Emma Walder/Parte prima/III
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III.
Era fidanzata.
Il suo Paolo, incatenato da una formale promessa, sedeva accanto a lei, col sorriso sul labbro sfolgorante di orgoglio.
— A settembre le nozze — diceva ella, sorridendo, alle amiche. Vi invito fin d’ora, e che nessuna mi manchi. Preparerò un ricordo per tutte.
Nessuna sarebbe mancata, nessuna! non tanto per avere il ricordo, quanto per il gran bene che le volevano — protestavano le amiche.
Ella era come pazza di contentezza.
Una vecchia diceva sommessamente in un circolo di persone gravi:
— Non va bene quando una ragazza è così contenta, e lo dimostra; non va bene. Sarà un matrimonio disgraziato.
E crollava la vecchia testa, piena di ubbìe.
Le persone gravi, convinte, ripetevano per consenso: Non va bene; disgraziato.
Annetta non sentiva, non vedeva. Ella pensava:
— Quattro mesi di ansiosa ebbrezza, e poi la felicità per tutta la vita!
E la sua fervida fantasia ricamava un interminabile idillio su questo semplice tema.
— Ah! come sono contenta! come sono felice! — esclamava con la sua voce sonora.
— Non lo dire, bimba, non lo dire! — le sussurrò la signora Eulalia Fortini, moglie del farmacista. — Non conviene sfidare la sorte; ci si dà il mal occhio da se.
Annetta rideva sgangheratamente. Ella era contenta e non le pareva vero di dirlo.
Aveva scatti improvvisi, irrefrenabili impeti di gioia; e trasporti di tenerezza che la gettavano palpitante tra le braccia della mamma, di Emma, delle amiche, forse soltanto perchè non osava gettarsi tra la braccia del fidanzato davanti a tanta gente.
— Mi fanno schifo quei baci — diceva una ragazza di ventott’anni, lunga e secca come una pertica, chinandosi verso un giovinotto di quaranta, che non le giungeva alle spalle.
— Perchè?
— Perchè sono tutti dedicati a lui, si capisce.
Il giovanotto rideva:
— Ah! Ah! Ah!
— Il fidanzato è molto meno entusiasta.
Difatti egli era molto meno entusiasta.
Sempre fatuo e supremamente disinvolto, egli considerava con benigno compatimento i trasporti inconsulti della sua fidanzata.
Era una bambina!
Non un impeto in lui, non un tremito di voce o di mano, nulla che rivelasse una forte commozione.
Villa Mandelli, situata a pochi metri dalla strada, in mezzo a un bel giardino che finiva in un piccolo parco, aveva un po’ l’aspetto di uno chalet svizzero, con la bella terrazza a veranda e il tetto sporgente. Il cancello di ferro a lancie dorate si apriva quasi di fronte alla chiesa della Madonna dei Servi; e il piccolo parco si allungava fino alla riva del Lambro.
Là era la casetta del giardiniere, la scuderia e la rimessa. La villa non si poteva dire grande, ma neppure piccola. Aveva due piani sopra il terreno, nel quale erano i locali di cucina, una sala da pranzo e un’altra sala che metteva nel parco, destinata ai ricevimenti estivi.
Le piante arrampicanti, già quasi tutte fiorite, salivano fino al primo piano, dando a tutto l’edificio un aspetto seducentissimo.
Dopo le nozze i due sposi sarebbero rimasti con i genitori, fino a che il Brussieri non fosse traslocato; poichè egli non voleva rinunciare al suo impiego. Era giovine, e poteva fare strada.
Certo che la mancanza di studi classici gli chiudeva molte porte. Tuttavia, anche rimanendo semplice cancelliere, poteva salire a un posto invidiabile, in una città principale.
Egli ci contava.
Intanto però gli sorrideva l’idea di vivere in quella villetta elegante e graziosa, che un giorno o l’altro, sia pure lontano, perchè i genitori erano giovani, sarebbe diventata sua proprietà assoluta.
