Ettore Fieramosca/Capitolo V
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Capitolo V.
Fieramosca seguitò il suo racconto con queste parole:
Perduta Ginevra, il mondo fu finito per me. Uscii di casa cogli occhi stupiditi che non davano una lagrima; e dove andassi, o che cosa fosse di me in quei primi momenti, appena lo potrei dire se non me l’avesser fatto conoscere le cose che accaddero di poi. Andavo come una cosa balorda, o come succede talvolta ben sai quando una mazza ferrata ti percuote sull’elmetto a due mani, che per un poco ti zufolan gli orecchi, e pare che ogni cosa dia volta innanzi gli occhi. Così non sapendo quasi che cosa mi fosse accaduto, passai ponte (la casa della Ginevra era presso Torre di Nona) e su per borgo me ne venni in piazza di S. Pietro.
Quel mio amorevolissimo Franciotto, saputa in parte la mia sventura, mi venne cercando, e mi trovò buttato in terra appiè d’una colonna; in qual modo mi vi trovassi non lo saprei dire. Sentii due braccia che entrandomi di dietro sotto le ascelle, mi sollevarono e mi posero a sedere. Allora mi riscossi e me lo vidi accanto. Cominciò a confortarmi con amorose parole, e così a poco a poco ritornavo in me. M’ajutò alzarmi e con gran fatica mi ricondusse a casa; mi spogliò, e, fattomi entrar in letto, si pose seduto al capezzale, e se ne stava senza darmi noja di parole o di conforti che troppo sarebbero stati fuor di tempo.
Passammo così quella notte senza aprir bocca. Mi s’era messa una febbre gagliarda che a momenti mi levava di cervello, e la fantasia alterata mi faceva parere tratto tratto d’aver un’enorme figura tutta carica d’armature accovacciata sul petto, e mi sentivo affogare.
Finalmente l’afflitta natura fu soccorsa dal pianto. Sonavano dieci ore in castello, e la prim’alba entrava pel fesso della finestra. Avevo sul capo appiccata al muro la spada e l’altr'arme; alzando gli occhi mi venne veduta la tracolla azzurra, che molt’anni prima m’avea dato Ginevra. Quella vista, a guisa di una balestra che scocca, m’aperse la strada alle lagrime, che cominciarono ad uscirmi a torrenti, e questo, sollevandomi il petto, fu cagione ch’io rimanessi in vita. Dopo ch’io ebbi pianto un’ora buona senza mai fermarmi, mi parve d’esser rinato e potei ascoltare e parlare; e col soccorso del buon Franciotto, venni passando quella giornata, e verso sera mi volli alzare.
A mano a mano che ritornavo in me, consideravo qual partito dovessi pigliare in tanta calamità: e d’un pensiero in un altro, disperatomi affatto di poter rimanere in vita, e considerando, se mi lasciavo consumare dal dolore oncia a oncia, quanto fosse per riuscirmi insopportabile una tal qualità di morte, ritornai in que’ primi risoluti pensieri di morire allora per volar dietro a quell’anima benedetta. E così deliberato con me medesimo, mi parve aver fatto un grandissimo guadagno, e mi sentii mezzo racquetato.
Franciotto, che era stato meco dalla sera innanzi, uscì per veder un momento la bottega, e mi promise di tornar tosto. Io, posto mano alla daga (che è questa appunto ch’io ho accanto), volli far quell’effetto allora allora. Poi ripensato meglio che in quella sera si dovea far la sepoltura alla Ginevra, volli rivederla ancora una volta, e morirle vicino. Vestito così a bardosso, cintomi la spada, e preso l’ultimo mio bene, quella tracolla azzurra. uscii.
Passato ponte, m’abbattei nel mortorio. Venivano i frati della Regola a due a due, e più compagnie di fratelli cantando il miserere, e prendevano per via Julia e Ponte Sisto, colla bara coperta d’un gran drappo di velluto nero.
