continuo gli appariva una ombra sanguinosa, e incominciò a viaggiare a caso e in preda a una idea unica. Ma i viaggi, come tutto il resto, lo annoiarono. Tornò a casa, e, come Ciaschi, dalla nave passò al festino.

E la folla ondeggia e mormora, e una notizia vola di bocca in bocca.... Una dama accompagnata da un grave generale, s’approssima alla padrona di casa. Non è nè premurosa nè sdegnosa nè loquace. Non guarda la gente con disprezzo, non cerca, non allice gli applausi e l’attenzione, non fa smorfie e contorsioni; ha un tratto nobile, semplice, modesto, e tutti l’ammirano. Essa è il più perfetto modello del comme il faut. — Scusate: anche questa è una espressione che ci manca.

Le giovani signore si assidevano già presso ad essa; le vecchie le sorridevano, i cavalieri la salutavano profondamente, e cercavano di ottenere un suo sguardo; le fanciulle attraversavano il salotto con passo più lento quando passavano avanti a lei, e il generale che l’accompagnava, alzava il ceffo e le spalle più di tutti gli astanti. Essa non poteva dirsi bella, ma in tutta la sua persona, dal sommo della testa alla punta dei piedi, non avresti potuto scoprire ombra di ciò, che nei crocchi aristocratici di Londra, si chiama vulgar... Vorrei tradurre questo termine, ma non posso.... è nuovo nel nostro idioma, e temo [p. 189 modifica]che non ci voglia allignare. Farebbe all’uopo in un epigramma.4 Ma riedo alle nostre dame. La vezzosa di cui parlavamo, tanto più vezzosa ch’era naturale nelle sue maniere, stava accanto a Nina Voronsca la Cleopatra della Neva. — Eppure la bellezza abbagliante di questa non eclissava quella della sua vicina. Perchè? Perchè Nina era una statua.

“Se non erro, pensava Eugenio,” è dessa. “Ma sì; è appunto dessa.... No.... Come! Da un oscuro villaggio nelle steppe!...”

E prendendo l’occhialino che non lasciava mai, lo volge spesso su quella signora, i cui lineamenti gli rimembrano una persona obliata da un pezzo.

“Principe, non conoscereste quella che discorre coll’ambasciador di Spagna, e che ha un turbante chermisi?”

Il Principe osserva Anieghin con stupore.

“Ah!” sclama, “è vero che non vai più in società da molto tempo. Aspetta, io ti presenterò a lei.”

“Ma chi è essa?”

“È mia moglie.”

“Sei ammogliato! Non lo sapevo. Da quando in qua?”

“Da circa due anni.”

“Con chi?”

“Con una Larin.”

“Taziana?...”

“La conosci?”

“Io sono loro vicinante.”

“Dunque vieni.” [p. 190 modifica]

Il Principe s’accosta alla consorte, e le presenta il suo collaterale ed amico. La Principessa lo saluta. E qualunque si fosse il turbamento, l’emozione, la meraviglia che essa provò in quel punto, seppe celarla in modo, che serbò la sua gravità, la sua calma, e riverì Eugenio con indifferenza.

No; essa non abbrividì, non impallidì, non arrossì a vicenda. Non increspò le ciglia, non si presse nemmen le labbra. Anieghin la contemplava attentamente, ma non poteva rinvenire in lei la Taziana d’altre volte. Volle dirigerle qualche parola, ma gli mancò la voce. Allora, la Principessa gli domandò da quanto tempo era giunto, e se veniva dalla loro provincia. Quindi i di lei occhi stanchi si fermarono sul generale, ed egli ed essa sparvero. Eugenio rimase immobile e stordito.

È questa quella stessa Taziana, alla quale l’austero Eugenio, nel principio della nostra istoria, dava lezioni di morale, in una villa remota e agreste; quella Taziana, della quale egli conserva tuttora un biglietto, schietta espression d’un cuore che svela apertamente il suo secreto?... È questa, quella stessa fanciulla, oppure è una altra? Come mai quella fanciulla ch’egli respinse con tanto stoicismo, e che lo amava tanto, divenne si indifferente e si ardita verso di lui?