Doveva essere bello, non pagar pigione e sentirsi padrone in una bella casa, dove lo spazio non è affannosamente misurato; bello, specialmente per lui che si rammentava di aver passata l’infanzia e la prima giovinezza in una di quelle tane del centro di Milano, dove il popolino, i piccoli negozianti e i minuscoli industriali si agglomerano e si riproducono furiosamente. Bello, essere accarezzato e adorato come un idolo da una giovine sposa, non brutta, e da una suocera ancora fresca e veramente vistosa, che egli già si credeva di dominare. Bello, bello, fare il signore, comandare a bacchetta e non incomodarsi mai per nessuno!
Il suo programma era chiaro e preciso: sfruttare gli altri e non lasciarsi sfruttare da nessuno; e, nel caso speciale del matrimonio, stare bene attento che le troppe carezze e le troppe dolcezze non lo serrassero in una di quelle catene di rose, le cui spine troppo spesso pungono e dilacerano le carni agli incauti.
Accolto in quel nido, egli intendeva di sdraiarvi a tutto suo agio, pronto a cacciarne chi gli dava noia, o a spiccare il volo, prima che alcuno s’arrogasse il diritto di mozzargli le ali.
Ecco ciò che egli pensava, mentre la sua futura sposa sognava i gaudi del cielo.
Non tutti, però, si rallegravano intorno a lui: l’idea di essere forse costretto, un giorno, a spiccare il volo da quel nido così morbido, non era del tutto assurda.
Il padrone di casa, il signor Mandelli non pareva molto soddisfatto di quell’alleanza con Paolo Brussieri; e l’aria astratta e indifferente che egli serbava in mezzo all’allegria generale, stonava parecchio.
Emma a sua volta sembrava un po’ estranea alla festa, quantunque si affaticasse a nascondere l’importuna malinconia. Durava in lei ancora il dolore della penosa rivelazione che Gioachino Von Roth le aveva fatta alcune settimane innanzi.
Ella sapeva ora, è vero, chi erano precisamente il suo babbo e la sua mamma; ma sapeva pure che non esistevano più sulla terra. E la terribile sete di conoscerli, di amarli, di farsi amare da loro, di averne, non fosse che per un giorno, i baci e le carezze, non poteva essere estinta mai più. E come erano morti male! E chi sa quanto avevano sofferto!... Eppure, non questo soltanto la rendeva triste quel giorno. Un presentimento — il quale, come la maggior parte dei presentimenti forse altro non era che il frutto di una penetrazione più acuta — le serrava il cuore. Poteva il Brussieri rendere felice l’Annetta? Avrebbe egli corrisposto, con tutta l’anima sua, all’amore cieco ed entusiasta di lei?
Non le riesciva di rispondere come avrebbe voluto a questi importanti quesiti. Paolo non le ispirava alcuna fiducia.
Quando credeva che fosse ancora tempo, ella aveva tentato più di una volta di allontanare la cara compagna della sua giovinezza, da quell’amore pericoloso; di l’aria riflettere almeno prima di gettarsi così alla cieca in braccio a quell’amore. Inutili tentativi: Annetta non accettava consigli.
Nè Emma osava più dargliene adesso.
Ma non temeva soltanto per la compagna; temeva anche per se stessa. Dubitava che la sua propria condizione, precaria e spesso umiliante, dovesse peggiorare per l’entrata di quell’uomo nella famiglia.
Non basta. Un timore più oscuro, più inesprimibile, l’assaliva e un gelo di morte le correva per le vene.
Come dal primo giorno in cui l’aveva raccolta nella propria casa, come sempre, in tutte le circostanze, Leopoldo Mandelli intuiva la malinconia della sua protetta. Fra loro esisteva un vincolo indistruttibile: l’affinità morale. I dubbi che essa celava agli altri, egli pure li sentiva: più forti anzi e più distinti, per la esperienza delle cose e degli uomini, che egli aveva e lei no.