Io, se t’avessi a dire, a questa vista non mi smarrii punto, ma pensando che, se non in vita, in morte almeno saremmo uniti, che eravamo avviati all’istesso viaggio, e che una stessa stanza era per accoglierci ambedue, seguii pieno di funesta gioja e già tutto nel mondo di là, lasciandomi condurre senza badare ove s’andasse. Passato Ponte Sisto per Trastevere, entrammo in S. Cecilia.
Deposta la bara in quella sagrestia ov’è l’avello del figlio di S. Francesca Romana, io mi tenni da canto appoggiato al muro mentre dai frati si cantavano l’ultime esequie. Alla fine sonò sotto la volta il Requiescat in pace.
Tutti uscirono in silenzio ed io rimasi solo quasi allo scuro; non v’era altro lume che la lampada della Madonna. Udii alla lontana il bisbiglio ed i passi del popolo che usciva. In quella scoccò l’ora di notte, e camminava per la chiesa il sagrestano scuotendo il mazzo delle chiavi, e disponendosi a chiudere.
Nel passarmi vicino, si accorse di me e mi disse: «Si chiude». Io gli risposi: «Ed io rimango».
Egli guardatomi, e facendo l’atto di chi riconosce taluno, disse:
— Sei l’uomo del duca? Troppo fosti sollecito.... La porta rimarrà socchiusa, e poi che sei qui tu, io me ne vo pe’ fatti miei. E senza udir altro, se n’andò.
Io poco gli davo retta, pure quelle parole mi fecero risentire, e non sapevo se egli od io sognavamo. Che duca? che porta socchiusa? Che vuol dire questo sciagurato? Pensavo fra me.
Pure lontano le mille miglia dal vero, nè essendo capace di molto ragionare in quei momenti tornai presto nella prima risoluzione, e dopo breve spazio (tutto intorno era cheto) me ne venni col brivido della morte alla bara.
Tolto il drappo che la copriva, e, tratta la daga, che era forte ed acuta, mi posi a sconficcar la cassa, e durai gran fatica con quel solo aiuto ad alzar i cappelli de’ chiodi; ma tanto feci che n’ebbi levato il coperchio.
Il bel corpo stava avvolto in un lenzuolo, vestito di panni bianchissimi. Io prima di morire volevo veder quell’angelo in viso ancora una volta. Mi posi ginocchioni, e andavo svolgendo i veli che mi toglievano quell’ultimo conforto. Alzai l’ultimo lembo, e apparve il volto di Ginevra: pareva una statua di cera. Tutto tremante calai la mia fronte sulla sua: ed alla sfuggita, che mi sembrò delitto, non potei fare di non baciarle le labbra. Le labbra diedero un piccolo tremito. Ebbi a cader morto. Può far tanto, dissi, Dio onnipotente, la tua misericordia! E le tenevo le mani ai polsi. Il batticuore mi toglieva il respiro. I polsi davano segno. Ginevra era viva!
Ma pensa com’io mi smarrii trovandomi a quel modo. S’ella si risente, dicevo, e si trova in questo luogo, lo spavento basta a darle la morte. Non sapevo che mi fare, e smaniavo. Mi volsi colle braccia stese a quella Madonna, e la pregavo: O vera Madre di Dio! fa ch’io possa salvarla, e giuro pel tuo divin Figliuolo, che sono vôlti solo al bene i miei pensieri. Ed in cuore feci voto solenne di non cercar mai da lei cosa che fosse contro l’onestà, s’io riuscivo a tornarla in vita, e cancellare in tutto e sempre ogni pensiero di dar morte al marito; la qual cosa sin allora avevo avuta fissa nell’animo, e deliberato prima o poi di porla ad esecuzione.
A questa preghiera fatta tanto di vero cuore non mancò il pietoso aiuto divino.
