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e felice uomo del mondo, eseguire la mia malaugurata partenza: di qui nacque ogni mia sciagura.

Dio volesse che quando misi il piede alla staffa fossi caduto morto, sarebbe stato men male per lei e per me.

Mi condussi a Roma sempre maledicendo la mia fortuna; e giunsi in quella che per una parte entrava re Carlo, e per l’altra i nostri si ritraevano in furia. Vi fu qualche leggiero scontro, ed io tanto mi spinsi avanti fra certi Svizzeri, che fui per morto lasciato con due rondolate nel capo, onde penai gran tempo a guarire.

Queste ferite le toccai presso Velletri; portato nella terra e medicato, ebbi a star quivi due mesi, senza saper più nulla di Ginevra, nè del padre, e solo udivo d’ora in ora le triste novelle del reame che vi giungevano ed eran fatte dalla gente di casa sempre maggiori, e con tante favole tra mezzo che non potevo in esse distinguere cosa buona.

Pure alla fine ritornato gagliardo, e volendo uscire di tanto travaglio, montai una mattina a cavallo e me ne venni a Roma. Ivi era un disordine grandissimo, e papa Alessandro che al passaggio del re poco gli s’era mostrato amico, vedendo ora spacciate le cose del reame, e che già della lega fra il Moro ed i Viniziani si bisbigliava, onde ai Francesi conveniva dar volta, stava in sospetto grandissimo ed il meglio che poteva s’armava ed afforzava Roma e ’l castello. Appena scavalcato andai a far riverenza a monsignor Capece che molto m’accarezzò, e volle in tutti i conti levarmi d’in sull’osteria.

Intanto cresceva il romore in Roma, ed aspettandosi a giorni la vanguardia del re, composta di Svizzeri, molto si temeva da tutti ed ognuno pensava a’ fatti suoi.

Comparve alla fine l’esercito. Il papa col Valentino