Esperimento di traduzione dell'Iliade di Omero/Frammenti di traduzione dell'Iliade

Frammenti di traduzione dell'Iliade

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Versione del Canto terzo
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ALCUNI FRAMMENTI

DELL’ILIADE.1


Principio della prima battaglia dell’Iliade,
libro IV.

Qual se pria da lontan Zefiro spira
Negreggiano crescenti onde sovr’onde;
Poi viene, e seco tutte urtan la terra.
Burrascose mugghiando e dal profondo
Curve altissime in vetta a’ promontori
Riversansi; e la spuma all’aura freme:
Così dense su dense ivan sorgendo
De’ Danai le falangi alla battaglia;
Cupa al correr de’ piè tremar la terra,

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Alto quà e là s’udia sorgere il grido
Di ciascun duce alla sua squadra, e tutte
Silenzïose, riverenti a’ duci;
Nè d’esercito tanto avresti detto
Che le schiere nel petto avesser voce:
Militava ogni gente insigne d’armi
Diverse, e luce discorrea da tutte.
     Ma qual da greggie immense, entro le chiuse
D’opulente signor, ove del pingue
Latte sien munte, e van belando a’ lai
De’ loro agnelli; tal sorgea confuso
E diffondeasi un ulular sul vasto
Esercito Iliense ove non una
Era voce o loquela; e i tanti aiuti
Da varie terre frammescean le lingue, ec.

Enea ferito da Diomede e preservato da Venere,
libro V
.

     Ma con l’asta e lo scudo Enea proruppe
E a guisa di leon quando più fida
Nella sua possa, ei circondava a grandi
Passi e da’ Greci custodiva il morto (Pandaro)
Che non fosse predato; e d’ogni parte
Protendendo lo scudo e lunga l’asta,
Lontan voi tutti o chi verrà l’uccido,
Vociferava orribile: e il Tidide

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Tolse di mole enorme aspro un macigno
Tal che non due quai sono oggi i mortali
Lo reggerian. Ben ci l’alzava; ei solo
Di tanta forza a due man disserrollo
Che nell’anca onde scende all’uom la coscia
I due tendini franse, e l’osso ch’altri
Acetabolo noma, e via si trasse
La pelle e grave ripiombò sul campo.
Cadde Enea genuflesso; e a farsi al corpo
Puntel del braccio il suol premea col pugno,
E intorno gli crescea torbida l’ombra:
E se di Giove la più bella figlia,
Che nel grembo d’Anchise e fra le mandre
Innamorata il partoria sull’Ida,
Men intenta a guardarlo era da’ cieli,
Allor l’eroe periva. Ella di tutte
Le nivee braccia sue precinse il figlio,
E a larghe falde innanzi a lui diffuse
Il suo peplo raggiante, impervio a’ Greci
E agli assalti di morte; e sel reggeva
Fra il braccio e il seno a traversar la pugna.

Giunone e Pallade la scendenti al campo de’ Greci,
libro medesimo
.

     Stava agli ardenti alipedi imminente
Giuno a redini tese e ad alta sferza

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E li percosse; e quei frementi allegri
Fra gli astri e il ciel volavano e la terra.
E quanto ciel con gli occhi intorno aduna
L’uom che mira dall’alpe immenso il mare,
Tant’aer prendeano alto sonante a lanci
Fra le nubi i cavalli; e in vista al sacro
Ilio posaro a’ confluenti fiumi.
Qui ratto il Simoi e il placido Scamandro
Giungono l’acque a far vïaggio al mare,
E qui lasciò di folta aura velati
Giuno la biga e i suoi corsieri al prato,
E ambrosia il Simoi al lor desìo versava.
     Quai due tortore van strette e frettose
Così radean quelle celesti il piano
Finchè giunsero al campo ove schierati
Diretro a Diomede eran guerrieri
Densissimi; e parean stuol di leoni
Intorno a carni sanguinenti, o atroci
Porci ferini a provocar la caccia.
E Giuno del Tonante altera donna
Esclamando parea Stentore in volto
Che con lungo boato e ferrea voce
Tuonava il grido di cinquanta petti:
O belli in arme, Achei; belli e non altro, ec. ec.

