Due miracoli
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DUE MIRACOLI
Col rosario di madreperla in mano zia Batòra1 saliva lentamente per il sentiero dirupato che mena dal villaggio di Bitti alla sovrastante chiesa del Miracolo, cioè di Nostra Signora del Miracolo. Una chiesa famosa in tutta l’isola di Sardegna. Si narrano grandi miracoli, — creati ed accresciuti dalla fantasia del popolo, — accaduti in quella piccola chiesa, ai piedi dell’umile altare, e migliaia e migliaia di persone bisognose di miracoli spirituali o materiali, corrono ancora a Bitti, agli ultimi di settembre, per la festa annuale e rituale di Nostra Signora. Diciamo ancora perchè ormai questa festa, — come tutte le usanze antiche, spazzate via dal soffio dei nuovi tempi, — ha perduto il suo splendore e la sua magnificenza. Tuttavia la folla, venuta da villaggi lontani, traverso montagne e vallate, si accalca ancora sotto la nicchia della piccola Madonna miracolosa, che sorride misticamente, misteriosamente, — e d’anno in anno si sparge per le turbe commosse la voce di un nuovo miracolo.
Zia Batòra era molto divota a Nostra Signora del Miracolo. Ogni primo lunedì del mese saliva lassù recitando il rosario, — dava messe, processioni e novene, e durante i tre giorni della festa pregava continuamente, recandosi mattina e sera alla chiesa. Ella chiedeva un grande miracolo a Nostra Signora; le chiedeva un po’ di pace, un po’ di conforto per la travagliata anima sua, ma sempre invano. I giorni e i mesi scorrevano, si seguivano le messe, le processioni e le novene, ma la desolazione, l’amarezza e lo sconforto stagnavano sempre nello spirito di zia Batòra. Essa non poteva dimenticare, il suo cuore restava spezzato, sanguinante, e, nonostante, le sue ricchezze, nonostante le sue tancos, il suo bestiame e il suo denaro, ella era povera più del più misero mendicante, e vedeva il resto dei suoi giorni perdersi in un orizzonte nebbioso e desolato, come i paesaggi degli altipiani bittesi. Anche la casa di zia Batòra, la bella casa dai poggiuoli di legno, donde si vedeva l’altura e la chiesa del Miracolo che nei tramonti rosei di settembre parevano, così delineati nel nitido orizzonte, uno di quei paesaggi dipinti nello sfondo di qualche quadro sacro del Risorgimento, la bella casa, dunque, era spiritualmente vuota e triste, benchè ripiena di ogni grazia di Dio, vuota come l’anima della persona che l’abitava. Voi, o invisibile signora, a cui narro questa piccola storia, non potete sapere, non potete immaginare certe disgrazie tremende, certe desolazioni immense che non avete mai provato.
Sadurra2, la bella ed unica figlia di zia Batòra, s’era innamorata di un giovane povero, e di cattiva stirpe. Tutto l’essere altero di zia Batòra, che, oltre l’esser ricca apparteneva a quella classe aristocratica del popolo sardo, chiamata dei principali — gente potente e strapotente, che conserva qualcosa della boria spagnuola, talvolta più ricca e più nobile degli stessi cavalieri sardi, — s’era rivoltato contro quest’amore, che a lei sembrava quasi fuor di natura.
E Sadurra, compiuti i ventun’anni, era scappata dalla casa paterna per unirsi all’uomo del suo cuore. Fu un grande scandalo, un avvenimento che fece eco persino nei villaggi vicini e nella città di Nuoro.
Zia Batòra ne restò annichilita, distrutta, moralmente uccisa. Mai madre aveva amato la figlia come zia Batòra aveva amato la sua. Per venti anni, dopo che le avevano ucciso il marito, essa aveva concentrato ogni suo affetto e ogni sua speranza in Sadurra, sognando per lei un avvenire luminoso, che, naturalmente, si compendiava in un marito ricco, forte, di casa principale. Forse magari un signore, — forse un vendicatore del padre di Sadurra. — Ed ogni sogno, ogni speranza, ogni affetto era svanito. Zia Batòra aveva maledetto sua figlia; — inginocchiata sulla cenere, coi capelli sparsi e il seno ignudo aveva maledetto il latte con cui l’aveva nutrita, e giurato sul pane e sulla croce d’oro del suo rosario di non riconoscerla più per figlia, ma per mortale nemica. Così era rimasta sola, nella sua casa spopolata per sempre di sogni e di speranze. Essa si vedeva disonorata, e il trionfo che menavano i suoi nemici — cioè la parte avversa al suo partito3, di cui essa, nella sua qualità di donna energica, ricca e potente, formava una delle colonne principali, — acuminava la sua disperata angoscia.
Sul suo viso bianco e stirato, nei suoi occhi violacei, profondamente incassati, di una severità spaventosa, sulle sue labbra sottili e pallide non appariva mai una increspatura di dolore, e neppure di amarezza, per cui si diceva:
— Zia Batòra è una donna forte, e le disgrazie non l’atterrano.
Ma il suo cuore era tutto rosicchiato, tutto a brandelli, e i suoi occhi non avevano più lacrime. Viveva di rancore, di odio e di preghiera. Più di una volta, allorchè le giungevano, acute come stoccate, le voci irrisorie dei nemici e degli amici, era stata tentata di mandar due uomini o uno solo, per dare una fucilata a Peppe Nieglia, il marito di Sadurra, — ma la sua profonda fede religiosa l’aveva sempre salvata dal commettere un delitto.
Aveva già fatto testamento, in favore della Chiesa del Miracolo, e pregava dì e notte la dolce Madonna perchè le donasse un po’ di pace, un po’ di riposo; ma, ripetiamo, sempre invano.