Il mio Franciotto che era uscito di casa, come ti dissi, nel tornare m’avea veduto andar verso ponte, e parte immaginandosi il vero, e temendo sempre, come mi disse di poi, ch’io non prendessi partito disperato, m’era venuto dietro. Ma, come discreto, si studiava di parlarmi o darmi disturbo meno che poteva in quei momenti, ben conoscendo che il caso mio non era da consigli, ma solo d’aiuti quando venisse il bisogno. Entrò cogli altri in chiesa e vi rimase nascosto in un angolo oscuro; e mi ha detto più volte in appresso che vistomi por mano all’arme, fu per saltarmi in sulle braccia, e stava sull’ale, per non arrivar tardi; vedendo poi che m’affannavo soltanto ad aprir la cassa stette saldo, e solo a questo punto, conosciuta la necessità, mi si scoperse. Sentii le sue pedate, quando appena finivo la preghiera; mi volsi e me lo trovai vicino. Così da terra gli abbracciai le ginocchia come colui che mi dava due vite ad un punto, e come un angiolo che mi scendeva dal cielo; rizzatomi poi consideravo come senza disagio e pianamente si potesse levar di quivi la donna. Alla fine prendemmo la coltre di velluto che copriva la bara, e volta al rovescio, onde se si risentiva non s’avesse ad accorgere su qual lugubre panno si trovasse, ed accomodate le lenzuola che l’avvolgevano, in modo di farle il miglior letto possibile, con gran diligenza la sollevammo dalla cassa, e piano piano la posammo su quest’involti.
La povera Ginevra non avea aperti gli occhi, ma le usciva dal petto qualche tronco sospiro. Franciotto cercando per gli armadii, trovò per buona sorte le ampolle delle messe, e ci venne fatto, mettendole quel becco sottile fra le labbra, farle scendere qualche stilla nello stomaco a riconfortarla: poco tuttavia e solo per dare un leggiero aiuto agli spiriti, chè non avremmo voluto fosse tornata in sè in cotesto luogo. Dipoi con gran cura, io da capo e Franciotto da’ piedi, presi i lembi della coltre, l’alzammo, e senza accidente come volle la Vergine SS. la portammo fuori di chiesa, e per San Michele venimmo a Ripa, dove sono le barche. Fra queste ve n’era una di Franciotto. Non sapevamo così su due piedi trovar luogo nè migliore nè più sicuro. Vi portammo la Ginevra; ed accomodatole un poco di letto sotto coverta, aiutati da due o tre uomini che guardavano la barca, me le posi accanto, e Franciotto corse per un barbiere amico suo, uomo di fede e dabbene, onde venisse ad aiutarla, e trarle sangue se bisognava.
Dovea ripassare per Santa Cecilia. Giuntovi s’avvide d’una compagnia d’uomini armati che era ferma davanti la porta, e sulle prime credette fosse la corte. S’andò accostando pianamente muro muro, finchè giunto ad appiattarsi vicino a loro s’accorse che non era la corte altrimenti. Erano da trenta pezzi d’arme tra picche e spadoni a due mani. In disparte una lettiga vuota portata da due uomini. E quello che pareva lor guida stava guardando verso la chiesa, serrato nel mantello, e si mutava or su un piede or s’un altro in atto d’impazienza. Poco stante uscirono due come famigli, ed accostandosegli dissero: — Eccellenza, la cassa è sconfitta e vota!...
Fu tanta la potenza di queste parole, che scioltosi colui dal mantello percosse con una lanterna, che teneva sotto, sul capo del servo e se lo fe’ cadere ai piedi, e l’altro, a non essersi cacciato a correre, avrebbe avuto di peggio, che già colui aveva posto mano alla spada. Dopo molto tempestare gli convenne partirsi scornato.
Franciotto avea notato fra quegli armati uno in cappa e mantello alla curiale, ed al lume di certi torchi che avean con loro, riconosciutolo per quel ribaldaccio di maestro Jacopo da Montebuono. La presenza di costui in tal luogo, ed in tal compagnia, gli fece nascer di strani sospetti.