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Incontro d’Ettore e d’Andromaca
nel libro VI.

                    A tutta lena Ettore diessi
A ritornar su l’orme sue per entro
Le vie alte di case, e traversando
Troia grande quant’era al piè divenne
Dell’altre porte Scee. Quivi alla pugna
Gli s’apriva l’uscita; e sciolta in pianto
Gli corse innanzi Andromaca e il rattenne, ec.
Dall’Ipoplacia Tebe ella con molto
Oro dotale al grande Ettore in Ilio
Bella, santa consorte era venuta.
Unico nato a lei tenero figlio
Beltà parea d’astro sorgente, a lato
Veniale allora in petto alla nudrice.
Scamandrio il padre lo nomò, e l’udiva
Appellar dalle genti Astianatte,
Quando a Troia era scudo Ettore solo.
Silenzioso ei sorridea con tutti
Gli occhi mirando al pargoletto; e innanzi
Gli si frappose Andromaca, e la destra
Pur a due mani gli stringea piangendo:
     Magnanimo, gli disse, il tuo valore
Ti perderà: nè di figliuol lattante
Nè di moglie ti duole, ahi fra non molto

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Vedova, da che fuggi ove a congiura
Tutti stanno gli Argivi a darti assalto
E trucidarti. Allor mi t’apri o terra:
Unica amica mi sarà la morte.
A chi mai per conforto? Ahi tutta al pianto
Ettore allor mi lascierai: pur vedi
Che madre pia, nè padre
pia, nè padre a me non vive.
D’Ezïone padre mio nel sangue
Bagnossi Achille; gli radea le rocche
Di Tebe altera popolosa reggia
De’ cilici beati; e forse il tenne
Religïon; nè lo spogliò, dell’arme
Diello ornato alla pira, e delle glebe
Materne all’ossa un tumulo permise,
E gli olmi quete intorno ombre gli danno
Piantati dalle pie figlie di Giove
Oreadi ninfe. Io nel suo tetto un giorno
Compagni mi vedea sette fratelli,
Ma colti fra le mandre e le tranquille
Candide agnelle un’ora sola e Achille
Me li rapian. Regina era d’onori
La genitrice mia, donna beata,
D’Ipoplaco selvosa: indi fu l’una
Delle schiave d’Achille. Assai tesoro
Pur la redense, e, ritoccato appena
Il tetto suo, Diana a me l’uccise.
Tu padre a me, fratello sei, tu madre.

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Giovine sposo mio, padre al mio figlio
M’abbi pietà, ch’io non mi sia straniera
Vedova a errar con l’orfano bambino.
Tienti alla rocca, a noi, l’armi raduna ec.
                                   Taceva
Gemendo; e a lei rispose Ettore mesto:
     Tutto ricordi, o donna mia, ch’io penso,
E notte e dì mi tien trista la vita.
Ma il volto io temo de’ Troiani, e sento
Delle Troiane i lai, se guerreggiando
Parrà ch’io badi e che atterrito io fugga.
Nol fo, nol voglio e nol potrei; l’abborre
L’anima mia. Nacqui alle pugne, appresi
A non mai consentir ch’altri ch’io guido
Mi preceda ai perigli. E chi de’ Troi,
Chi, se non io, vendicherà la grande
Gloria del padre mio, la gloria mia?
Giorno presento e nella mente il veggo
Che perirà la sacra Ilio; che tutto
Di Priamo illustre perirà il guerriero
Popolo; e Priamo perirà. Nè tanto
De’ cittadini miei gemo a quel giorno,
Nè del re generoso, o dell’afflitta
Ecuba santa genitrice mia,
Ne de’ fratelli sì mi duol che molti
E gagliardi cadran giovani in guerra,
Quanto di te, ec. ec.

Note

  1. Questi frammenti, che abbiamo estratti dal vol. xlvii dell’Antologia di Firenze an. 1832, furono dal Foscolo mandati poco innanzi il morire al coltissimo amico suo sig. march. Gino Capponi. Noi li aggiugniamo alla nostra raccolta, affinchè i lettori veggano se egli è riuscito a dare la desiderata modificazione al modo di tradurre tenuto nel primo e nel terzo libro della Iliade.