Ma al pari di Emma, Leopoldo conosceva la violenta ostinazione di Annetta. Una volta, da piccina, essa aveva assolutamente voluto mettere una mano nel fuoco. Invano le avevano gridato «Fa male! Brucia! Guardatene bene!» Ohibò! Dura come il bronzo ella aveva sempre risposto «Non è vero!» Finchè era riescita a fare quello che voleva; e sentendo il bruciore era corsa a farsi medicare un ditino piagato, gli occhi pieni di lacrime, ma senza un lamento.
Dopo il pranzo, che il padrone di casa trovò eccessivamente lungo, alcuni dei convitati si riunirono sulla veranda a prendere il caffè; altri scesero in giardino conversando allegramente, divisi in gruppi, secondo le età e le simpatie.
La stagione essendo ancora un po’ fresca, avevano pranzato al primo piano nella sala che guardava a mezzogiorno con le tre portiere della veranda tutte ornate di fiori.
Vedendo che sua moglie e le due ragazze bastavano a fare gli onori di casa, Leopoldo passo in salotto e si mise al piano, come un naufrago che afferra la riva.
Quella gente lo annoiava. I suoi stessi parenti, specialmente due vecchie zitellone sorelle del defunto suo padre, gli erano press’a poco insopportabili. Due soli si salvavano: suo cognato Andrea Fabbi, vedovo di una sua sorella morta giovanissima, e il cugino Andrea Celanzi che veramente era cugino di sua moglie. I due soli amici che egli avesse.
I parenti del suo futuro genero lo esasperavano addirittura. Quel vecchio guantaio, lindo e volgare, con la facezia grossolana sempre pronta sul labbro; quelle due donne, madre e figliuola, tutte a frasi stereotipate e complimenti stantii da spacciare agli avventori insieme alla merce avariata; quella falsa civiltà, quella pretesa eleganza, ah! Dio di Dio! fortuna che non sarebbero venuti spesso a trovare il figliuolo, ingolfati come sembravano nei loro interessi!
Ma appena sentirono i primi accordi, tratti da un un eccellente Pleyel, le due guantaie milanesi si estasiarono per l’ingegno del signor Mandelli: un uomo straordinario, una gloria, degno di brillare in una capitale come Milano.
— È una increanza restare qui — disse la signorina Paimira alla madre. — Giacchè il signor Mandelli è tanto gentile da farci sentire qualche cosa, sarà meglio entrare in salotto.
— Oh, anzi, subito — fece la madre: una lunga, secca, con i capelli grigi incollati sulle tempie. — Andiamo pure.
Per fortuna la signora Cleofe, che sapeva benissimo quanto suo marito si sarebbe annoiato di quella ammirazione, fu pronta a trattenerle.
— Fa troppo buio in salotto, signora Brussieri; è meglio star qui. Qui abbiamo il sole e si sente lo stesso....
— Oh, per questo.... è vero, si sente. L’istrumento ha una voce così sonora!...
— D’altra parte, sa, mio marito è timido. Se andiamo di là è capace di smettere.
— Oh, capacissimo — affermarono le due zie.
— Sarebbe un vero peccato! — esclamò la guantaia, intendendo bene che quelle parole avevano un doppio senso, non troppo difficile a indovinare.
Come soleva fare in simili casi per allontanare gli importuni, Leopoldo cominciò un pezzo classico difficilissimo, tutto accordi, intrecci di note e dissonanze sapienti.
La guantaia, abile e inveterata adulatrice, restò un momento in ascolto, socchiudendo gli occhi e aprendo la bocca, come se fosse in estasi; mentre la sua Palmira, che s’aspettava qualchecosa di più allegro, non riesciva a nascondere il proprio disappunto.
Senonchè, vedendo che quelli della famiglia non badavano alla loro mimica ammirativa e parlavano ad alta voce, esse ripresero tosto le conversazioni interrotte da quell’incidente.