Egli lascia il salotto troppo angusto. Torna a casa tutto pensieroso. Il suo sonno tardivo è tramezzato di visioni or triste or liete. Si desta; il cameriere gli consegna uno scritto. Il Principe NN. lo invita gentilmente a una soirée.5 [p. 191 modifica]

“Dio! da lei!... ci andrò; ci andrò.”

E in gran fretta scarabocchia due righe di risposta.

Che gli accade? Che farnetica? Che cosa ribolle in fondo a quella anima indolente ed egoista? La stizza, la vanità, o l’amore supplizio della gioventù?

Anieghin nuovamente conta le ore; nuovamente troppo lunghi gli sembrano i giorni. Battono le dieci; egli esce, vola, entra nel palazzo, e tremante, s’inoltra nel salotto. Trova Taziana sola, e passano alcuni minuti a quattro occhi. Anieghin non può parlare; turbato, smarrito, anelante, risponde appena. Mille idee strambe gli girano per la testa. Non cessa di contemplar Taziana. Essa se ne sta tranquilla e tutta in sè raccolta.

Sopravviene il marito e interrompe quel penoso tête à tête. Egli rammenta ad Eugenio le beffe e le malizie della lóro infanzia, e ne ridono di buon animo. Frattanto gli invitati arrivano. I sali grossolani della malignità mondana condiscono la loro conversazione. Ma intorno alla principessa il discorso è brillante di spirito senza leziosaggine; di quando in quando vi balena un raggio di profondo buon senso; e sempre ne stanno lontane le massime d’eterna verità, le pedanterie, e quelle parole svergognate che inquietano gli orecchi delicati.

Il fiore della nobiltà, i nomoleti della moda;

[p. 192 modifica]gli stolidi inevitabili, quelle caricature che incontransi dappertutto, s’accoglievano lì. Lì s’adunavano le signore attempate, con ceffi da mascheroni e scuffie fregiate di rose; li capitavano alcune fanciulle che non sorridean mai; lì un ambasciatore che perorava sulle faccende dello Stato; lì un vecchio dai crini profumati che motteggiava come al tempo di prima, con sottigliezza e con garbo, maniera che anche al dì d’oggi piace. Eravi anche un dilettante d’epigrammi, il quale tutto criticava, e biasimava la troppa dolcezza del tè, la goffaggine delle signore, il contegno dei signori, le dottrine d’un romanzo oscuro, il monogramma fatto per due sorelle, le bugie delle gazzette, la guerra, la neve, e sua moglie. Eravi N. N. celebre per la sua infamia; N. N. per cui, o Saint-Priest,6 spuntasti tanti lapis sugli album di San Pietroburgo. Eravi un secondo dittatore dei balli, che stava ritto fralle due porte,7 attillato come un figurino del giornale delle mode, bianco e rosso come un cherubino, stringato, mutolo e immoto. Eravi un viaggiatore volante; eravi un impertinente inamidato, che moveva tutti a riso colla sua aria affaccendata; uno sguardo scambiato in silenzio fra gli astanti, esprimeva l’opinione che si aveva di lui.

Per tutta quella sera, Anieghin non badò che a Taziana sola. Taziana però non è più quella ragazzina timida, innamorata, povera e semplice; ma una principessa maestosa e fredda, una dea innaccessibile e superba della imperiale Neva. O uomini! Somigliate tutti alla vostra prima madre Eva. Ciò che [p. 193 modifica]vi fu concesso in dono, non vi alletta; il serpente ognora vi tira a sè sotto l’albero della scienza. Solo il frutto vietato vi tenta, e senza quello il paradiso più non vi sembra paradiso.

Come è cangiata Taziana! Come s’è bene compenetrata dello spirito del suo nuovo rango! Come si è presto appropriato i modi d’una dignità stentata! Chi ardirebbe cercare l’umile campagnola di tempo fa, in quella altera e disinvolta legislatrice dei saloni? Ed egli potè infiammare quel cuore! Alzando li occhi afflitti alla luna, nelle quiete notti, a lui essa pensava intanto che venisse il sonno; e con lui la gentil vergine sperava finire tranquilla il sentiero della vita.

