Ettore Fieramosca/Capitolo IV

Capitolo IV

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Capitolo IV.


Le ingiuriose parole di La Motta e la disfida che n’era stata la conseguenza, corsa in presenza di più di venti persone, non poteva esser rimasta segreta, e n’era oramai sparsa la fama per tutto l’esercito e per la città. Inigo, coi due Italiani, presentandosi alla casa di Prospero Colonna, trovarono che quivi non era altro discorso; e già cominciava a comparire il fiore della gioventù italiana, che a lui concorreva come a suo capo, per intendere in che modo s’avessero a governare. Vennero ad uno ad uno tutti quelli che avea nominati Fieramosca, e molti altri, sicchè in breve spazio di tempo furono una cinquantina. Le parole erano molte e grandi, ed ognuno mostrava negli atti e nel volto quanto gli cuocesse l’ingiuria ricevuta. Parecchi fra gli Spagnuoli che la sera innanzi s’eran trovati alla cena, e che avean fatto moto ai loro amici italiani, si erano qui condotti e si mescolavano fra loro ripetendo or questa or quella delle parole tanto d’Inigo quanto de' prigionieri e facendo osservazioni, proponendo partiti, o citando esempi, attizzavano un fuoco che già troppo bene ardeva per sè medesimo.

Questa brigata stava, parte per la soglia del portone, e dispersa nel cortile, parte in una sala terrena, ove i fratelli Colonna solevano dar retta ai loro uomini quando bisognava, e sbrigare gli affari della compagnia. Vi splendevano appese al muro le loro armature messe d’oro molto riccamente, con finissimi intagli, forbite e lustranti come specchi. Si guardava in questo luogo la bandiera della compagnia, sulla quale era ricamata la colonna in campo rosso, col [p. 47 modifica]motto Columna flecti nescio, la quale pure si vedeva dipinta sugli scudi, che coll’altr’arme disposte convenevolmente all’intorno occupavano quasi tutte le pareti. In fondo due cavalletti grossi di legno sostenevano l’intere armature de’ cavalli con loro selle e gualdrappe di bel velluto cremisi, fregiate dell’impresa di loro casato, e le ricche briglie tutte ornate di ricami d’oro, degne di tanti onorati signori.

Sei falconi incappellati e legati ad una catenella d’argento eran posati sopra una stanga in traverso ad una finestra, con un monte di attrezzi da caccia, della quale era frequente l’uso fra la nobiltà, e si teneva proprio spasso de’ signori e de’ gentiluomini.

Dopo alcuni momenti comparve sulla porta il sig. Prospero Colonna, al quale ognuno fece luogo e riverenza, ed egli venuto avanti e salutando con nobil contegno, s’adagiò sopra un seggiolone di cuojo rosso a bracciuoli, in capo ad una tavola che era nel mezzo, dove tenea lo scrittojo, ed accennò cortesemente a ciascuno di sedere.

Era vestito d’una cappa di sciamito nero rabescato, con una grossa catena d’oro al collo, dalla quale pendeva sul petto un medaglione dell’istesso metallo, lavorato sottilmente a cesello. Portava una daghetta in cintura d’acciajo nero martellato, ed in questo schietto vestire, la sua mirabil presenza, il volto d’una tinta pallida ed un po’ brunetta, con alta fronte che mostrava esser sede di fortezza e di senno non ordinarii, inspiravan quella riverenza che si tributa più alle doti dell’animo che ai favori della fortuna e della nascita. Aveva ciglia folte, barbetta alla spagnuola, ed un mover d’occhio tardo e risguardato, che lo dava a conoscere autorevole e potente signore.

L’occasione presente pareva ed era a lui di grandissima importanza, non solo perchè ne andava l’onore dell’armi italiane, ma perchè l’esito di questa [p. 48 modifica]fazione, nelle attuali circostanze ove fra due re potenti con incerta fortuna si combatteva, potea produrre gravi conseguenze per lui, per la sua casa e per la parte colonnese. Il vincere una disfida che avrebbe certamente fatto gran romore, dava molta riputazione agli uomini suoi ed alla sua bandiera, perciò, de’ capitani spagnuoli e francesi qualunque restasse vittorioso, avrebbe alla conclusione avuto maggior riguardo ad offenderlo e maggior interesse a tenerselo amico.

A tutti è noto inoltre, quanto in terra di Roma fosse ostinato il contrasto fra la parte colonnese ed orsina, che malcondotte entrambe dalla forza e dalle frodi d’Alessandro VI e di Cesare Borgia potevano o coi soccorsi stranieri, o col proprio valore, ajutati da qualche felice occasione, pensare a rifarsi; onde se v’era mai stato tempo da dover tenere l’invito della fortuna ed afferrarla pe’ capelli, era questo sicuramente.