Palmira discorreva col Fortini farmacista, figlio della signora Eulalia, lontana parente dei Mandelli; e appariva molto arzilla. Le galanterie della siesta che il giovanottone le spifferava, erano giusto alla sua portata. La guantaia madre invece si era impegnata in una conversazione assai interessante con la padrona di casa. Gli aneddoti di bottega, le ansie del commercio, le perfide concorrenze dei grandi magazzini che vendono di tutto a prezzi ribassati, fornivano altrettanti soggetti sui quali essa poteva discorrere delle ore senza mai stancarsi.
La signora Cleofe, l’ascoltava deferente e curiosa con una piccola invidia che non si curava di nascondere.
— Dev’essere una bella vita — esclamava la ricca signora noiata della campagna — una gran bella vita, stare tutto il giorno in un elegante negozio, nel centro di Milano, in mezzo ai profumi, maneggiando continuamente cose fini e eleganti, e avendo sempre a fare con persone distinte, quali devono essere senza dubbio le persone che compongono la sua clientela.
— Oh, per questo poi — entrava a dire il vecchio Brussieri che per lunghi anni era stato il fornitore dei guanti più a buon mercato per la gente meno avvezza a portarne — per questo poi, non faccio per vantarmi, ma è proprio difficile trovare una clientela più distinta della nostra. — E rosso come un peperone per l’eccellente vino bevuto, strizzava gli occhietti furbi in faccia alla signora. Poi ripigliava: — Siamo vecchi negozianti, capisce bene, persone conosciute, incapaci di vendere roba di scarto a un cliente come si deve. Vero, Paimira?... Vi sono delle contesse, come la Calcaroccia, la Saladini, che hanno cominciato a servirsi da noi da che abbiamo la fabbrica, e non mi farebbero un torto, Dio ci guardi. E poi delle altre, come la signora De Marchi e le signore Binati, e le Caimi, e le Cavalli e tanti e tante che venivano da me anni fa, quando avevo quel piccolo botteghino largo così, laggiù in piazza del Carmine, e non mi hanno lasciato mai.
— Bravo signor Brussieri, bravo! — ripeteva la Cleofe con la sua voce dolce — Sono proprio felice d’imparentarmi con una famiglia così attiva e stimata. Il lavoro! l’ho sempre pensato, non c’è che il lavoro! Poter dire: questo po’ di bene che godo lo devo a me stesso! gran bella cosa! Io invece....
— Ma lei è una vera signora! Dio guardi se lei avesse dovuto lavorare, con quelle manine.... ma che!
— Ella vuol dire che non sarei stata buona....
— Altro che buona...! ma le signore ci devono essere, perbacco! Altrimenti cosa si farebbe noialtri?
Cleofe fece una risatina.
— Anche senza lavorare materialmente si può spiegare dell’attività, essere utili.... io invece sono stata sempre qui.... in questa noia.... Non si vive di solo pane, caro signor Giacomino. La soddisfazione morale, come la sua e di sua moglie, vale un milione.
I due guantai, tutti gongolanti per questi bei discorsi, non sapevano come manifestare la loro riconoscenza. La femmina sempre un po’ freddina e arida come il suo corpo, non usciva dai sorrisi insinuanti, dai complimenti mille volte ripetuti, dalle frasuccie imparate a memoria; ma il maschio, vecchio mandrillo, allungava le mani callose e, nella foga della gratitudine, cercava di stringere una mano, un braccio, un lembo d’abito a quella signora così gentile, e lresca e polposa, come un buon frutto in piena maturanza.
— Oh! che signora! che buona signora! — andava esclamando gonfiandosi tutto.
Le due vecchie zie Mandelli trovavano Cleofe troppo infatuata di quei borghesucci, e si guardavano di sottecchi, aspettando di andare a casa per vuotare il sacco delle critiche.
All’altra estremità della veranda si era formato un gruppo più colorito.