Quando si furono avviati, tenne loro dietro alla lontana, e invece d’andar pel barbiere, fece disegno sul sopraddetto maestro Jacopo. Solo dubitava non si facesse accompagnare sino all’uscio da alquanti di costoro. Ma, come a Dio piacque, abitando al principio della Longara, quando fu a Ponte Sisto, per esser così breve tragitto, lasciò andar gli altri, che passarono il ponte, ed egli s’avviò a casa sua. Franciotto lo raggiunse sotto l’arco, e dettogli non temesse di nulla, lo pregò venisse insino a Ripa Grande per una giovane che stava col mal di morte; e tante gliene seppe dire che lo condusse da noi.
Come fu entrato sotto coverta tosto riconobbe me e la Ginevra, e s’accorse ch’egli aveva dato in un trabocchetto. Franciotto, trattomi da parte, mi narrò ciò che aveva veduto avanti a Santa Cecilia e le parole udite, tantochè principiai a riflettere; mi si squarciò il velo, e capii come doveva essere andata la cosa. E stringendo maestro Jacopo, e minacciandolo, chè era il più pauroso uomo del mondo, lo feci cantare: e mi disse che per ordine del Valentino avea dato alla donna la sera della cena un vino medicato, per virtù del quale era rimasta assopita, ed aiutando esso l’inganno, l’avea dichiarata morta, onde, portata in chiesa, il duca avesse agio a venirsela a prender la notte.
Era un vero miracolo che una trama tanto bene ordita fosse andata a voto: e pensa quanto ne ringraziai Iddio.
Allora volto a maestro Jacopo, gli dissi: — Ascoltatemi, maestro Jacopo. Io potrei farvi cascar morto con questa daga, ma vi voglio conceder la vita col patto che sia salva quella di costei, onde adoperate i vostri argomenti se volete tornar sano alle vostre brigate. Se poi direte ad anima viva come sia finito questo fatto, io v’ammazzerò come un cane ad ogni modo.
Il maestro spaventato mi promise tutto ciò che volli, e con gran premura si mise attorno alla donna, onde io consigliatomi con Franciotto feci scioglier la barca e tutti insieme per fiume ne venimmo alla Magliana, che di poco eran sonate le cinque ore.
Il buon maestro non disse mai nulla di questo.
Ginevra frattanto s’era risentita, ed avendo aperti gli occhi, li girava intorno attonita. Io, fatto oramai sicuro d’averla viva, e parendomi d’aver operato un miracolo, attendevo di tutto cuore a ringraziar Dio, posto ginocchioni al capezzale di lei, che avevamo allogata in una cameretta del vignaiuolo.
Dopo un poco d’ora, tenendole io una mano, sulla quale appoggiavo la fronte e talvolta le labbra, la ritrasse, e m’alzava i capelli che mi cadevan sugli occhi, guardandomi fisso. Alla fine mi diceva: Oh non sei tu Ettore mio?... Ma come qui?... Dove siamo?... Non mi par la mia camera.... sono in altro letto.... Oh Dio, che cos’è stato?
In questa Franciotto, che s’affacciava ogni tanto per vedere come andasse la cosa, comparve sull’uscio. Ginevra diede un grido, e gettandomisi addosso tutta tremante diceva: — Aiutami, Ettore, eccolo, eccolo! Vergine SS. aiutatemi! Io mi sforzavo rassicurarla il meglio che poteva, ma tutto era niente, e mostrava aver tanto spavento del buon Franciotto che pareva che gli occhi le volessero schizzar fuori dalla fronte. M’avvidi dello scambio, e le dicevo: — Ginevra, sta di buona voglia; non è il duca costui, ma un mio carissimo amico, e ti vuole quanto bene egli ha.
L’avresti veduta a queste parole deporre ogni timore, e volgersi piacevolmente a Franciotto quasi in atto di chieder perdono. Pensa come in cuor mio maledivo quello scellerato!
Ginevra allora cominciò a domandarmi che le spiegassi in qual modo si trovasse quivi, ed io la pregavo fosse contenta per allora aver fede in me, ed attendere solo alla salute, che voleva riposo, e tanto le dissi, che mi riuscì di quietarla, e verso la mattina fattole prender un cordiale, s’addormentò.