Conosceva il sagace condottiere gli spiriti bollenti di Fieramosca e quanto potesse in lui sete di gloria ed amor di patria; vedeva che da’ suoi discorsi erano spesso infiammati gli animi de’ compagni a mostrarsi Italiani, e sentì quanto poteva a quest’ora ajutare coll’esempio e coi detti accendere vieppiù quel divino ardore che rende l’uomo pari alle grandi imprese.

A lui dunque si volse cominciando a parlare; disse già in parte conoscere l’accaduto, ma voler ora udirlo più distintamente, onde si potesse prender subito un partito. Ettore espose il fatto magnificando le parole d’Inigo dette in favore della nazione italiana: quand’ebbe finito, il signor Prospero alzandosi in piedi, parlò così:

— Illustri signori! Se voi non foste quelli che siete, ed io per la compagnia avuta con essovoi in tante battaglie non avessi esperienze dell’alto valor [p. 49 modifica]vostro, crederei fosse mestieri rammentarvi, come i nostri avi per le loro virtuose operazioni fecero salir tant’alto la gloria della patria che l’universo ne restò abbagliato; nè poterono le tenebre e le sventure di dieci secoli spegner gli ultimi regni di tanta luce. Come costoro che d’oltremonti ora vengono a bersi il sangue italiano, e non contenti, aggiungono lo scherno all’offesa, tremavano allora al solo nome romano. Vi direi che tant’oltre è giunta ormai questa loro sfacciata insolenza, che dopo d’avere strappato, e con quali arti, sallo Iddio, la gloriosa corona che faceva Italia regina dei popoli, ed era stata compra con tanti sudori e tanto sangue, par loro non aver fatto nulla finchè ci vedono una spada in mano ed una corazza sul petto, e vorrebbero torci perfino di poter combattere e morire in salvazione dell’onor nostro.

— Vi direi, su dunque! Andiamo, corriamo tutti, si piombi su questi ingordi ladroni sprezzatori d’ogni diritto; e ben veggo ne’ vostri sguardi che le mie parole sarebber tarde a fronte delle spade italiane.... Ma invece.... l’ufficio di condottiero, duro pur troppo in così grave occasione, mi comanda di porre un freno al vostro valore, e m’è forza il dirvi che tutti non potete combattere, e converrà concedere a poche spade la gloria della nostra vendetta. Il magnifico Consalvo, dovendo con forze minori sostenere i diritti del re cattolico, non consentirebbe che il sangue dei suoi soldati si spargesse per altre cagioni. Per dieci uomini d’arme otterrò, spero, salvacondotto, e campo franco. Senza metter tempo in mezzo, vado, ed ottenuto che l’abbia, ritorno. Intanto ognuno di voi scriva su un foglio un nome: a Consalvo la scelta. Ma prima dovete giurare di stare a quanto verrà da lui stabilito.

Il discorso fu accolto con un bisbiglio d’approvazione, e tutti giurarono. Furono scritti i nomi e dati [p. 50 modifica]al sig. Prospero, il quale, alzatosi da sedere, venne alla porta, ove due famigli gli tenevano apparecchiato una mula: vi salì, ed accompagnato da que’ soli due s’avviò alla rôcca.

Dopo una mezz’ora, che parve un secolo all’impaziente ansietà di que’ giovani, ritornò, e scavalcato, entrò nella sala terrena rimettendosi ciascuno al luogo di prima; il silenzio e l’espressione degli occhi fissati tutti sul barone romano, mostravano quanta fosse la smania di conoscere la scelta, e la speranza d’ognuno d’averla favorevole.

— Il magnifico Consalvo, disse alla fine il signor Prospero, cavandosi di seno le carte e deponendole sulla tavola, si chiama grandemente soddisfatto del virtuoso proposito vostro: e, certo che al vostro valore sarà questa facile impresa, concede salvocondotto e campo franco per dieci uomini d’arme, e non è stato piccol travaglio condurlo a questo numero; solo vi si piega per l’importanza del fatto.

Spiegato allora il foglio che conteneva i nomi degli eletti, lesse i seguenti:

— Ettore Fieramosca. — Questi, vedendosi nominato il primo, strinse con allegrezza il braccio di Brancaleone che gli sedeva accanto, mentre gli occhi di tutti si volsero a lui mostrando che nessuno credeva potergli contendere il primo posto.

Romanello, da Forlì.
Ettore Giovenale, romano.
Marco Carellario, napoletano.
Guglielmo Albimonte, siciliano.
Miale, da Troja.
Riccio, da Parma.
Francesco Salamone, siciliano.
Brancaleone, romano.
Fanfulla, da Lodi.

