Cap. XLV

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XLIV XLVI
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XLV.


La contessa Armandi era ritornata a Firenze sin dal principio dell’inverno, e per consiglio dei medici, per obbligo di condizione, per svago, per far piacere alla figliuola, avea dovuto ricominciare a veder gente, e a farsi vedere. Così non tardò molto ad incontrare Alberti. La contessa era sempre una donna di spirito anche a 60 anni, e non avea pensato a rimettere, al pari dei denti, gli artigli che le erano cascati. Ella abbracciò Adele come la sua migliore amica, rivide Alberti come se si fossero lasciati il giorno innanzi — e gli disse anche:

— Ci vuole un bel coraggio per dirle che son proprio l’Armandi di 20 anni fa, non è vero? Gli amici che invecchiano lontani non dovrebbero rivedersi giammai. — Anche lei è cambiato, sa? [p. 250 modifica]

— E tu hai amato quella donna, gli disse Adele fra motteggevole ed imbronciata, allorchè furono a casa, ritti dinanzi allo specchio del camino — ei ci si era guardato a lungo per la prima volta. — Ci aveva pensato anche lui, ed era un po’ lunatico quella sera; Adele aveva tentato dissipar la tenue nube, ei sorrise dolcemente, ancora pensoso, e le disse:

— Chissà se fra qualche anno non penserai la stessa cosa per me?

— Cattivo! oh, cattivo! esclamò con impeto la moglie buttandoglisi al collo.


Quelle due parole dell’Armandi avevano però gettato un gran turbamento nel cuore di Alberto. Tutte le follie del passato gli sfilavano dinanzi, ironiche, motteggiatrici, assurde, ridicole, prendevano la fisonomia di quella amante floscia, sdentata, e coi capelli grigi; ei fu costretto a domandarsi quali sarebbero stati adesso i suoi sentimenti se l’Armandi, invece di lasciarlo come un guanto rotto in un viale di Torino, avesse sempre continuato ad amarlo; se la gratitudine, il dovere, l’onore, lo legassero ancora a quella donna! Tutto quello che aveva sentito per colei se ne sarebbe dunque andato cogli anni e colla bellezza, poichè non sarebbe rimasto altro legame che il dovere, l’onore e la gratitudine! Allora avea gettato gli occhi sullo specchio, e il suo pensiero era corso di lancio ad Adele. Anch’egli era cambiato, molto cambiato! Quel dubbio, quella timidità, [p. 251 modifica]quell’inquietudine che agitavansi confusamente in lui da un pezzo, l’Armandi l’avea formulato nettamente colle sue parole e coi suoi capelli grigi; si sentiva più cambiato dentro di sè che all’esteriore; la stanchezza fisica influiva sulla prostrazione morale: tutti i suoi sentimenti avevano alcun che di fiacco, d’incetto, di sfiduciato, all’infuori di quel solo che qualche volta era un tormento — e Adele era ancora piena di giovinezza e di beltà! — Il suo fatale spirito d’analisi lo spingeva a fatali deduzioni; sembravagli che il nuovo sentimento il quale riempiva tutto il suo cuore fosse un effetto di quella medesima stanchezza fisica e morale, fosse quel bisogno di ritemprarsi che c’è nell’umana natura: il suo amore era dunque l’egoismo del cuore, che invecchiando s’attacca a qualche cosa! Ma Adele che era giovane e ricca d’affetto?.... tutto quello che avea attratto o suscitato gli ardori della giovinezza di lui non doveva attrarre o suscitare adesso quelli di lei, sedurla, farle comprendere a qual cadavere anticipato avesse ella legato la sua giovinezza? Avrebbe rinunziato a lei piuttosto che sapersela legata da un sentimento qualsiasi che non fosse stato puro amore. Il suo affetto per la moglie diveniva più intenso, meno espansivo, assai più timido e altero.