Ogni età è soggetta alle smanie d’amore, ma mentre sono benefiche alla virtuosa giovinezza come la pioggia di primavera ai campi, sono funeste alla vecchiaia. Le procelle delle passioni rinfrescano, rinnovellano, maturano i cuori di venti anni, e fan loro produrre splendidi fiori e saporiti frutti. Ma nell’età provetta e infeconda, il ravvivamento degli affetti non genera che doglia e pianto, simile alle piogge d’autunno che sfrondano i boschi, e convertono i prati ameni in fetidi pantani.

Non v’ha loco a dubbio: Eugenio è perdutamente invaghito di Taziana. Passa i giorni e le notti in amorosi vaneggiamenti. Sordo alle severe rimostranze della ragione, ogni mattino egli va a far sentinella sul verone o nel vestibolo; la segue come ombra il corpo; si stima beato se gli vien concesso di assettarle il soffice boa sulle spalle, di stringerle amichevolmente la mano, di farle strada a traverso [p. 194 modifica]la folla variopinta dei lacchè, o di raccogliere il fazzoletto cadutole a terra.

Ma checchè egli faccia per piacerle e per mostrarle il suo affetto e il suo tormento, essa non se ne accorge. Lo accoglie con gentilezza, gli dirige due o tre parole; talvolta gli fa un lieve inchino, talvolta non lo guata nemmeno; insomma non ha traccia di civetteria; quindi è che il gran mondo non la può patire.

Anieghin soffre, le sue guance si scolorano e Taziana non se ne avvede, o non se ne cura. Anieghin divien scarno e macilento, e quasi quasi volge all’etisia. Gli amici lo esortano a consultare un medico; tutti lo consigliano ad andare a far le bagnature, ma egli è più disposto a scendere da Plutone, che a lasciar la capitale. Taziana non gliene sa grado; così sono le donne! Egli s’ostina; spera, sospira; e intanto istecchisce. Finalmente, più audace di quello che sarebbe forse in buona salute, stende con mano infiacchita dalla febbre un biglietto appassionato, diretto alla principessa. Quantunque egli non avesse gran fiducia nelle lettere, pure, spinto dalla violenza della passione, prese la penna e così sfogò il cuore.

Ecco la sua dichiarazione tale e quale.

”Signora! Io lo prevedo, vi offenderà questa franca confessione d’un secreto amore. Che amaro disdegno rifulgerà nei vostri superbi sguardi!

”Che voglio io? Perchè vi schiudo il mio cuore? Perchè vi porgo io così l’opportunità di deridermi e di vendicarvi?

”V’incontrai altre volte per caso; credei [p. 195 modifica]scorgere in voi una scintilla di affetto, ma non volli prestar fede agli occhi miei, non diedi libera carriera alla mia consueta smania, non volli rinunziare alla mia libertà.

”Una sola cosa ci ha disuniti.... Lenschi cadde misera vittima della sua suscettività.... Io mi divelsi da tutto ciò che m’era caro.... Straniero a tutti gli uomini, non amando più niente, io pensava che la libertà e la pace potessero supplire la felicità. Dio mio! Come io errava! Come sono punito!

”No: vedervi ad ogni istante; seguirvi in ogni luogo; cogliere alla sfuggita i vostri sorrisi, i vostri raggi, i vostri moti; udir la vostra voce, ammirare le vostre perfette doti; spasimar per voi nelle torture, agonizzare e spengersi.... questa è la felicità!

”Mi era offerta e l’ho respinta!... per voi, io vo vagando a caso nel mondo; per voi mi è cara la luce, mi è caro il tempo; per voi, consumo in molesta inazione gli anni largitimi dal fato che già da per loro erano assai tristi.... Io so che i miei momenti son contati; ma se deve la mia vita prolungarsi, se deve arrivare fino a domani, convien ch’io speri di vedervi nella giornata....