Chi si fosse trovato presente, senza conoscere [p. 51 modifica]nessuno di persona, avrebbe facilmente potuto distinguere dal viso contento coloro che la sorte destinava alla nobile impresa. Il volto sempre pallido di Fieramosca si tinse d’un bel vermiglio, e nel parlar che faceva ai compagni, i baffi castagni che gli vestivano il labbro tremavano, facean conoscere quanto fosse forte la commozione interna che provava. I suoi pensieri più cari trovavano alla fine occasione di produrre opere degne di loro. Finalmente, diceva in cuor suo, potrà una volta il sangue italiano scorrere a miglior fine che a sempre difendere gli stranieri invasori. Se alcuno gli avesse detto allora vinceranno i tuoi, ma tu vi morrai, si sarebbe chiamato contento mille volte: ma v’era pure speranza, e quasi certezza di vincere, e goder la vittoria; e pensava, dopo questa, come sarebbe stato il ritorno pieno di gloria, di feste e d’allegrezze (quanto è raro che l’uomo preveda il vero!) immaginava le lodi, l’onore eterno che ne verrebbe all’Italia ed al suo nome, e quanto i suoi più cari andrebbero orgogliosi per cagion sua. A questo punto un pensiero che gli sorse dal profondo del cuore, passò come una nube, ed oscurò un momento la gioja che gli splendeva sul volto: forse sventure passate fecero sentire al suo cuore l’acuta spina di funeste rimembranze: ma durò un momento. Poteva egli allora aver altra cura maggiore di quella della battaglia?

Prospero Colonna era stato scelto da Consalvo a maestro del campo, il che gl’imponeva l’obbligo di mandare il cartello della sfida, di mettere a cavallo i suoi, di vedere che nulla mancasse loro di ciò che potea procurare la vittoria, d’aver l’occhio finalmente che si combattesse dalle due parti a buona e giusta guerra.

Si parlò prima di tutto del giorno e del luogo da fissarsi: erano i primi del mese; fu stabilito si [p. 52 modifica]combatterebbe dopo la metà, onde rimanesse tempo largo ad allestirsi. Quanto al luogo, si sarebbe mandato uomini esperti a scegliere il più conveniente.

Dopo di ciò si stese il cartello, che fu scritto in francese, e consegnato a Fieramosca ed a Brancaleone onde lo portassero al campo nemico quell’istesso giorno. Disposte così le cose, si volse il sig. Prospero ai dieci eletti e disse loro:

— L’onor nostro, cavalieri, è sul filo delle vostre spade, e non saprei immaginare qual più degno e sicuro luogo si potesse trovargli. Ma per questo appunto conviene che giuriate di non entrare da oggi al dì della battaglia in alcun’altra impresa, onde non porvi a rischio di riportar ferite, o d’incontrare impedimento che potesse quel giorno togliervi d’essere a cavallo: e ben vedete, se ciò accadesse, non importa per qual cagione, quanto la nostra parte ne rimarrebbe vituperata. Parve ad ognuno troppo ragionevole questa antiveggenza, nè vi fu chi negasse accettar sopra la sua fede la condizione proposta.

Intanto la maggior parte di quelli che vedevano con rammarico non aver ivi più nulla che fare, s’era andata dileguando alla sfilata. I soli dieci erano rimasti. Anch’essi, quando fu consegnato il cartello a Fieramosca, sgombrarono la sala, e questi accompagnato da Brancaleone s’avviò a casa per esser presto a cavallo e condursi al campo francese.

S’armarono ambedue così alla leggiera con giaco e maniche ed una cuffia di ferro, e preso con loro un trombetta s'avviarono alla porta a S. Bacolo, che rispondeva verso il nemico. Alzata la saracinesca ed abbassato il ponte, uscirono in un borgo che, abbandonato in quel trambusto dagli abitanti, era stato mezzo distrutto ed arso dalle licenze delle soldatesche d’ambe le parti. Di qui la strada prendeva per certi orti, poi usciva all’aperto, e per giungere al campo [p. 53 modifica]era qualche ora di cammino. Nel passare pel borgo, Ettore s’abbattè in certe povere donne, mezzo coperte di cenci che traendosi dietro per mano, o recandosi in collo i loro bambini cascanti dalla fame, andavano frugando per quelle case abbandonate, se mai fosse sfuggita qualche cosa all’ingorda avarizia de’ soldati che le avean messe a sacco. Il cuore del giovane faceva sangue a questo spettacolo, e non potendo dar altro aiuto non poteva nemmeno sostenerne la vista, onde punse il cavallo, e di trotto si dilungò sin fuori all’aperto.

L’insolita allegrezza che l’aveva ravvivato pensando alla prossima battaglia, fu per questo, in apparenza lieve accidente, ritornata in altrettanta mestizia; risorsero più forti i pensieri delle miserie d’Italia, e lo sdegno contro i Francesi che n’erano autori. Non potè nascondere a Brancaleone, che gli cavalcava accanto, la pietà che gli destavano i mali di quelle meschine, e quegli, che in fondo era buono e caritatevole uomo, quantunque paresse ruvido pel continuo trovarsi in mezzo ai rischi e al sangue, le compativa e si dolea de' loro affanni insieme con lui.