Annetta e Palmira, due varietà del medesimo tipo di bellezza comune e di giovanile baldanza, si tenevano per la vita, appoggiandosi col dorso al parapetto della terrazza. Una, bionda; l’altra, di un bruno chiaro; irregolari nei lineamenti, ma fresche ed animate, con grandi occhi italiani, seni esuberanti e vitine sottili, erano fatte per intendersi nel mutuo apprezzamento delle proprie qualità. Con Paolo Brussieri da una parte e il gaio Fortini dall’altra, esse discorrevano allegramente, ridendo per un nulla, baciucchiandosi di tratto in tratto, parlandosi all’orecchio. Tenerezze, codeste, che provocavano gli scherzi un tantino sbrigliati dei giovani.
— Niente di male, si fa per chiasso — rispondeva il farmacista se qualcuno gli dava sulla voce.
Altri uomini e signore del vicinato facevano corona, e la notizia che la Palmira e il farmacista si fossero intesi così di primo acchito, circolava sommessamente suscitando ogni sorta di commenti.
— Due matrimoni in un colpo; due paia di piccioni a una fava — bisbigliavano i soliti spiritosi.
E le ragazze più mature, che non potevano a meno di commoversi alla magica parola «matrimonio» ridevano di un riso stentato.
Fra i due gruppi stavano Marco Fabbi e Andrea Celanzi, sempre attento ai cenni della cugina.
— Andrea, ti prego; fammi portare un bicchier d’acqua....
E Andrea andava a prenderla lui, l’acqua, freschissima e limpida.
— Andrea, non ti pare che quella pianta di vaniglia abbia troppo sole?
E Andrea accorreva a mettere la pianta all’ombra.
Poi la conversazione ripigliava; i guantai intavolavano una discussione sulla fabbrica dei guanti, sulle operaie che la signora accusava d’immoralità e di svogliatezza, sottolineando con un sorriso sarcastico le colpevoli indulgenze del marito.
— Oh, gli uomini!
Finalmente le due signore scendevano nel giardino piantando solo il guantaio che andava a riscalducciarsi presso alle ragazze.
Una volta sole le due mogli parlarono naturalmente degli uomini, dei mariti, di questi padroni bislacchi, viziosi, che le povere donne devono sopportare, accarezzare, trattare con rispetto, per amore della pace e della famiglia. Quanti sacrifizi, quante lagrime!
La signora Maddalena Brussieri aveva un sacco da vuotare su questo proposito. Quante gliene aveva fatte passare quel benedetto uomo! E ancora adesso, vecchio oramai, non voleva smettere di correre la cavallina. Ma che poteva ella farci?... Bisognava mantenere il buon accordo, soprattutto per amore della Palmira, che si doveva collocare onestamente. E la povera donna non finiva più di lamentarsi, in modo speciale, per alcune operaie, petulanti sfacciate, che la guardavano — diceva lei — con un fare canzonatorio, perchè il padrone faceva lo scimunito presso di loro. Vi era poi una certa bionda.... un vero diavolo!....
La signora Cleofe, che aveva fatto tutta la vita il comodo suo, e si sentiva sempre giovine e in vena, considerava la faccia scura ed ossuta, il corpo disfatto della sua nuova amica, e comprendeva perfettamente tutto lo stato dalla famiglia. Ma era troppo avveduta per lasciarsi scorgere. Sapeva prima di tutto che le donne offese, avvilite nella loro femminilità, non perdonano alle trionfatrici. Epperò, con sospiretti e mezze parole, ella si studiò di lasciare intendere che per lei pure il matrimonio era stato la solita croce. Non solo le era toccato rimanere sempre lì in quell’eremo, condannata ad una inoperosità snervante per il suo temperamento in mezzo a mille fastidi; pazienza! se almeno suo marito non l’avesse trascurata, e non fosse sempre stato quell’originale scontroso che, del resto, tutti conoscevano. La signora Maddalena stessa poteva farsene un’idea avendo visto come si era contenuto in un giorno simile, in una solennità famigliare di quella importanza.
La signora Maddalena avrebbe voluto attenuare il fatto, ma non poteva.
— Tutto questo sarebbe niente — ripigliava Cleofe tenendo gli occhi bassi, cercando le parole. — Ella mi capisce, senza che mi spieghi meglio di così....
— Quella ragazza?... Emma?
