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Ella soleva andare a Montecatini, a Viareggio, o a Livorno. Quell’anno fu scelto Livorno.

— Vieni anche tu? aveva domandato Alberto a Gemmati.

— Non posso. Ho speso tutto il mio poco avere nei viaggi, e adesso bisogna che metta giudizio. Comincio a farmi una discreta clientela; sai come siamo noi altri medici, specialmente in principio di carriera? non potrei lasciar Firenze per una settimana, senza mandare a monte quel che ho fatto sinora.

Livorno quell’anno era una stazione alla moda; gli alberghi e le ville rigurgitavano di forestieri; giammai l’Ardenza e i Cavalleggieri erano stati più affollati di equipaggi eleganti. Il giorno stesso che la marchesa Alberti prendeva stanza nell’appartamento fissato preventivamente per telegrafo nell’albergo della Gran Bretagna, giungeva da Berna nell’albergo istesso una di quelle coppie di zingari del gran mondo che scorazzano per tutte le stazioni d’Europa segnate dalla moda — il principe e la principessa Metelliani.

La principessa era abituata a giunger dappertutto come una regina, ed a stendere senza contrasto il suo ventaglio come uno scettro. Ella fu dunque ferita nel più vivo dell’amor proprio incontrando a Livorno una rivale preferita, incensata, corteggiata più di lei e che per giunta non sembrava curarsi del suo trionfo, o godevaselo disinvoltamente come cosa dovutale naturalmente — e chi poi? quella medesima donnina che ella aveva sempre eclissato col solo riflesso dei suoi biondi