Vistolo Fieramosca in questa disposizione d’animo, gli diceva crollando il capo:

— Ecco i bei presenti che ci recano questi Francesi; ecco il buono stato che ci portano!... Ma se posso una volta veder questa razza di là dell’Alpi.... E volea dire: faremo in modo di sbrigarci anche dagli Spagnuoli, ma si ricordò che era al auo servigio, e, rompendo a mezza frase, finì con un sospiro.

Brancaleone pensava più alla parte colonnese che al bene della sua patria, e non poteva entrar pienamente nei sentimenti del suo amico, ai quali però partecipando in qualche guisa, a suo modo, rispose:

— Se quest’esercito si potesse metter in rotta, non passerebbe forse molto tempo, che avremmo ad [p. 54 modifica]assaggiare il vino del signor Virginio Orsino; e le cantine del castello di Bracciano vedrebbero una volta come son fatte le facce de’ cristiani: e Palestrina, Marino e Valmontona, non vedrebbero più il fumo del campo di que’ ribaldi; nè sarebbero più desti a ogni tratto da quel maledetto grido, Orso! Orso! ma.... non si paga ogni sabato! Da questa risposta conoscendo Ettore che se Brancaleone s’univa ai suoi desiderii, era però ben lontano dal concordare interamente con lui quanto ai motivi, tacque; e camminarono per buon tratto di strada senza che il silenzio venisse rotto da nessun dei due.

Il trombetta li precedeva d’un’arcata.

Non avrà il lettore scordati i cenni del prigioniere francese circa gli amori di Fieramosca. I suoi compagni, che ne udivan parlare per la prima volta, si dolevano di questi suoi dispiaceri, e per l’affetto che gli portavano, e perchè in una brigata di giovani si soffre malvolentieri chi non mette del suo per mantenere ed accrescere il buon umore. Ora mentre quella mattina si trattava l’affare della disfida a casa del sig. Prospero, si bisbigliò di questi suoi casi, che vennero anche all’orecchio di Brancaleone. Era questi pochissimo curioso de’ fatti altrui, non di meno dopo aver cavalcato un pezzo così in silenzio, vedendo il suo compagno tutto sopraffatto dalla malinconia, gliene seppe male, e vincendo la natura sua si dispose tentarlo onde gli s’aprisse; e con parole di amica sollecitudine, venne al proposito di pregarlo volesse narrargli que’ casi che gli eran cagione di tanta tristezza. E seppe così ben fare che ottenne il suo intento. Fieramosca d’altronde sapeva potersi fidare di lui, ed i termini in cui si trovava pure gli scioglievan la lingua, poichè da un cuore agitato da forte passione sfugge facilmente il segreto. Alzatigli così un poco gli occhi in viso, disse: [p. 55 modifica]

— Brancaleone, mi domandi cosa che non ho mai detto ad anima viva: e neppure a te la direi (non te l’aver per male) se non pensassi che potrei rimaner morto nella zuffa.... e allora? che ne sarebbe, di.... sì, sì, tu mi sei vero amico, sei uomo dabbene, hai da saper tutto. Non ti dispiaccia ascoltarmi a lungo, chè non potrei farti capace in poche parole di tanti e così strani accidenti.

Brancaleone con gli atti del volto gli accennava quanto avea caro che dicesse, onde Fieramosca con un risoluto sospiro incominciò:

Quando sorsero i primi romori di guerra per parte del re cristianissimo, che minacciava scendere all’impresa del reame, ben sai ch’io mi trovava giovinetto di sedici anni ai servigi del Moro. Tolsi licenza, e mi parve dovere metter la vita in difesa de’ Reali di Raona che da tant’anni ci governavano. Venni a Capua; si mettevano in ordine le genti d’arme, e dal conte Bosio di Monreale che avea il carico del presidio, fui condotto e comandato alle difese della città. Le munizioni erano tutte in pronto, e per allora non essendovi altro da fare, attendevamo a darci buon tempo. La sera si faceva la veglia in casa del conte, il quale, amico già di mio padre, mi teneva come figliuolo. Già prima d’andarmene col Duca di Milano, spesso gli capitavo per casa. Ivi conobbi una sua figlioletta, e così fanciulli senza saperne più in là, ci portavamo maraviglioso amore. Il giorno ch’io mi mossi per andare in Lombardia, furono i pianti e le dipartenze inestimabili: io, mi ricordo, cavalcava un giannetto il migliore che fosse mai, e nell’andarmene passai sotto le finestre di lei, che si domandava Ginevra, e benissimo atteggiavo il cavallo nel dirle addio colla mano: ella mi gettò di nascosto del padre e d’ognuno, perchè appena faceva giorno, una fascia azzurra che non ho mai lasciata d’allora in poi. [p. 56 modifica]

Ma queste erano cose da scherzo. In un anno ch’io stetti fuori mi s’era assai freddato questo primo amore. Tornato, come ti dico, e riveduta Ginevra, che avendo messa persona, era divenuta la più bella giovane del reame, aveva assai buone lettere, e cantava sul liuto che non avresti voluto sentir altro, non potei tanto schermirmi ch’io non ricadessi l’un cento più nel maggiore, e più forsennato amore che s’udisse mai. Colei che si ricordava de' primi anni, e mi rivedeva onorato, e con qualche nome nell’arme, quantunque come onesta non lo volesse mostrare, ben m’avvedevo, che aveva caro udirmi quando narravo di quelle terre di Lombardia, delle guerre che avevo vedute, e delle corti ed usanze di colà: e s’ella amava ascoltarmi, io molto più amavo d’intrattenerla; e tanto andò la cosa innanzi che non potevamo vivere discosti un dito l’uno dall’altro.