Ma non dormivo io. Ben conoscevo ch’era pazzia lo sperare volesse indursi a rimanere meco; e che a mio, e forse a suo malgrado, pure avrebbe voluto tornarsene col marito, appena le sue forze gliel’avessero concesso. Onde spedii velocemente a Roma Franciotto ad informarsi in che termini si stesse colà, e come vi fosse intesa la cosa.
Tornò verso sera recando la nuova che il Valentino s’era levato colle sue genti, ed avviato verso Romagna, ed aveva menato con sè Grajano e la compagnia. Non si sapeva quale impresa fosse per fare dapprima.
Ne feci motto alla Ginevra, la quale, udito da me alla fine quanto le fosse occorso, ondeggiava in varii pensieri senza sapere a che risolversi. Con molte parole le mostrai che in modo nessuno le conveniva tornarsene a Roma, ove il Valentino avrebbe con facilità potuto trovarla, ed emendare il primo colpo fallito: che suo marito avvolto nelle faccende della guerra, e tutto cosa del duca, difficilmente avrebbe potuto, anche volendo, servirle di difensore: e poi come, dove rintracciarlo? La pregavo, con affetto grandissimo non volesse andar contro ad una quasi divina disposizione, che per istrade tanto fuori dell’ordinario ci aveva riuniti, togliendola da una condizione piena d’insidie e di pericoli: pensasse che levandoci di qui, potevamo per la supposta morte condurci senza sospetti in parte ove libera e tranquilla potrebbe almeno aspettare e vedere dove andasse a parare la sua fortuna e quella di suo marito; ed alzando la fede, le dissi queste formate parole:
— Ginevra! io giuro alla Vergine SS. che sarai meco, non altrimenti che se fossi con tua madre. Franciotto ancor esso aiutava; tantochè la buona Ginevra alla fine con molti sospiri, nè potendo affatto vincere un cotal rimorso che la rodeva, mi disse: — Ettore, tu sarai mia guida: a te sta il mostrare che il cielo e non altri mi t’ha mandato.
Entrato in questa risoluzione feci al maestro un’altra orazioncina colla mano alla daga, poi lo rimandai a Roma in compagnia di Franciotto, dal quale mi divisi con grandissimo dolore. Montati in barca colle nostre poche robe ci levammo di quivi e giù per fiume giunti ad Ostia ci drizzammo terra terra verso Gaeta. Il reame era tuttora in mano de’ Francesi, ed essendo loro amico il Valentino, non mi pareva esserne sicuro finchè non mi trovavo mille miglia lontano da loro. Per la qual cosa più che potevo senza troppo affaticar la Ginevra, col continuo viaggiare sollecitavo ad allontanarmi da queste coste, e come a Dio piacque ci trovammo una sera a salvamento in Messina; e ringraziai di tutto cuore Iddio di averci tratti da tanti pericoli.
Giunto Fieramosca a questo punto, vide che dal campo si movevano molti uomini a cavallo i quali venivan per loro, e soggiunse:
— Troppo cose mi resterebbero a narrarti; costoro vengono, e mi manca il tempo. Ma per conchiudere, passammo circa due anni in codesta città. Ginevra si ritirò in un monastero, ed io, che m’era dato per suo fratello, la visitavo più sovente che potevo.
Passato questo tempo s’era accesa la guerra fra Spagnuoli e Francesi. La vita ch’io menavo mi parve alla fine troppo indegna di un soldato e d’un Italiano.
Legato com’ero dal voto fatto in Santa Cecilia non potevo sperare al nostro amore virtuoso fine.
Tutt’Italia era in arme; i Francesi parevano i più forti, ed oltre l’amor di patria che mi spingeva a combattere il nemico più pericoloso, avevo una vecchia ruggine co’ Francesi e colle loro insolenze. Scorgevo ancora, ti dico il vero, più sicurezza per la Ginevra all’ombra delle bandiere di Spagna, ove non poteva giungerla il Valentino.