Adele si avvedeva qualche volta di ciò che passava pel capo del marito come una nube tempestosa; indovinava il turbamento che sconvolgeva di tratto in tratto quell’anima, e non sapeva a che attribuirlo. Anch’essa divenne inquieta, timorosa e alquanto schiva alle volte. [p. 252 modifica]Temeva che gli spiriti irrequieti del marito si risvegliassero, e che egli stesso, combattendoli per debito di onest’uomo, non potesse fare a meno di rimpiangere segretamente la libertà perduta, e la vita avventurosa di una volta. Anch’ella perciò era divenuta un po’ melanconica, e qualche volta anche dispettosa. Avrebbe voluto mettere la sordina alla memoria del marito, come poteva mettergli le mani sugli occhi se voleva, per impedirgli di vedere quelle altre belle donne delle quali era gelosa; e poi per una tal superbietta di donna, ed anche per ambizioncella di moglie, avrebbe voluto scaricare su qualcuno, un caro qualcuno di là da venire, la responsabilità di quella missione. — Se avessimo un bimbo! gli diceva sottovoce, e celandogli in seno il viso infuocato.

Ei chinava il capo e stava zitto; una volta rispose con quel sorriso tutto suo:

— Hai voluto tentare il cielo, lo vedi, Adele mia!


In quel tempo Gemmati era ritornato a Firenze da un lungo viaggio scientifico, e Adele avea dato scherzando al marito quella notizia raccolta nei saloni che frequentava insieme alle lodi del giovane scienziato.

— Bisogna scappar via da Firenze adesso? domandò ridendo.

— Bisogna invitarlo a pranzo domani, e farmi perdonare i torti che ho verso di lui.

Gemmati aveva perdonato quei torti, noti oppur no, [p. 253 modifica]con una di quelle strette di mano che armonizzavano col suo viso aperto e leale. Avea riveduto Adele senza finta semplicità, senza riserbatezza affettata: dopo la prima stretta di mano, tutti tre sentivano che non avevano più nulla a nascondersi, nulla a rimproverarsi, e respiravano liberamente.

— Sai che sono stato geloso di te! gli disse Alberto allorchè furono soli un momento.

— Non sarebbe stata la prima volta; rispose Gemmati ridendo; ti rammenti della figliuola del barbiere a Prato? e adesso, alla fin dei conti, mi tocca d’essere geloso io di te! Sei felice? aggiunse vedendo rientrare la marchesa.

— Sì, rispose Alberto con una certa vivacità.

Gemmati avea mille cose da raccontare dei suoi viaggi e il suo dire era pieno di brio e d’interesse. La sera trascorse come un lampo, in una dolce e tranquilla intimità, e fece venire nel discorso il ricordo delle più belle sere di Belmonte. Gemmati s’era fatto un bell’uomo, dai lineamenti energici e virili, sembrava avere acquistato in una vita attiva ed operosa tutto quello che Alberti avea sciupato nella sua molle e tempestosa. Il marchese l’avea forse contemplato con cotesto sentimento, mentre Gemmati discorreva con sua moglie, e quando se ne fu andato, Adele disse:

— È sempre giovane! n’è vero, Alberto?


La salute della marchesa Alberti era sempre delicata, e in estate i medici le prescrivevano di fuggire Firenze. [p. 254 modifica]Ella soleva andare a Montecatini, a Viareggio, o a Livorno. Quell’anno fu scelto Livorno.

— Vieni anche tu? aveva domandato Alberto a Gemmati.

— Non posso. Ho speso tutto il mio poco avere nei viaggi, e adesso bisogna che metta giudizio. Comincio a farmi una discreta clientela; sai come siamo noi altri medici, specialmente in principio di carriera? non potrei lasciar Firenze per una settimana, senza mandare a monte quel che ho fatto sinora.

Livorno quell’anno era una stazione alla moda; gli alberghi e le ville rigurgitavano di forestieri; giammai l’Ardenza e i Cavalleggieri erano stati più affollati di equipaggi eleganti. Il giorno stesso che la marchesa Alberti prendeva stanza nell’appartamento fissato preventivamente per telegrafo nell’albergo della Gran Bretagna, giungeva da Berna nell’albergo istesso una di quelle coppie di zingari del gran mondo che scorazzano per tutte le stazioni d’Europa segnate dalla moda — il principe e la principessa Metelliani.