Io che in parte m’avvedevo come la s’avviasse, venivo riflettendo a quanti affanni andavamo incontro ambedue. A momenti cominciava la guerra: tristo chi in tale congiuntura si trova avvolto in legami d’amore. E dove prima cercavo ogni modo d’esser con lei, dopo, divisando ciò che meglio ci conveniva, e conosciuto che il nostro amore era altro che da motteggi, mi rimaneva tanto di forza che pur mi studiavo di mostrarlo meno, e cavarmelo dal cuore. La cosa andò così avanti un pezzo. Ma quel combattimento invece di scemare il mio amore l’accrebbe; e volendolo raffrenare di fuori, quello mi lavorava dentro, e quasi mi conducea pel mal cammino. Già m’ero fatto scuro in viso, e la notte per istracco che fossi non potevo prender sonno, e sempre coll’immaginazione fissa in lei, sentivo calarmi per le gote le lagrime calde sul guanciale, e stupivo di me medesimo.

Passarono così più settimane, e m’ero ridotto di [p. 57 modifica]qualità che bisognava pur risolversi a qualche partito. Tu già indovini a quale m’appigliai; un giorno sulle ventitrè ore la trovai sola in un suo giardino, e come volle la mia sorte, le dissi il gran bene ch’io le volevo, ed ella arrossendo, senza risponder parola si scostò lasciandomi afflitto e peggio contento che mai, e da quell’ora in poi parea cercasse tenermi discosto, e quasi mai, quando v’erano altre persone, volgeva a me le parole, ond’io per disperato, nè potendo sopportare quell’inestimabile amore, risolsi in tutto andarmi con Dio, e cercar la morte ove allora già si combatteva. E passando appunto la compagnia del duca di S. Nicandro, che andava alla volta di Roma, a raggiungere il duca di Calabria, mi misi in ordine per andarmene con essoloro. E senza dirle il mio proposito, un giorno volli ritentar la prova, ed ella stette salda, onde mi dovetti persuadere che quell’amore ch’io credevo scorgere in lei, era stato un sogno della mia immaginazione; e risoluto affatto (era la sera, ed alloggiava quella notte in Capua la compagnia del duca per partir la mattina) misi in ordine ogni cosa per esser a cavallo l’indomani. Me n’andai, come al solito, a veglia in casa del padre di Ginevra: eravamo soli noi tre intorno un tavoliere, e si giocava a tavola reale; quando mi venne in acconcio, dissi a lui come avevo fisso di partire la mattina vegnente, che essendomi venuto a noja quell’ozio, volevo andar a combattere, perciò fosse contento darmi licenza. Il conte lodò il mio proposito, ed io colla coda dell’occhio pur guardavo, non privo affatto di speranza, che viso facesse Ginevra. Pensa quale diventai vistole mutar il color del volto, e farlesi rosse le palpebre? Di furto mi saettò un’occhiata che troppo mi diceva. Stetti infra due di non farne altro; ma conobbi che oramai non potevo ritrarmi coll’onor mio; e mi fu forza, quando mi trovavo il più contento [p. 58 modifica]e felice uomo del mondo, eseguire la mia malaugurata partenza: di qui nacque ogni mia sciagura.

Dio volesse che quando misi il piede alla staffa fossi caduto morto, sarebbe stato men male per lei e per me.

Mi condussi a Roma sempre maledicendo la mia fortuna; e giunsi in quella che per una parte entrava re Carlo, e per l’altra i nostri si ritraevano in furia. Vi fu qualche leggiero scontro, ed io tanto mi spinsi avanti fra certi Svizzeri, che fui per morto lasciato con due rondolate nel capo, onde penai gran tempo a guarire.

Queste ferite le toccai presso Velletri; portato nella terra e medicato, ebbi a star quivi due mesi, senza saper più nulla di Ginevra, nè del padre, e solo udivo d’ora in ora le triste novelle del reame che vi giungevano ed eran fatte dalla gente di casa sempre maggiori, e con tante favole tra mezzo che non potevo in esse distinguere cosa buona.

