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192 | eugenio anieghin |
gli stolidi inevitabili, quelle caricature che incontransi dappertutto, s’accoglievano lì. Lì s’adunavano le signore attempate, con ceffi da mascheroni e scuffie fregiate di rose; li capitavano alcune fanciulle che non sorridean mai; lì un ambasciatore che perorava sulle faccende dello Stato; lì un vecchio dai crini profumati che motteggiava come al tempo di prima, con sottigliezza e con garbo, maniera che anche al dì d’oggi piace. Eravi anche un dilettante d’epigrammi, il quale tutto criticava, e biasimava la troppa dolcezza del tè, la goffaggine delle signore, il contegno dei signori, le dottrine d’un romanzo oscuro, il monogramma fatto per due sorelle, le bugie delle gazzette, la guerra, la neve, e sua moglie. Eravi N. N. celebre per la sua infamia; N. N. per cui, o Saint-Priest,1 spuntasti tanti lapis sugli album di San Pietroburgo. Eravi un secondo dittatore dei balli, che stava ritto fralle due porte,2 attillato come un figurino del giornale delle mode, bianco e rosso come un cherubino, stringato, mutolo e immoto. Eravi un viaggiatore volante; eravi un impertinente inamidato, che moveva tutti a riso colla sua aria affaccendata; uno sguardo scambiato in silenzio fra gli astanti, esprimeva l’opinione che si aveva di lui.
Per tutta quella sera, Anieghin non badò che a Taziana sola. Taziana però non è più quella ragazzina timida, innamorata, povera e semplice; ma una principessa maestosa e fredda, una dea innaccessibile e superba della imperiale Neva. O uomini! Somigliate tutti alla vostra prima madre Eva. Ciò che