— Sì, Emma! Non è mia figlia....
— Sì.... lo so. Me l’ha detto Paolo.... Non era una cosa che lei volesse nascondere?
— Tutt’altro. Si figuri!
— Ma chi è veramente?.... Sarebbe mai....?
— Mah!. Io l’ho sempre sospettato. Saranno dieci anni, una mattina, dopo Pasqua, il giorno in cui i baracconi della fiera del Perdono levano le tende, cara lei, me lo vedo capitare in casa con questa figliuola, piccina così, nera, lacera, sporca da far paura, che piangeva e si divincolava come una indemoniata. Cos’è questa roba?... gli gridai — È una povera bambina — fece lui — una povera creaturina abbandonata. L’ho raccolta e l’ho portata qui.... fino a che qualcuno verrà a cercarla...
— E non venne mai nessuno?
— Mai! Io al primo momento non pensavo male, dico la verità. Era così spaurita quella piccina, così nera e cenciosa, che in verità, non mi pareva potesse essere altro che figliuola di zingari. Più tardi, quando mi accorsi che, infine, io avevo una seconda figliuola, che non era delle mie viscere; e che mio marito l’amava come non aveva mai amato la mia Annetta, oh, allora, sora Maddalena, tutti i pensieri cattivi sono stati i miei.
— E perchè non l’ha mandata fuori di casa?
— Sicuro, ha ragione; perchè? Me lo son chiesto anch’io tante volte. Che so! Mi è mancato il coraggio. Mi sono affezionata a poco a poco anch’io. Noi donne abbiamo troppo cuore. E così fu. Ora la ragazza, che si è sempre fatta chiamare Emma Walder, perchè questo nome era scritto in un suo libretto di preghiere, pretende di avere avuta la sua fede di nascita e saputo le notizie dei suoi genitori. Uno di questi ciarlatani gliele avrebbe portate. Sarà forse vero. Io non so. E non voglio cercare. Ho sofferto abbastanza. Adesso prendo le cose come vengono. Oramai, speriamo che troverà marito e che se ne andrà con Dio...
— Sarà bene, anche per la felicità dei nostri due figliuoli. Una ragazza così, in mezzo a due sposi, non sta bene...
— Sicuro che no...
Un venticello fresco, levatosi verso il tramonto, portava fin nel boschetto, alle orecchie delle due donne, la severa melodia della meravigliosa Sonata in do maggiore.
La guantaia ascoltava. Vivendo a Milano, aveva sentito qualche volta della buona musica e non mancava di un certo gusto, che esagerava sapendo quanto la musica di concerto fosse in voga tra le signore.
— È un gran bravo pianista, però — disse dopo di avere ascoltato.
— Per questo, io non gli nego il suo merito — sentenziò Cleofe con una singolare espressione. — È un maestro. Ma questo non è un gran vantaggio per una moglie.
Parlarono d’altro.
Dall’alto della terrazza dove l’allegria dei giovani si faceva rumorosa, Andrea Celanzi seguiva con occhio attento quelle due donne che discorrevano passeggiando in su e in giù, e ad ogni poco sparivano tra il folto degli alberi, donde poi riapparivano improvvisamente.
Cleofe vestiva un abito di mussolina di lana dai toni vaghi, che disegnava con molto garbo le sue forme perfette. Vicino a lei, la guantaia, che pure era vestita signorilmente di una stoffa di seta amaranto, pareva una colossale bambola di legno, rigida e angolosa. Forse non correvano più di cinque anni fra quelle due donne; ma Cleofe pareva nel fiore della vita; la Brussieri invece recava nel corpo insecchito, nel viso angoloso, nei lineamenti stirati, nei capelli precocemente grigi, le stimmate del disagio e delle continue preoccupazioni: la desolata, irreparabile vecchiaia della donna brutta.