Pure alla fine ritornato gagliardo, e volendo uscire di tanto travaglio, montai una mattina a cavallo e me ne venni a Roma. Ivi era un disordine grandissimo, e papa Alessandro che al passaggio del re poco gli s’era mostrato amico, vedendo ora spacciate le cose del reame, e che già della lega fra il Moro ed i Viniziani si bisbigliava, onde ai Francesi conveniva dar volta, stava in sospetto grandissimo ed il meglio che poteva s’armava ed afforzava Roma e ’l castello. Appena scavalcato andai a far riverenza a monsignor Capece che molto m’accarezzò, e volle in tutti i conti levarmi d’in sull’osteria.

Intanto cresceva il romore in Roma, ed aspettandosi a giorni la vanguardia del re, composta di Svizzeri, molto si temeva da tutti ed ognuno pensava a’ fatti suoi.

Comparve alla fine l’esercito. Il papa col Valentino [p. 59 modifica]s’era fuggito a Orvieto. Le genti franzesi parte s’alloggiarono in città, parte fuori in Prati1; e si comportavano assai bene co’ cittadini, tantochè ognuno si veniva rassicurando. Dopo pochi giorni il re andò alla volta di Toscana: pure per Roma passavano tuttavia or l’uno or l’altro di que' capi conducendosi alla spicciolata, onde fosse minore il disagio delle vettovaglie. Erano oramai quietati i timori, ed ognuno attendeva come il solito alle faccende. Io che sempre dal pensiero di Ginevra ero travagliato, appena potei coll’onor mio, mi spiccai da monsignor Capece per tornare a casa, e saper notizie certe di là; che in tutto questo tempo non m’era venuto fatto di parlare con chi n’avesse contezza.

Una mattina di buon’ora mi posi in cammino, disposto di cavalcare quel giorno sino a Citerna, e da strada Julia ove stava monsignore, presi per piazza Farnese, drizzandomi verso porta S. Giovanni. Sotto il Coliseo mi si fece incontro una truppa di Francesi con bagaglie, e come furono presso, vidi che venivano con una lettiga ove giaceva malcondotto uno de’ loro capitani, e dalle fasce che avea attorno alle tempie si capiva che doveva esser ferito nel capo. Mentre scansato il cavallo, m’era soffermato un poco per guardar costui, fui desto da un acuto grido, e volgendomi a quello, vidi Ginevra a cavallo, che dall’altra parte veniva in compagnia con essoloro. Ma, oh Dio, quanto era cambiata! Fu un miracolo s’io non caddi in terra: il petto mi scoppiava sotto la corazza: pure avvisando ciò che poteva essere, finsi di seguire il mio cammino, poi voltato il cavallo, senza mai li perder di vista, e pensando al peggio tenni loro dietro sino all’alloggiamento. [p. 60 modifica]

Ben puoi credere ch’io non fui ardito farmi rivedere a monsignore, che mi credeva già lungi di molte miglia, e tanto meno presentarmi a Ginevra, temendo, s’io le parlavo, udir da lei ciò che mai non avrei sofferto ascoltare, e bramoso pure di chiarire la cosa non sapevo che risolvere: portato dal cavallo che tendeva a ritornare alle stalle di monsignore, mi trovai in Banchi alla Chiavica, presso alla bottega d'un tal Franciotto, detto dalla Barca, perchè la professione sua era levar le mercanzie da Ostia per portarle a Ripa grande. Era costui mio amicissimo, e fattomisi incontro, scavalcai, e trattolo da parte, gli dissi che per alcuni rispetti m’ero partito da monsignore, e mi conveniva tenermi celato; perch’egli m’offerse una sua casetta che aveva in borgo, e tosto mi vi condusse. Io presi partito di dirgli, che avevo veduto una donzella della quale conoscevo il casato, con certi francesi, ed avrei voluto sapere com’era quivi capitata per porgerle aiuto se fosse stato mestieri; ed insegnatogli il luogo ov’era andata a smontare, lo pregai s’ingegnasse parlare con alcuno de’ famigli, e farmi trovare in parte, ove senza scoprirmi potessi ottenere il mio desiderio. Egli ch’era di sottile ingegno benissimo seppe contentarmi. Verso mezz’ora di notte venne per me, e mi condusse ad un’osteria, ove trovammo un suo giovane che aveva già uccellato uno degli scudieri di quel barone francese, e fattolo bere, l’avea messo in sul raccontare, ed appunto giungemmo quand’era tempo.

Franciotto in poche parole lo condusse a dire ciò che mai non avrei voluto sapere: e sul fatto della donna ci narrò che giungendo essi a Capua, e quei di dentro facendo resistenza grandissima, entrarono a forza, e quasi la terra andò a sacco: che il suo padrone Claudio Grajano d’Asti (così ci disse chiamarsi) entrato con molti soldati in casa il conte di Monreale, [p. 61 modifica]che ferito nell’assalto, era stato ivi portato, e più non poteva difendersi, giunse alla stanza ove giaceva, e la figlia buttandosi in ginocchio, raccomandava sè e’l padre. Grajano stava in cagnesco o piuttosto volto al male, onde il conte alzandosi sul gomito il meglio che potè, gli disse, quanto possiedo al mondo sia vostro, ed abbiate in isposa questa mia figlia; ma sia salva l’onestà sua dalle mani di costoro. E Ginevra tremando per la vita del padre, e per se stessa non si seppe opporre. Due giorni dipoi il conte morì.

