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198 | eugenio anieghin |
S’interna cotanto in tali rimembranze, che sta per perderne il giudizio. Diverrà maniaco o poeta. Buon per noi se si fosse appigliato a questo ultimo partito. E lo poteva, chè di già incominciava a comprendere il meccanesimo del verso russo. Quando, seduto solo al caminetto davanti a una bella fiamma, lasciando cadere nel fuoco ora una pantofola, ora un giornale, canterellava: Benedetta, o Idol mio, Eugenio pareva proprio un poeta.
I giorni passano. L’atmosfera s’intiepidisce, l’inverno fugge. Eugenio non verseggia, non muore, non impazza. La primavera lo ristora. Un bel mattino egli abbandona le doppie finestre, il caminetto, la stanza ove ha invernato come una marmotta e se ne va a spasso in slitta lungo la Neva. I blocchi di ghiaccio galleggianti sul fiume scintillano al sole. La neve strutta e calpestata dai pedoni cangia le strade in pozzanghere.
Ove si avvia Eugenio con passo sì sollecito, a traverso quel fango? L’avete indovinato per l’appunto. Va da lei, va da Taziana, il nostro incorreggibile originale. Entra più morto che vivo. Non trova nessuno nell’anticamera, nessuno nel salotto. Si trae più avanti..... apre una porta. Che vede? Vede la principessa, in déshabillé, pallida, sola, occupata a leggere un foglio. E mentre legge colla guancia puntellata sulla mano, le sgorga un torrente di lacrime dal ciglio.
Chi mai in quel momento non avrebbe compatito al suo dolore e inteso il suo secreto! Chi non avrebbe riconosciuto nella principessa Taziana, Taziana la campagnola! Eugenio in un accesso di pietà