”Nelle mie preghiere, io temo d’incontrare il vostro truce sguardo, e d’udire le vostre rampogne. Se sapeste quanto è tormentosa la sete d’amore, come arde il petto e il sangue.... Se sapeste come è difficile placare la passione col ragionamento; come è crudele volervi abbracciar le ginocchia, e spargere piangendo a’ vostri piedi, le preci, le lacrime, tutto ciò che esprime il dolore e l’affetto, e frattanto dover imprigionare li sguardi e le parole in una [p. 196 modifica]gelida etichetta; dover conversare con voi tranquillamente, e mirarvi con volto sereno!

”Ma ormai, non ho più forza di tenermi a freno. Io son vostro; io m’abbandono al mio destino.”

Nessuna risposta. Scrive un secondo, un terzo biglietto; medesimo silenzio. Va in una soirée.... appena entrato, la incontra.... com’è severa!... Essa non lo guarda, non gli parla, è fredda come il dì dell’Epifania. Eugenio fa di tutto per reprimere la sua indignazione. Le scocca una occhiata investigatrice. Dov’è la timidezza, dov’è la simpatia, dov’è il pianto?... Non ve n’ha più vestigio. Eugenio non anela che ira e vendetta.

Se almeno potesse credere tal condotta suggerita dal timore che il marito o la gente indovinino le conseguenze d’una debolezza momentanea! Ma così non è.... Non v’ha speranza alcuna.

Eugenio esce, maledicendo la sua stolidezza, e poi abbandonandovisi di nuovo fa divorzio colla società. Solo nel suo quieto gabinetto, si ricorda quel tempo in cui una aspra ipocondria lo tartassava persino nel gran mondo, lo ghermiva, lo incarcerava in un cantuccio oscuro e ve lo tenea rinchiuso a chiave. Ricominciò a leggere senza criterio. Lesse Gibbon, Rousseau, Manzoni, Herder,8 Chamfort,9 Madama di Stäel, Bichat,10 Tissot;11 lesse [p. 197 modifica]lo scettico Bayle;12 lesse Fontenelle,13 e non volendo mostrarsi parziale, lesse anche alcune opere nostre: gli almanacchi e i giornali, che mi fan ripassar le mie lezioni e che mi pettinano pel di delle feste con certi complimenti pieni di garbo.

E sempre bene.

Ma ahimè! Egli leggeva cogli occhi; la mente come farfalla errava lontan dal libro. I sogni, i desiderii, i patimenti suoi vincono ogni suo sentimento. Fra le righe stampate, egli ne legge altre tutte diverse, cogli occhi della mente. Queste righe imaginarie assorbono tutta la sua attenzione. Esse gli ricordano il tempo passato ora sereno, ora fosco; mille progetti, farneticaggini, minacce, interpetrazioni, prognostici; una lunga istoria strana, eppur vera, e le lettere d’una gentil fanciulla. E profondandosi ognor più in quella fantasmagoria, ravvisa in mezzo a una oscurità diafana lo spettro instabile del Faraone. Poi, cangia la scena, ed egli scorge un giovine giacente sulla neve come sopra un letto e che sembra dormire... E ode queste parole: “Come! morto!” Talvolta rivede i suoi nemici da gran tempo obliati, i suoi calunniatori insolenti e codardi, le belle traditrici che adorava, i perfidi parasiti che lo adulavano; talvolta distingue una villa circuita d’alberi, e, alla finestra, discerne essa..... essa sempre! [p. 198 modifica]

S’interna cotanto in tali rimembranze, che sta per perderne il giudizio. Diverrà maniaco o poeta. Buon per noi se si fosse appigliato a questo ultimo partito. E lo poteva, chè di già incominciava a comprendere il meccanesimo del verso russo. Quando, seduto solo al caminetto davanti a una bella fiamma, lasciando cadere nel fuoco ora una pantofola, ora un giornale, canterellava: Benedetta, o Idol mio, Eugenio pareva proprio un poeta.

I giorni passano. L’atmosfera s’intiepidisce, l’inverno fugge. Eugenio non verseggia, non muore, non impazza. La primavera lo ristora. Un bel mattino egli abbandona le doppie finestre, il caminetto, la stanza ove ha invernato come una marmotta e se ne va a spasso in slitta lungo la Neva. I blocchi di ghiaccio galleggianti sul fiume scintillano al sole. La neve strutta e calpestata dai pedoni cangia le strade in pozzanghere.