Io mi morsi le mani pensando che se mi fossi trovato colà, forse non cadeva in balìa di questo ribaldo; ma non v'era rimedio. Mi tolsi di quivi, e tutta la notte andai vagando per le strade come forsennato, e più volte fui per finirmi. Per vera virtù di Dio, pure mi rattenni. Il dolore, lo struggimento di cuore ch’io provavo era tanto che le parole non ne saprebbero dire la millesima parte, con certe strette al petto che mi levavan l’anelito, e mi pareva ogni tratto di soffocare: nè potendo sopportar più una vita tanto dolorosa e travagliata formavo i più strani consigli, le più pazze risoluzioni del mondo. Ora divisava di ammazzare il marito, ora d’incontrar la morte in qualche strano modo, onde mostrare a Ginevra che ero stato condotto a quel passo per amor suo, e mi confortava l’idea del rammarico che ne avrebbe provato; e d’una in un’altra di queste immaginazioni quasi uscivo di cervello. Stato così più giorni, una sera volli tentar la fortuna. Involto nella cappa, ottenebrata la vista, e colla capperuccia che mi scendeva sugli occhi, andai alla porta di lei, e bussai. Si fece alla finestra una fante e domandò chi volevo. Dite a Madonna, risposi, che le vuol parlare uno che vien da Napoli e le porta nuove de’ suoi. Fui messo dentro e lasciato in una saletta terrena con un lumicino che mandava appena un poco d’albore. A me [p. 62 modifica]pareva di stare ora presso la porta del paradiso, ora più in giù dell’inferno, ed era tanto il contrasto, che mi sentii mancar le ginocchia, e mi convenne lasciarmi andare su una sedia. Aspettai pochi minuti, che a me parvero mill’anni. Quando sentii giù per la scala lo stropiccio de’ piedi e della gonna di Ginevra, quasi mi lasciò affatto ogni virtù vitale. Entrò ella e rimase così un poco discosta guardandomi; ed io, lo crederai? non potei nè parlare, nè movermi, nè formare una voce: ma appena m’ebbe riconosciuto, gettò un grido, e cadeva in terra svenuta, se non ch’io la raccolsi in braccio, e, slacciandola m’ingegnavo soccorrerla tutto spaventato dall’importanza del caso, e dal timore d’esser quivi trovato: e coll’acqua d’un infrescatoio ch'era presso, le spruzzavo la fronte. Ma le lagrime bollenti che mi piovevano dagli occhi e le innondavano il volto, furono più possenti e la richiamarono in vita. Io non seppi far altro che prenderle una mano e premervi su le labbra con tal passione ch’io credetti che l’anima mia passasse in quel punto. Così stemmo un poco: alfine tutto tremante si spiccò da me, e con voce che appena la potevo udire, mi disse: Ettore, se sapessi i miei casi!... Li so, risposi, li so pur troppo, ed altro non domando, altro non voglio che poterti morir vicino e vederti qualche volta finchè son vivo.

In questa s’udì romore al piano di sopra, mi corse un gelo per l’ossa, dubitando d’esser scoperto; e che a lei s’accrescessero i guai. Preso commiato cogli atti più che colle parole, sollecitai a levarmi di quivi, ed uscii un poco meno afflitto e sconsolato.

Intanto la ferita del marito non guariva, e molti Francesi, gentiluomini e prelati, ogni giorno lo venivano visitando. Benchè il maraviglioso viso di Ginevra mostrasse l’affanno interno che la travagliava, nondimanco la sua bellezza, con un certo languido pallore, aveva pure un tal che d’appassionato, che non si [p. 63 modifica]poteva mirarla e non restarne vinto: e fra quei signori la sua giovinezza, il costume e l’angeliche sembianze ogni dì più destavano maraviglia, nè si potevano saziare di magnificarla e lodarla da per tutto, a tale che la fama ne corse all’orecchio del Valentino. Molto si susurrava allora in Roma sul conto di costui. Il Duca di Candia suo fratello era stato morto per le strade la notte, ancora non faceva il mese, e non senza suo carico; ond’egli tosto, deposta la porpora, s’era buttato all’armi del tutto, e si dicevano di lui tante gran cose che non si sapea che pensare. Forte dubitai fin d’allora che la Ginevra fosse vagheggiata da costui: e pur troppo mi toccò udirne fra popoli molte sconce parole, ch’io non poteva raffrenare per rispetto di essa, e consumavo dentro la rabbia per non far atto che palesasse la condizion mia.