La principessa era abituata a giunger dappertutto come una regina, ed a stendere senza contrasto il suo ventaglio come uno scettro. Ella fu dunque ferita nel più vivo dell’amor proprio incontrando a Livorno una rivale preferita, incensata, corteggiata più di lei e che per giunta non sembrava curarsi del suo trionfo, o godevaselo disinvoltamente come cosa dovutale naturalmente — e chi poi? quella medesima donnina che ella aveva sempre eclissato col solo riflesso dei suoi biondi [p. 255 modifica]capelli! quella figurina pallida, magra, tutta occhi, la quale non aveva codesti occhi che per suo marito, e che tutti quegli imbecilli dell’Ardenza e dei Cavalleggieri adoravano da lontano come tanti Don Chisciotti. — Quel cencio stesso di marito glielo aveva lasciato lei, quando non aveva saputo più che farsene; se non si fosse trattato che di lui, ella avrebbe continuato ad essere la migliore amica di Adele, e del resto — a parte il principe, che nell’esistenza di Velleda non aveva giammai contato altro che come principe — l’antico suo amante era davvero divenuto un cencio d’uomo; ma adesso gliene voleva anche perchè quel tal marito cencio no, che ella le aveva regalato, il quale l’avea tanto amata, lei, la bella Manfredini! che anch’ella avea forse amato, forse! si fosse consolato proprio con quella Adele! si fosse consolato talmente da non caderle ai piedi la prima volta che l’avea riveduta da Pancaldi! — lei, la superba beltà che portava una corona da principessa! Se Adele le avesse rubato quella corona, non le avrebbe fatto maggior dispetto. L’indispettiva anche l’indifferenza serena di quella rivale innamorata soltanto del marito — fierezza, noncuranza, civetteria che fossero, irritavano, ferivano, umiliavano il suo orgoglio, la sua vanità, la sua civetteria. Se ci avesse pensato, avrebbe voluto colpire quella rivale nel solo lato che mostrava vulnerabile, in quel tal cencio di marito che ella — la vinta d’oggi! — le aveva buttato fra i piedi corno una limosina.

Del resto cotesto due rivali appartevano alla [p. 256 modifica]medesima società, erano state amiche, sapevano vivere abbastanza per non dar spettacolo dei loro intimi sentimenti ai curiosi, agli invidiosi, alla folla e per stringersi la mano, sin dalla prima volta col più grazioso sorriso. Velleda e Alberto s’incontrarono, si salutarono, si rivolsero la parola al modo istesso, colla medesima disinvoltura. Ella disse che avevano finito come avevano incominciato — e realmente non era malcontenta che avessero finito a quel modo.

Le due amiche e rivali dimoravano nello stesso albergo, al medesimo piano, uscio contro uscio, si vedevano sovente, s’incontravano tutti i giorni alla medesima passeggiata e agli stessi ritrovi. Una sera che da Pancaldi avevano organizzato in parecchi una gran cena, alla quale Adele aveva brillato più del solito, e la principessa era stata più del solito uggita, mentre l’allegra comitiva usciva in massa a fare una passeggiata al chiaro di luna, Velleda senza saper come, s’era trovata l’ultima vicina e ad Alberti; gli rivolse una occhiata singolare, e quindi gli disse mettendoglisi risolutamente al lato:

— Alla fin fine.... davvero.... perchè non mi dareste il braccio?

E avevano incominciato a discorrere di questo e di quello; poi nel separarsi ella gli avea detto con quel medesimo tono:

— Vedete che noi si sta meglio in questo modo.... che in quell’altro.

E da quel giorno s’era messa a far la corte ad Alberto. [p. 257 modifica]

Alberto se n’era avvisto, e ne provava una segreta soddisfazione, un po’ per istinto di vecchio leone che vuol provare ancora le zanne, ma principalmente per uno strano sentimento che riferivasi a sua moglie; era geloso senza osare di confessarlo all’Adele e a sè stesso, e provava una singolare civetteria mascolina a far intravvedere alla moglie, e a provare a se medesimo, ch’egli era sempre preferito a tutti quei ganimedi che gli davano uggia. Non gli dispiaceva anche che sua moglie temesse un pochino per lui, giacchè egli temeva per lei, e voleva metterle ai piedi anche lui qualcosa, una di quelle preferenze che lusingano tanto l’amor proprio di una donna.

L’Adele avea cominciato ad accorgersi anch’essa del tiro che intendeva giocarle la Metelliani; ma rifuggiva dai lamenti, dalle osservazioni, dalle scene, per alterezza naturale, o per timor del carattere di quel marito che le imponeva soggezione, e s’era chiusa nella sua dignità di moglie con tal dispettuccio che sembrava disinvoltura.