Ove si avvia Eugenio con passo sì sollecito, a traverso quel fango? L’avete indovinato per l’appunto. Va da lei, va da Taziana, il nostro incorreggibile originale. Entra più morto che vivo. Non trova nessuno nell’anticamera, nessuno nel salotto. Si trae più avanti..... apre una porta. Che vede? Vede la principessa, in déshabillé, pallida, sola, occupata a leggere un foglio. E mentre legge colla guancia puntellata sulla mano, le sgorga un torrente di lacrime dal ciglio.

Chi mai in quel momento non avrebbe compatito al suo dolore e inteso il suo secreto! Chi non avrebbe riconosciuto nella principessa Taziana, Taziana la campagnola! Eugenio in un accesso di pietà [p. 199 modifica]e di amore le si butta in ginocchio davanti. Essa freme e tace; lo contempla senza spavento, senza cruccio. I di lui occhi addolorati, spenti, l’atto supplichevole, i muti rimproveri, le attestano la sua sincerità. Ecco rinasce l’ingenua verginella di prima, colle sue illusioni, colla sua leggiadra semplicità. Non lo rialza da terra, non torce gli sguardi lontan da lui, non ritira a sè la mano che egli copre di baci ardenti..... Che mai pensa? Dopo un lungo intervallo di silenzio, essa esclama:

“Basta. Levatevi. Conviene ch’io mi spieghi schiettamente. Anieghin, vi rimembra di quella sera in cui per caso ci incontrammo in un viale del giardino, di quella sera in cui ascoltai sì umilmente le vostre ammonizioni? Oggi tocca a me ad ammonirvi. Allora io era più giovane, e, credo, più bella... e io vi amava.... Che mi deste in iscambio del mio amore? Come mi corrispondeste? Foste rigido e spietato.... Non è egli vero? L’affetto d’una timida fanciulla non vi parve una gran novità. Ahi che tuttora mi si gela il sangue nelle vene quando mi rappresento quello sguardo gelido e quel rabbuffo acerbo!... Ma non vi appongo biasimo..... agiste nobilmente in quel funesto istante; mi trattaste come io meritava.... ve ne son grata di cuore..... Ma in quelle campagne, priva di vani onori, io non vi piacqui... Perchè mai mi inseguite adesso? Perchè son divenuta l’oggetto delle vostre attenzioni? Sarebbe forse perchè adesso io vivo nell’alta società; perchè sono ricca e illustre; perchè mio marito è stato mutilato nelle guerre; perchè la corte ci ricerca e ci vuol bene? Forse perchè adesso il mio disonore sarebbe noto a [p. 200 modifica]tutti e vi procaccerebbe una scandalosa celebrità nei saloni del gran mondo!...

”Io piango.... Poichè non avete dimenticata la vostra Taziana, sappiate che in quanto lo comportano le mie forze, io preferisco i vostri pungenti sarcasmi, i vostri discorsi seri e indifferenti, a questa passione oltraggiosa, a queste lettere, a queste lacrime. Allora, avevate almeno compassione delle mie follie infantili, rispettavate la mia inesperienza... Ma adesso!... Che motivo vi conduce ai miei piedi! Oh piccolezza! Come mai potete fare il cuore e l’intelletto schiavi d’un affetto passeggero?

”Questa vita fastosa, opulenta, inorpellata, non mi tocca; li applausi, le lusinghe della gente, i miei palazzi, le mie riunioni brillanti, non mi dilettano. Io darei volentieri tutti quelli stracci, tutte quelle mascherate, tutto quel lustro, quel fracasso e quel fumo, per uno scaffale di libri, per un giardinetto inculto, per la nostra modesta villetta, per i luoghi ove vi scorsi la prima volta, Anieghin; sì, li darei per l’umile cimitero ove riposa la mia povera balia sotto l’ombra d’un salcio e d’una croce....

