Emma Walder/Parte prima/II
Questo testo è completo. |
◄ | Parte prima - I | Parte prima - III | ► |
II.
na luce bianca entrava nel carrozzone collocato all’ombra dietro la grande giostra delle barche.
Nel minuscolo salottino, pieno di piccoli mobili eleganti, la signora Marta sedeva alla finestrella, sporgendo la faccia fra due tendine di seta gialla.
La fiera inaugurata da qualche ora, presentava un aspetto animatissimo. Tutti gli organi, tutti gli orchestrions, tutte le trombe e trombette e campane e campanelli, suonavano allegramente in un colossale frastuono.
I ciarlatani, in piedi davanti agli ingressi dei baracconi più misteriosi e attraenti, come quelli della Metempsicosi, del Museo Universale, della Galleria Artistica, della Donna con due teste e di tutta la schiera dei fenomeni, si sbracciavano e sgolavano a invitare il pubblico con gesti eloquenti e parole altisonanti. Presso all’entrata del Teatro delle scimmie la gente si affollava sghignazzando ai lazzi di due scimmiotti in marsina rossa, mentre un uomo dalla faccia non meno scimmiesca, batteva il tamburo, interrompendosi di tratto in tratto per arringare la folla e invitarla ad entrare intanto che i buoni posti erano ancora liberi.
La magnetizzata chiaroveggente, dispensatrice di destini stereotipati; le giostre e i bersagli, facevano già buoni incassi.
Dalla sua finestrella, la signora Marta Von Roth non aveva occhi altro che per la giostra a vapore di cui era proprietaria insieme al marito. Tutto la interessava in quella magnifica giostra; dai complicati ingranaggi della macchina alle barche lucenti come specchi; dai motivi, tutti moderni, dell’orchestrion, ai lavoranti in costume marinaresco; più che mai però la sua attenzione era attratta dalle persone che salivano.
Queste, essa le contava, le divideva in classi, distinguendo a colpo d’occhio i frequentatori abituali dai curiosi che salgono per una volta. Contava i giri che ognuno faceva; s’interessava a certe donnine che strillavano quando la barca pareva sprofondare in un baratro col suo ritmico beccheggio.
Volta per volta, ella notava sopra un libricino i denari incassati; e ciò non tanto per controllare l’onestà dei suoi uomini, tutte persone fidate, ma per vecchia abitudine, e più ancora per un piacere quasi infantile di assistere man mano all’incasso della giornata, un incasso che ella si figurava enorme.
Dalla cucinetta veniva il rumore delle stoviglie risciacquate da una servetta piccina e belloccia.
Dalla parte opposta a quella della cucinetta e anticamera, s’intravedeva la camera da letto con le tendine in trina greggia su trasparente di percallina rosa; un largo specchio ovale sopra un lavabo e due lettini di ottone bianco scintillante come argento brunito. Era proprio bella la casetta nel carrozzone. Peccato che la figura della padrona vi stonasse un poco. La signora Marta poteva avere cinquantanni, sebbene non li mostrasse, ed era alta, diritta, di forme opulenti: doveva essere stata bellissima.
Ora, i suoi magnifici capelli biondi impallidivano e la sua carnagione lattea, trasparente, prendeva invece un tono opaco di vecchio avorio. Tuttavia i lineamenti serbavano la primitiva regolarità e gli occhi una espressione ingenua e gaia di bimba felice. Un sorriso di compiacenza errava sulle sue labbra, ed ogni tanto il bisogno di espandere la sua contentezza la forzava a chiamare Kate la fantesca, per mostrarle la gente che montava nelle barche, così numerosa, così entusiasta.
— Stasera vuol essere un affare serio; dovrà lavorare anche il padrone; anche tu!...
La servetta, con le mani umide, avvoltolate nel grembiale da cucina, ridacchiava come la padrona, mostrando due file di denti, solidi e bianchi.
— Signora, il padrone...
Il signor Von Roth di ritorno dal suo giro per la fiera salì la scaletta della minuscola abitazione.
Traversò la cucina, rimpicciolendosi alquanto, senza curvarsi, per quella sua facoltà che lo faceva rassomigliare a un canocchiale, e fregandosi le mani per la gioia. Nel salottino si levò il berretto dall’ampia visiera, e fermandosi di fronte alla moglie, s’inchinò gentilmente, mormorando nella barba:
— La va proprio d’incanto!
Proprio d’incanto! — ripetè dopo una pausa — Se il tempo non ce ne fa una delle sue, sarà una retata.
Si mise a sedere sul piccolo sofà che tremò tutto.