Intanto le cose andavano perchè la Metelliani le spingeva, perchè Alberto senza dare positivamente una mano, chiudeva gli occhi e lasciava andare — e lasciava andare anche per un falso timore di sembrare ridicolo se avesse fatto il puritano — e andavano infine perchè Adele non faceva nulla perchè non andassero.


Un giorno Alberti, arrivando un po’ tardi da Pancaldi, incontrò la principessa. [p. 258 modifica]

— Vostra moglie è lì; dissegli con una lieve tinta di motteggio indicando sul mare una barchetta carica di ombrellini, di cappelli di paglia, e di veli svolazzanti.

— Volete che andiamo a raggiungerla?

Il marchese rispose qualche parola insignificante, e le sedette accanto: dopo alcuni discorsi le domandò perchè non fosse andata anche lei.

— Potrei dirvi perchè vi aspettavo, ma non voglio lusingarvi. Ho corso tanto sui piroscafi, che il mare mi fa uggia persin dalla barchetta. Anche voi avete molto viaggiato, so.

E si misero a parlar di viaggi.

— Chi ce l’avrebbe detto che dovevamo correre tanto per riunirci... da Pancaldi! diss’ella ridendo.

Gli avea detto cotesto in un certo modo, e con tale accento da ricordargli perfettamente il punto dal quale erano partiti per correre, e gliel’avea fatto rivedere in cosiffatta maniera, che Alberto avea ammutolito.

— Non promettevate di riescir così buon marito, davvero! — gli disse poco dopo con uno sbalzo capriccioso del pensiero.

Alberto rispose al complimento ironico con un ironico chinar di capo.

— Schiettamente.... senz’ombra di lusinga.... se avessi potuto prevederlo... non mi chiamerei forse Metelliani.

— Vedete che qualche volta torna meglio non prevedere!

— Marchesa Alberti è un bel nome. E poi tutti vi [p. 259 modifica]chiamano il marito modello. Non ve l’abbiate a male; è una bellissima cosa essere innamorato della propria moglie. — È vero che siete innamorato di vostra moglie? — Sapete che avrei quasi il diritto di essere gelosa di vostra moglie? — Sentiamo, marchese, cosa direste se fossi gelosa di vostra moglie?

Alberto si dibatteva ancora contro il fascino di lei.

— Vi direi che avete torto: rispose freddamente e alteramente.

Ella si levò da sedere.

— Francamente, signore, se non fossi Metelliani, vorrei esser marchesa Alberti. M’accompagnate sino alla mia carrozza?


Alberti s’inchinò, le porse il braccio, e s’avviarono. Dopo alcuni passi: — Verrete al ballo di stasera? domandò la principessa.

— Non so.

— Ci sarà anche vostra moglie!

— In tal caso verrò per accompagnarvi mia moglie; rispose egli con calma, e senza mostrare di aver sentito la puntura.

— Andrete pure al concerto delle quattro? vostra moglie non manca mai.

— Mia moglie sa che fuggo i concerti, e me ne dispenserà.

La principessa rizzò il capo, e fissò gli occhi nel vuoto corrugando le ciglia. [p. 260 modifica]

— Sicchè alle quattro sarete libero? domandò dopo un istante con quel medesimo sorriso.

— Liberissimo.

— Ho intenzione di fare una gita sino a Montenero: riprese ella con vivacità, la giornata è freschissima. Volete venire con me alle quattro? andremo a cavallo. — Domandatene il permesso a vostra moglie. — Volete che glielo domandi io?

— Mia moglie sarà lietissima...


Ella si fermò, gli lanciò uno sguardo, scosse i capelli ancora profumati dal bagno con un brusco movimento del capo, e con intonazione singolare:

— Davvero? dunque verrete?

— Ma sì.

— Non avete paura?

— Paura di che?

— E vostra moglie non è gelosa di me? diss’ella senza rispondere, bizzarra nel discorso com’era nell’indole.

— No, ch’io sappia.

— Proprio? Non vi strappa gli occhi? non vi molesta? È singolare!

— Proprio nulla di tutto ciò.

— E se avessi l’intenzione di render gelosa vostra moglie?

— Avete troppo spirito...

— In che senso? — È vero — grazie! — Verrete [p. 261 modifica]dunque ad incontrarmi alle quattro ai Cavalleggeri — Ma se lo fossi io?

— Cosa?

— Gelosa — che fareste?

— Farei di tutto perchè non lo foste...

— Più?

— ... Più.

— Arrivederci!