Andrea faceva sorridendo queste osservazioni; e contava mentalmente gli anni della cugina. Dovevano essere circa trent’otto, poichè egli ne aveva già ventisei. Partito dal paese sul principio dell’adolescenza, egli non vi era più ritornato che di scappata un paio di volte. Era stato in Francia, in America, a studiare il commercio e il movimento industriale. Mortogli il padre, aveva dovuto ritornare per amministrare i beni della famiglia, tra i quali un cotonificio. Il tutto un po’ male andato. La sua famiglia era ridotta alla madre e a due sorelle, pinzocchere della più bell’acqua. Viveva con esse da pochi mesi, ma già convinto che il gelo della lunga separazione non si sarebbe rotto mai più tra lui e quelle donne.
Fin da bambino sua madre lo aveva trattato così. Egli si rammentava di avere sempre cercato un rifugio dalle persecuzioni materne, in casa degli zii e specialmente nella camera di sua cugina, quella bella giovinetta che lo chiamava il suo piccolo sposo. Oh! come egli aveva pianto il giorno delle nozze di lei col Mandelii!
— Cattiva! — gridava in mezzo ai singhiozzi — Cattivai Mi chiamavi «il tuo piccolo sposo» e poi, hai preso un’altro! Perchè non hai aspettato me?. Avevi paura che non ti sposassi?
Ella se l’era preso tra le braccia, e chiamandolo il suo angelo, il suo bell’amore, aveva pianto con lui.
Ora sorrideva ripensando a quelle commozioni infantili, ma pure si ricordava di avere sofferto e amato, come i bimbi amano e soffrono raramente, con una intensità quasi patologica.
Rivedendola così bella, dopo tanti anni, egli aveva subito rievocato quelle vecchie storie, dicendole con un mezzo sorriso:
— Vedi?... Se tu mi avessi aspettato, si potrebbe essere sposi già da sei anni, e guarda che bella coppia si farebbe adesso!
Ma Cleofe aveva un rammarico assai più naturale.
— Se tu fossi ritornato prima, la sposa era bell’e pronta, e io sarei stata felice di vederla al tuo fianco...
— Neppure lei mi ha aspettato! — esclamò il giovine con un po’ di sarcasmo. — Non importa. Le sue nozze non mi faranno piangere come mi hanno fatto piangere le tue. E poi, non hai un’altra figlia, o quasi figlia?...
Cleofe era impallidita e aveva cambiato discorso.
La sola idea di dare alla figliuola degli zingari, come la chiamava nel suo segreto, lo sposo vagheggiato per la propria figlia, le faceva provare una specie di gelosia. Ma essa era innanzi tutto una donna dallo spirito positivo, niente nevrotica, ragionevolissima anche nei capricci e assolutamente incapace di persistere in una puerile gelosia, se l’utile suo o di sua figlia — specialmente di sua figlia — richiedeva il contrario.
Dacchè la Brussieri le aveva detto che per la felicità di Annetta era bene che Emma uscisse di casa, l’avrebbe fatta sposare a un facchino o ad un principe, con la medesima indifferenza. Fosse pure Celanzi, purchè la conducesse via!
Ella si diceva:
— Se Maddalena è giunta al punto di dirmi quello che ha detto, posso star sicura che il pericolo esiste, che Paolo è molto debole per le belle ragazze, e che la felicità della mia povera figlia è minacciata dalla presenza di Emma. Maledetto chi me l’ha portata in casa!
Questa imprecazione le sfuggì dal fondo del cuore, tanto più che Emma non era facile a maritare, e che aveva già rifiutato un eccellente partito.
Quanto a Celanzi, osservandolo meglio, doveva convincersi che egli non aveva alcuna inclinazione per la Walder. Non la guardava mai, non le usava alcuna di quelle gentilezze che i giovani prodigano alla fanciulla preferita.
Niente.
Sembrava non avere occhi per nessuna fuori di lei stessa, Cleofe.
Il dubbio già concepito e discacciato, le si appalesava fondatissimo. Egli non pensava che a lei. Era evidente. La guardava sempre.
Fece diverse esperienze. Girando da un gruppo all’altro, dopo di essersi staccata dalla signora Maddalena, osservò come Andrea si conteneva.