— Il tempo è stupendo! — tubò Marta ammiccando. — Tutto andrà bene per Ninì. Quest’anno speriamo che potrà andare a Helgoland con tutto il lusso necessario per eclissare le sue amichè e rivali.
Il Von Roth non fece eco a questa esplosione di contentezza, come forse aspettava la sua signora. Egli ebbe invece un sorriso ironico quanto invisibile, e le sue spalle si alzarono in modo poco rispettoso per Helgoland e per la elegante società che ama di bagnarsi su quelle spiaggie.
— Sarà tempo di pensare anche alla nostra vecchiaia — sentenziò dopo alcuni momenti di silenzio.
La signora, che stava appunto notando la somma ben calcolata di una riscossione, s’interruppe e guardò il marito in aria brusca.
— Non basta il capitale impiegato in questa giostra che ci darà un forte interesse, in ogni modo, sempre? Come la intendi? Non vorresti più mandar denari a Ninì? Mancherebbe! Povera figliuola, come dovrebbe fare a vivere?... Oh! Non si possono dire simili cose.
Come sempre quando toccavano quest’argomento, i due coniugi continuarono un pezzo il diverbio.
In fondo erano d’accordo.
Nini, la magnifica bionda, frutto dei loro amori, rappresentava per tutti e due lo scopo supremo della esistenza. Per lei avevano lavorato come negri negli anni belli della giovinezza; per lei messi da parte i soldi e i fiorini. Solo dal momento in cui ella si era maritata, contro la volontà del padre, con un supposto nobile ungherese, supposto addetto all’ambasciata austriaca a Berlino, i due buoni diavoli non si raccapezzavano più. La madre credeva fermamente in quell’ambascieria del famoso conte Geisberg; il padre, poco, quasi nulla.
E poi, essi erano divenuti proprietari di quella giostra mediante una operazione ardita; e il grosso capitale non era finito di pagare, e se le cose andavano storte, potevano anche precipitare.
— Ah! se Ninì avesse sposato uno dei nostri! — scappò a dire Gioachino troncando l’interminabile lite.
Marta lo guardò di traverso.
— Chi, per esempio? Quello delle scimmie laggiù?
— Sicuro. È un bravo giovine, sempre meglio di quel famoso, famosissimo attaché, che ce l’attaccherà bella, vedrai....
— Speriamo di no — , disse la tedesca interrompendolo con pacatezza. — In ogni modo quello ch’è fatto è fatto.
Calmato a sua volta, Gioachino s’accontentò di sospirare.
Sicuro, anche lui era stato troppo condiscendente; le sue recriminazioni venivano troppo tardi. Purchè tutto non andasse alla malora!
E guardava la bella giostra con un senso di angoscia.
Sicuro! Le cose del mondo andavano anzichenò a rotta di collo. Un famoso imbroglio le cose del mondo.... Famoso, fameuse!...
Emma capitò in buon punto per fermare il filosofo sullo sdrucciolo delle considerazioni malinconiche.
— Oh, la nostra Emma!...
«Avanti, carina, avanti.
Tutti e due si alzarono ad incontrarla. La signora Marta l’abbracciò e la baciò con tenerezza di madre.
— Si metta qui accanto a me.
Un po’ rossa per la commozione, Emma sedette presso alla signora Marta, di faccia al Von Roth, i cui piccoli occhi ridevano di contentezza, mentre i pensieri ripigliavano la china malinconica.
— Se fosse lei nostra figlia, signorina Emma, come si sarebbe felici! Lei non ci avrebbe lasciati, lei starebbe qui con noi!...
— La signora Ninì... — balbettò Emma titubante.
— Ha preso marito. Tutte le ragazze prendono marito un giorno o l’altro — sentenziò la tedesca con una leggiera punta di dispetto. — Del resto — riprese dopo una pausa — sta benissimo e noi siamo contenti. Soltanto ci duole di averla lontana. Come si fa! Nessuno può avere tutto. Un giorno si mariterà anche la signorina Emma e andrà lontano, chi sa dove.
— Oh, io non mi mariterò. Sono una trovatella. Nessuno sa precisamente se il nome di Walder sia veramente quello di mio padre.
— C’è qualcuno che lo sa; ed è cosa positiva.
— Davvero?!... Ah! la notizia che mi aveva promessa!...
Parli signor Gioachino, parli; mi dica tutto. Ho il presentimento che mi dirà delle cose da farmi piangere. Ma non importa. Pur di sapere! Sono tanti anni che aspetto. Dieci anni. Ne avevo sette quando mi hanno lasciata qui. E non li ho mai dimenticati, quei poveretti...