Queste ragioni conosciute vere dall’animosa Ginevra, che non ostante il suo amore per me non poteva patire ch’io rimanessi addietro, mentre si combatteva per la fortuna d’Italia, ci risolvettero in tutto, e, scritto al signor Prospero Colonna che metteva genti insieme per Consalvo, mi posi sotto la sua bandiera.
In quel tempo si trovava colla compagnia a Manfredonia, onde noi, lasciata Messina, per mare ci drizzammo a quella volta. In quel viaggio ci accadde uno strano accidente.
Eravamo sorti a Taranto; e quivi riposatici, uscimmo dal porto una mattina per andar a Manfredonia. Era una nebbia folta del mese di maggio, e la nostra barca a due vele latine e dodici remi, volava sul mare piano come una tavola. A mezzogiorno ci si scopersero addosso quattro navi ad un trar d’archibugio, e ci chiamarono all’ubbidienza. Volevo fuggirle, ed avremmo potuto, chè stavamo a sopravvento; ma considerato che coll’artiglierie potevano fare qualche mala opera, presi partito d’andare a loro.
Erano legni viniziani che venivano di Cipro, e conducevano a Vinegia Caterina Cornaro, regina di quell’isola. Saputo l’esser nostro, non ci detter noja, e dietro loro seguivamo il viaggio.
Era già fatta notte: la nebbia cresceva, ed io stimavo gran ventura aver trovato costoro che ci ajutavano a non ismarrir la strada in quell’oscurità.
Presso la mezzanotte, Ginevra dormiva e solo due uomini stavano in piedi per regolar la vela e diriger la barca; ma anch’essi tratto tratto andavano dormicchiando. Io seduto a prora vegliavo, fisso in mille pensieri. Tutto era cheto. Mi parve udire sulla corvetta della nave della regina, che ci precedeva di mezz’arcata, i passi d’alcuni uomini; gli udivo parlar sommesso, ma parole concitate e piene d’ira; tesi l’orecchio; una voce di donna si mescolava all’altre, e pareva chiedesse mercede: seguiva un pianto, e s’udiva a riprese, quasi costoro tentassero soffocarlo. Alla fine sentii un tonfo nel mare, come d’un corpo cadutovi. Io dubitando forte mi rizzai, e stringendo le ciglia, mi parve vedere non so che bianco agitarsi a fior d’acqua: mi buttai a mare ed in quattro sbracciate mi vi trovai accosto, afferrai un lembo di veste, e presolo coi denti tornai alla barca traendomi appresso un corpo. Gli uomini miei s’erano risentiti allo strepito; m’aiutarono risalire, e tirar su chi era meco. Trovammo una donzella in sola camicia, legate le mani con una villana corda, e non dava segno di vita. A forza d’aiuti tuttavia si riebbe alla fine. Facemmo di rimaner addietro de’ Veneziani che seguirono il lor viaggio, nè si curarono di noi. Calammo la vela ed aspettammo fermi che aggiornasse. Uscito il sole si allargò il tempo, ed in poche ore fummo a Manfredonia, ov’io trovai il signor Prospero, e Ginevra cogli altri allogati all’osteria.
Tu ora vorrai sapere chi fosse codesta donzella campata dal mare, ma non posso soddisfarti, perchè nemmen io lo so. Non è mai riuscito nè a me nè alla Ginevra di strapparle una parola sui suoi casi, o sull’esser suo. Ell’è nata in Levante, è Saracina certamente, e più diritta e leale ed amorevole che donna del mondo; nello stesso tempo fiera ed ardita che non la sbigottisce nè il sangue, nè l’armi, ed in faccia al pericolo è più uomo che donna. Da quel giorno in qua è rimasta sempre con Ginevra: ed io feci in modo che la badessa di S. Orsola le ricevesse entrambe nel suo monastero, ove per la vicinanza (ora che la guerra ci tiene chiusi in Barletta) posso venirle visitando più spesso.