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62 | ettore fieramosca |
pareva di stare ora presso la porta del paradiso, ora più in giù dell’inferno, ed era tanto il contrasto, che mi sentii mancar le ginocchia, e mi convenne lasciarmi andare su una sedia. Aspettai pochi minuti, che a me parvero mill’anni. Quando sentii giù per la scala lo stropiccio de’ piedi e della gonna di Ginevra, quasi mi lasciò affatto ogni virtù vitale. Entrò ella e rimase così un poco discosta guardandomi; ed io, lo crederai? non potei nè parlare, nè movermi, nè formare una voce: ma appena m’ebbe riconosciuto, gettò un grido, e cadeva in terra svenuta, se non ch’io la raccolsi in braccio, e, slacciandola m’ingegnavo soccorrerla tutto spaventato dall’importanza del caso, e dal timore d’esser quivi trovato: e coll’acqua d’un infrescatoio ch'era presso, le spruzzavo la fronte. Ma le lagrime bollenti che mi piovevano dagli occhi e le innondavano il volto, furono più possenti e la richiamarono in vita. Io non seppi far altro che prenderle una mano e premervi su le labbra con tal passione ch’io credetti che l’anima mia passasse in quel punto. Così stemmo un poco: alfine tutto tremante si spiccò da me, e con voce che appena la potevo udire, mi disse: Ettore, se sapessi i miei casi!... Li so, risposi, li so pur troppo, ed altro non domando, altro non voglio che poterti morir vicino e vederti qualche volta finchè son vivo.
In questa s’udì romore al piano di sopra, mi corse un gelo per l’ossa, dubitando d’esser scoperto; e che a lei s’accrescessero i guai. Preso commiato cogli atti più che colle parole, sollecitai a levarmi di quivi, ed uscii un poco meno afflitto e sconsolato.
Intanto la ferita del marito non guariva, e molti Francesi, gentiluomini e prelati, ogni giorno lo venivano visitando. Benchè il maraviglioso viso di Ginevra mostrasse l’affanno interno che la travagliava, nondimanco la sua bellezza, con un certo languido pallore, aveva pure un tal che d’appassionato, che non si po-