— Scusi, signorina, come ha potuto conservare un affetto così vivo per chi l’ha abbandonata?
— Oh, signor Gioachino, non li accusi; erano tanto poveri! Dirò anche questo: la signora Mandelli me ne ha sempre detto tanto male, che io mi sono ostinata a crederli molto migliori di lei; e li ho difesi e li ho amati, come forse non avrei fatto se lei non si fosse così accanita contro di loro. È un mio istinto.
— Povera Emma! La signora Mandelli non ha saputo esser una mamma per te! — disse Marta accarezzandola e dandole improvvisamente del tu.
— Non ha saputo; no. Eppure se ci penso devo scusarla anche lei. Forse l’ho offesa io stessa senza volere, senza sapere. Caratteri troppo diversi. Ma sarei una canaglia se non riconoscessi tutto il bene che mi ha fatto.
— L’organista però è più affettuoso.
— Oh, sì...
S’interruppe e tornò a scongiurare Von Roth, affinchè le dicesse tutto quello che sapeva dei suoi genitori.
L’uomo si rabbuiò: guardò il soffitto così immediato, e sembrò cercare le parole, intanto che Marta, riafferrata dal prepotente interesse per ciò che avveniva sulla giostra, guardava fuori e tornava a prendere qualche appunto nel suo libretto.
— Son tanto cattive queste notizie, che non sa come incominciare?
Egli non rispose. Frugò nella tasca della sua giacchetta e trattone un enorme portafogli, cercò fra diverse carte.
Finalmente ne cavò fuori una che porse alla fanciulla, dicendole:
— Ecco la sua fede di nascita. Ella è veramente Emma Walder, figlia di Arrigo Walder boemo e di Maria Rosa Buttler, oriunda ungherese. Il nome di Emma Walder scritto nel piccolo libro delle orazioni era veramente il suo.
— OH! signor Von Roth, questo è il più bel dono, il più caro, che io potessi ricevere da qualcuno al mondo. Come ha potuto avere lei questa carta?...
— L’ho ritirata io stesso, alla parocchia di Lerchenfeld....
— Lerchenfeld?... Dov’è?...
— A Vienna, bambina! — esclamò la signora Marta con un lampo d’orgoglio. Tu sei viennese, come me. Buon sangue; sangue allegro.
— Era, due anni fa — riprese Gioachino lisciandosi la barba ribelle. — Ninì si era appena fatta sposa. Noi si girava ancora con la vecchia giostra delle sirene volanti, famosa porcheria.... sì, cara Marta, abbi pazienza, famosa porcheria.... che ci ha reso dei buoni denari, oh! questo sì, ne convengo. Il piccolo bersaglio a fantocci rendeva ancora di più. Non importa. Allora eravamo ciarlatani, ora siamo i proprietari della grande giostra a vapore. Andiamo avanti. Eravamo dunque a Vienna, nei pressi della Leopoldstadt, insieme a una truppa di saltatori e cavallerizzi che avevano un discreto circo. Come ho sempre fatto con tutti i saltatori venutimi a taglio, dacchè abbiamo la fortuna di conoscerla, signorina Emma, io avevo già interrogato quella brava gente sul conto del famoso cavallerizzo Walder e della saltatrice Maria Rosa, o meglio Rosina Walder. Ma invano. Al solito, nessuno se ne rammentava. Gente senza memoria, avvezza a vivere giorno per giorno. Soltanto una donna che ballava sul trapezio con qualche abilità, mi disse di avere conosciuto in gioventù una certa Rosina, bellissima e molto festeggiata nei circhi; la qual Rosina essendosi poco dopo innamorata di un cavallerizzo zingaro, fuggì con lui; e nessuno la vide più.
— Povera mamma!...
— Una sera, gran tafferuglio nel quartiere. Un saltatore d’infimo rango, complice in una grassazione, veniva arrestato, e riusciva a fuggire. Guardie e soldati frugavano da per tutto. In mezzo a noi specialmente. Il circo, la nostra giostra, i carrozzoni, tutto messo a soqquadro. Ma la gente accorreva montava sulla giostra, appena scese le guardie, e noi si squattrinava. Non riescendo a trovare quello che cercavano, i poliziotti se ne andarono.
«Erano lontani pochi passi, quando un disgraziato, affannato, in sudore, mi supplicò di salvarlo. Esitai.