Intanto, sotto colore ora d’una, ora d’un’altra cosa, m’era pur venuto fatto d’andarle per casa ed affiatarmi con quel suo marito; e se il vederlo mi dava passione indicibile, soffrivo volentieri ed avrei sofferto ogni gran cosa purchè potessi a quando a quando veder lei, colla quale, dalla prima volta in fuori, non ebbi mai parole d’amore, e già sapevo che sarebbe stato un buttare il fiato, perocchè troppo bene la conoscevo.

Questo Grajano d’Asti era di que’ tali che ne vanno dieci per uscio, nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo; assai buon soldato bensì, ma che avrebbe servito il Turco se meglio lo avesse pagato. Le sostanze di Ginevra lo facevano ricco assai bene: e tanto valutava lei quanto si valuta un podere, per la rendita e non per altro.

Passarono più settimane. La sera potevo veder la Ginevra, chè il marito non aveva nessun sospetto di me; e travagliato dalla sua ferita che molto penava a chiudersi nè sapendone molto in fatto d’amore aveva tutt’altri pensieri pel capo; così mi trovavo con lei più spesso di prima. [p. 64 modifica]

Il Valentino frattanto, volendo metter genti insieme per l’impresa di Romagna, fece capitale di Grajano d’Asti che oggimai si trovava presso a poter risalire a cavallo. Seppi come aveva attaccata questa pratica, ed alla prima furono d’accordo. Si fermò tra loro una condotta di venticinque lance, ed al marito di Ginevra parve avere bonissimi patti.

Una sera venne il duca alla casa di Grajano per istipulare l’accordo, e fu fatta un poco di cenetta, alla quale si trovarono certi prelati francesi ed alcune lance che stavano a spasso, ed intendevano appiccarsi con costui, che accettava ognuno in quel tempo.

Io parte pensavo offrire i miei servigi per seguire la fortuna di Ginevra con quella di Grajano; pure, non saprei dirti perchè, non mi mossi, nè mi trovai con loro quella sera. Andai, ch’era già fatto notte, vagando ne’ luoghi più deserti di Roma sempre martellandomi il cervello con mille sospetti, e non potevo liberarmi da certi pensieri, i più strani che avessi mai. Da molti giorni trovavo la Ginevra più sbattuta; e mi pareva tratto tratto di vederle balenar sulla fronte un non so che d’arcano, che studiasse tener celato nel cuore. Passai pure quella notte, Dio sa con che smania; senti se alle volte il cuor non parla.

L’indomani vado da lei sulle ventitrè. Quando son presso all’uscio, odo in casa un bisbiglio insolito: usciva un frate d’Araceli col Bambino2 ed un torchietto davanti. Salto in casa (sudavo freddo!) e la fante mi dice: — Madonna sta in termine di morte.

La sera innanzi, dopo cena, era stata colta da uno sfinimento, ma non pareva male d’importanza. Posta a letto e confortata con panni caldi, si quietò, e così rimase sino alla mattina. Il sole era già alto, e non si [p. 65 modifica]sentiva. Venne un tal maestro Jacopo da Montebuono che s’impacciava di medicina, e la trovò quasi fredda. Questo sciagurato, invece di por mano a tutti gli argomenti più gagliardi, se la passò con qualche parola dicendo fosse lasciata in riposo. Tornato poi sul tardi si sbigottì, e gridando ch’era spacciata, fe’ correr pel prete; e senza trovar strada a soccorrerla nè a vincere questo suo inesplicabile male, poco dopo l’avemaria, la sconsolata famiglia udì dalla bocca stessa del medico che era passata.

Gli alloggiamenti di Francia comparvero in questo, ed Ettore dovette interrompere il suo racconto. Si fece avanti il trombetta sonando, e gli uscì incontro un soldato a cavallo per intendere che cosa cercasse.

Saputo il motivo della loro venuta, ne avvertì l’ufficiale di guardia in quel luogo, il quale, poich’ebbe vista la lettera che da Consalvo si scriveva al duca di Nemours capitano di quell’esercito, impose a Brancaleone ed a Fieramosca d'aspettare che spedisse al duca ad ottener licenza che entrassero in campo.

Offerì loro intanto una trabacca ove si alloggiava la guardia della porta: ma i due amici, udendo che la stanza del capitano era ancor molto lontana, risolvettero d’aspettar quivi, tanto che il messo fosse tornato con la risposta.

Ivi presso sorgeva un gruppo di querce, con molt’erba fresca, che protetta dall’ombra offeriva in quell’ore bruciate del mezzogiorno un bellissimo stare. Vi si condussero i due guerrieri; e, legati i cavalli agli alberi, si disarmaron la fronte e sedettero uno accanto all’altro appoggiando le spalle a quei tronchi. Una leggiera brezza marina rinfrescava loro il viso, onde l’uno riprese a parlare con nuovo animo, ed all’altro crebbe la voglia d'ascoltarlo.

Note

  1. Vien così chiamato un tratto di campagna presso castel S. Angelo, fra il Tevere e monte Mario.
  2. Il bambino d’Araceli, creduto miracoloso, si porta ai moribondi.