Non vi era dubbio! si occupava di lei sola. Questa certezza la fece fremere. Il suo cuore cessò quasi di battere, poi cominciò a palpitare violentemente.
La comitiva si disperdeva nel bosco, vicino al fiume. Per un istante ella si trovò sola nel fitto degli alberi. Sentì un passo affrettato; si voltò.
— Andrea!
E si arrestò tutta tremante, in preda a una vertigine che le impediva di camminare.
Egli le afferrò una mano e la coprì di baci, senza profferir parola.
— Mamma, mamma! — chiamava Annetta — dove sei?
S’avvicinava l’ora della partenza: i Brussieri non potevano fermarsi la notte fuori di casa. — Le due zie Mandelli si ritiravano.
— È l’ora del rosario — sussurrava l’Annetta ridendo nel suo crocchio di fanciulle e di giovanotti.
— Un organetto! un organetto! — gridava il farmacista allegramente. — Passa un organetto. Facciamolo entrare!
Detto e fatto.
Un ballonzolo s’improvvisava nella sala a terreno.
Le ragazze trovavano quella musica molto più divertente del Pleyel così ben suonato dal signor Leopoldo.
Almeno si poteva ballare! Andrea sedeva accanto a sua cugina. Non aveva nessuna volontà di ballare, lui. Cose da ragazzi!
Emma era salita al primo piano. Neppure lei sentiva alcun desiderio di ballare; le pareva che non avrebbe ballato mai più; che ogni spensieratezza giovanile fosse passata per lei.
— Babbo — disse entrando francamente nel salotto e accostandosi al pianoforte — babbo, non scenderai un momento a salutarli prima che partano?
Egli la guardò con indicibile affetto. Affrettò con alcuni accordi la fine di una fantasia che andava improvvisando, e si alzò.
— Hai ragione; ma non sono che le sette e mezzo, e il tram parte alle otto e ventotto. Un’ora è ben lunga!
E sorrise bonariamente. Anche Emma sorrideva.
— Via, babbo, sii buono, fa questo sacrifizio. Le due zie se ne sono già andate incaricandomi di salutarti per loro...
— Benissimo!... Hanno avuto giudizio.
— Già... Io le ho lasciate fare. Ma coi Brussieri è tutt’altra cosa.
— Li detesto.
— Capisco. Però, la guantaia è una buona donna.
— Sarà. Ma io li detesto tutti. Ci voleva quella stupida di mia figlia... quella pazza di sua madre...
— Mamma non c’entra, credi. Sarebbe stata felice di mettere Celanzi al posto del Brussieri. Ma l’Annetta... sai bene!
— So, so. Un capriccio da isterica.
— Amore, babbo...
— Sì, amore...
— Dunque tu vieni, eh?.... Chiudi il pianoforte; io ti precedo... Vieni proprio, eh?
— Subito.
Emma scese di corsa per la scala interna.
Era quasi buio.
Aveva fatto appena metà della scala, allorchè si sentì afferrare alle spalle e abbracciare strettamente. Mandò un urlo.
— Ehi signorina! Come grida! Di che ha paura?... Sono io, Paolo, il suo futuro fratello — s’affrettò a dire Paolo con voce soffocata e molto confuso.
— Mi meraviglio, signore...
— Come? Non si può abbracciarsi tra fratelli? Che male c’è?
Tentò di afferrarla ancora una volta, facendosi più ardito per Io sgomento di lei.
— Cara! Bella!... Amore!...
Ella si divincolò furiosamente e lo mandò ruzzoloni.
Esasperata e oppressa da un inesprimibile terrore ella salì di corsa fino al secondo piano, entrò nella sua cameretta e si chiuse dentro.
Che orrore! che orrore! Oh! il suo terribile presentimento! Era dunque vero!
Si buttò attraverso il letto e pianse lungamente, amarissimamente.
Intanto l’organetto continuava a suonare nella sala a terreno, e il rumore della danza e i gioiosi clamori salivano fino a lei.