Poteva anche essere un travestito, per mettermi alla prova. Lo guardai meglio e mi fece pietà. Aveva una faccia di miseria, una espressione di angoscia tale, che mi rimescolò tutto. Lo nascosi nel carrozzone, che non era questo s’intende, pensando di mandarlo via prima che Marta avesse finito di lavorare al bersaglio. Una volta passato il Danubio, le guardie non sarebbero tornate indietro. A buon conto lo feci cambiar d’abiti, ed io stesso gettai i suoi nel fiume. Egli mi ringraziava in un modo assai commovente. Cambiai opinione. Lo feci rimanere tutta la notte nel carrozzone, con grande spavento di Marta che non potè chiuder occhio. La mattina andai dal padrone del circo a proporgli un lavoratore che sapeva il suo conto e che poteva essergli molto utile. Ouello accettò; e Mario Buttler andò ad accrescere il numero del personale. Si era così ben trasformato che io stesso stentavo a riconoscerlo.
— Mario Buttler?... Un parente della mamma?...
— Mario Buttler era un nome di guerra preso da Arrigo Walder per quella circostanza....
— Mio padre!... Oh!...
Un singhiozzo le troncò la parola.
— Basta, Gioachino — disse Marta tutta commossa. — Basta, tu la fai soffrire, poverina.
E così dicendo si strinse al cuore, come per proteggerla, la testina bruna della giovinetta. Ma questa insistette perchè Gioachino continuasse. Voleva saper tutto.
Il narratore riprese subito:
— Fin dalla prima notte avevo pensato d’interrogarlo come usavo con tutti; ma allorchè egli mi disse spontaneamente il suo vero nome mutai tattica. Fameuse! pensai, ora ti colgo. Un giorno andai a trovarlo mentre si riposava e gli dissi: «Famoso birbante, perchè hai abbandonata la tua bambina in Italia, e non te ne sei più occupato?» Parlando lo guardavo fisso. Egli impallidì, tremò, e si battè la fronte: La mia Emma! — mormorò — la mia Emma! Voi l’avete conosciuta, dite? E io: «Altro che conosciuta! È una bella e brava ragazzina. Le ho promesso di trovare suo padre e di portarle la sua fede di nascita.» E lì a raccontargli tutti i di lei discorsi, signorina, e le assidue visite ai baracconi nella speranza di rivedere i genitori o qualcuno che li avesse conosciuti. Le dico la verità, quell’uomo piangeva come un bambino. Oh, ma non pianga lei ora, non pianga. Si faccia animo; devo dirle dell’altro.
— Parli, parli, ho forza.... mio Dio!...
— Allora Walder mi disse che andassi alla parocchia di Lerchenfeld, che avrei trovata la fede di battesimo col nome di Emma Walder figlia naturale di Arrigo Walder e Maria Rosa Buttler. Precisa, come lei vede.
— E della mia mamma, non disse nulla?
— La sua mamma era morta da un pezzo: caduta da cavallo. E fu da quel momento che lui non ebbe più fortuna; una lunga storia di miseria e di decadenza.
— Ed ora cosa fa lui.... il mio babbo?... Dov’è?... È rimasto con quella gente?... No?... qualche altra cosa.... qualcosa di peggio?
Von Roth e sua moglie si guardavano in silenzio, perplessi e agitati.
— Emma — disse finalmente la signora Marta — un dolore più grande ti aspetta, povera bimba! Coraggio; fatti coraggio!
— O Dio mio! Le guardie lo hanno ritrovato, lo hanno preso.... È in prigione!...
— No, Emma, no.
— Ah!... È dunque fuggito ancora?...
— Ecco, le cose stanno in questo modo.... Non si disperi così. Alcune settimane dopo, quando noi si stava per partire, la polizia, forse avvertita da qualche spione, ritornò a visitare il circo dove Arrigo Walder lavorava sotto il nome di Mario Buttler. Fu riconosciuto e arrestato.... Ma prima di essere condotto via, egli si tirò un colpo al cuore e morì...
— Ah!... Me l’aspettavo.
Non disse altro. Nascose la faccia tra le mani e pianse lungamente.
I due buoni diavoli la lasciarono sfogare.
Quando la videro finalmente un po’ più tranquilla, cercarono di distrarla.
Prima di separarsi da loro Emma li ringraziò promettendo di ritornare.
Il vecchio orso le disse:
— Mi perdoni, signorina Emma, il dolore che le ho cagionato. Non volevo dirle la fine, non volevo.... Ma non sapevo cosa inventare;... e ho pensato che era meglio dirle tutto. Così almeno ella sa che, per quanto povero e sfortunato, suo padre non era un vigliacco.
«Ha saputo morire.