”E la felicità m’era sì facile e sì vicina!... Ma la mia sorte è ormai decisa. Forse fui imprudente; ma mia madre mi scongiurava piangendo..... ogni condizione era eguale per la misera Taziana.... io mi maritai....

”Convien che mi lasciate. Io ve ne prego. So che siete ancor capace d’un nobile sforzo, e d’una azione virtuosa... Io vi amo... perchè celarvelo? ma appartengo a un altro.... Gli sarò fedele fino alla morte!” [p. 201 modifica]

Così dicendo sparve.

Eugenio rimane simile ad un uomo colpito dal fulmine. Gli sembra che ogni suo sentimento roti in preda a un turbine. Ma ode un rumor di sproni..... Arriva il generale... In questo momento tremendo, lettore, ci separiamo dal nostro protagonista per molto tempo, anzi per sempre. Gli abbiam tenuto dietro assai nei suoi errori.. Siamo giunti alla meta. Rallegriamocene, o miei cari! Vi pareva mille anni, non è vero?

Chiunque tu ti sia, lettore, benevolo o malevolo, ti voglio lasciar come si lascia un amico. Addio. Busca in queste strofe disadorne ciò che più ti talenta. Ma qualunque sia l’oggetto che in esse cercherai; o il riflesso delle tue passioni giovenili o il sollievo dei tuoi diligenti studi, o le descrizioni pittoresche, o i concetti arguti, o le sgrammaticature, prego Dio che ti ci faccia trovare una dolce diversione alle tue fatiche, alle tue passioni, alle baruffe sciocche dei giornali. Ora separiamoci. Addio!

Addio, mio bisbetico satellite, mio fedele ideale; addio mio libricciuolo vispo e grave, brioso e serio, sebben sì piccolino. Vostra mercè, io conobbi tutto ciò che ambiscono i poeti: l’oblio della vita e il consorzio pacifico degli amici in mezzo al fracasso del mondo. Son molti anni che la pittrice fantasia mi adombrò nella mente l’imagine di Taziana e di Eugenio; ma in quel disegno appena accennato non appariva ancora molto chiaro lo scioglimento di questo libero dramma.

Tra quelli ai quali io lessi, nei crocchi ch’io frequento, i primi squarci di questo lavoro, «alcuni [p. 202 modifica]più non esistono; altri son lontani» (per servirmi di una frase di Saadi).14 Ho coronato l’opera, ma essi non la vedranno venire in luce. Tu pure mi fosti rapita, o bella che mi suggeristi il tipo della mia Taziana!... Molte, molte son le vittime dell’Orco!... molte! Felice colui che s’alza dal banchetto della vita, prima di vedere il fondo del bicchiere; che non finisce il suo romanzo, e che lo lascia in tronco come io lascio il mio.






Note

  1. Celebre lirico russo, di cui parlammo nella Biografia di Puschin.
  2. Principale personaggio d’una ballata di Burger. Leonora non può darsi pace della morte dell’amante; l’ombra di questi viene a prenderla, a cavallo e la porta seco in inferno.
  3. Perdonino i puristi questo neologismo.
  4. Vuole dire che il vulgar è frequente nella società russa.
  5. Mi rincresce assai di adoperare tante voci francesi; ma non si può fare altrimenti quando si descrivono i costumi dell’alta società. Mi rincora il pensare che quasi tutti i termini francesi o i gallicismi da me innestati in questa traduzione sono consecrati dall’uso e suonano giornalmente sulle labbra delle persone bennate.
  6. Disegnatore francese.
  7. Nelle case russe sono sempre doppie le porte e le finestre.
  8. Filosofo tedesco, autore delle Idee sull’umanità.
  9. Filosofo e novelliere francese.
  10. Fisiologista francese, autore del libro Della vita e della morte.
  11. Medico francese, autore del libro sull’Onanismo
  12. Filosofo francese, autore d’un dizionario critico dal quale Voltaire trasse i suoi più validi argomenti.
  13. Filosofo francese, autore del libro sulla Pluralità dei mondi, primo tentativo fatto in Europa per rendere la scienza accessibile a tutte le intelligenze.
  14. Poeta persiano, autore del Gulistan (giardino delle rose) e di altri poemi celebri.