Dopo sedici mesi dal terribile avvenimento, essa spasimava ancora, nè l’idea che Sadurra conduceva una vita stentatissima, nè la soddisfazione di aver brutalmente, più volte respinto le sue proposte, di pace e di perdono, la consolavano.
⁂
Saliva dunque lentamente per il sentiero che conduce alla chiesa, col rosario di madreperla in mano. Benchè a Bitti le vedove, dopo un certo tempo, indossino vesti di colore, — contrariamente a quasi tutto il resto dei villaggi sardi, — zia Batòra era vestita di nero, sempre. Persino la sua lunga cuffia, celata dalla benda, era di stoffa nera, con una croce di trina d’argento sulla sommità, — forse un segno misterioso di cui solo zia Batòra sapeva il simbolo. Il corsetto, aperto davanti, lasciava scorgere la camicia ricamata, — la sola cosa elegante che abbia il costume di Bitti, — e al disotto delle gonnelle d’orbace, corte, scendeva il volante della sottana bianca. Zia Batòra pregava, e ogni tanto fermavasi per dar l’elemosina ai mendicanti che, fermi sugli angoli del sentiero chiedevano pietà a voce alta e cadenzata, con lunga cantilena e con la mano tesa.
La folla variopinta si accalcava per la strana via e sulla spianata ampia della chiesa. Giù Bitti col selvaggio borgo di Gorcai a fianco, esultava, con le strade piene di gente, nel sole di settembre, tutto circondato dalla vallata verde, fresca, scintillante.
Zia Batòra continuava la sua ascesa senza por mente alla gente, ma giunta alla spianata si fermò facendosi il segno della croce.
Usciva una processione. E diciamo una perchè le processioni del Miracolo sono innumerevoli.
Qualunque persona devota può entrare in sagrestia e dire:
— Fate una processione secondo la mia intenzione. — Offre una piccola elemosina, qualcosa tra il mezzo scudo, o tre e cinquanta, — e la processione esce subito. Dietro i sacerdoti vengono gruppi di uomini di villaggi diversi, ciascuno col proprio stendardo, — che hanno portato con loro dai lontani paesi, — e si fa il semplice giro della chiesa, poi si rientra o si prosegue per conto di altra persona. In una mattinata si possono eseguire, — e si eseguiscono, molte dozzine di queste processioni, che sono il punto più caratteristico della festa del Miracolo, — mentre al lato opposto della spianata la gente allegra, venuta per divertirsi, balla il duru— duru, il famoso ballo tondo, tra la polvere, il sole e i merciai ambulanti.
Rientrata in chiesa la processione, zia Batòra si mosse ed entrò essa pure. La chiesa era già affollata di donne diverse di volto, di costumi e di lingua, — donne di tanti villaggi, molte delle quali erano venute a piedi nudi e coi capelli sciolti.
Un gran chiasso s’innalzava da tutta questa folla multicolore, — passava una specie di fremito, e tutte le donne parlavano tra loro, anche senza essersi mai vedute. Zia Batòra giunse a stento, pestando piedi e gonnelle e destando esclamazioni energiche per questo suo procedere, in fondo alla chiesa, posto dove usava sempre inginocchiarsi. Laggiù c’erano molte donne di Bitti, che aspettavano la messa.
— Cosa c’è? — chiese zia Batòra a una sua conoscente.
— C’è una ragazza indemoniata, — rispose l’interpellata, con voce bassa e commossa. — Dopo la messa la scongiureranno. Chissà, chissà che Nostra Signora faccia il miracolo...
E narrò misteriosamente una storia spaventosa, — la stessa che serpeggiava per la folla, destando fremiti e sussurri. Era l’anima dannata di un prete che aveva in corpo, la ragazza.
— Di dov’è?
— Di Alà. Sentite, comare mia...
Scomunicato da un altro prete, lo spirito dannato non era stato accolto nè in cielo nè in purgatorio, e neppure nell’inferno. Prima di entrare in quest’alloggio, lo spirito doveva vagare per un tempo indefinito sulla terra, incarnandosi sul corpo di ragazze innocenti, di sette od otto anni. Ora l’aveva quella povera ragazza di Alà. Si dicevano cose terribili. La povera piccina non aveva pace, e faceva proprio azioni da indemoniata. La sua voce era quella dello spirito dannato Guai a mostrarle cose di Chiesa! Le sputava, imprecando, bestemmiando, frantumandole, — mettendo un’azione di forza impossibile per la sua età e per la sua personcina.
Zia Batòra, con gli occhi intenti, fremeva guardando se poteva scorgere la spaventosa creatura.
— Non è in chiesa, — disse l’altra, — la entreranno legata, dopo la messa.
— Ma se Nostra Signora fa il miracolo, e lo spirito esce di corpo a questa ragazza, non entrerà in quello di un’altra, poichè è tale il suo destino?...
— Non lo so, — rispose la donna imbarazzata, — Nostra Signora farà il miracolo completo, e lo spirito andrà all’inferno, se pure Nostra Signora non gli usa misericordia, mandandolo in purgatorio...
Cominciò la messa. In un attimo la chiesa fu piena zeppa di gente, stipata, accalcata, fremente.
Stavano tutti in piedi, sofferenti per il caldo e per l’attesa della ragazza indemoniata. Solo zia Batòra non pensava più ad essa. Il suo volto era più bianco del solito e i suoi occhi fissavano febbrilmente l’altare, ma in realtà vedevano nitidamente qualche altra cosa, la vedevano nitidamente, senza guardarla.
Vicino a Batòra c’era una panca, e tre donne stavano ritte sopra, dominando così la folla.
Una di queste donne teneva in braccio un bambino di sei o sette mesi, un bellissimo bimbo biondo e grasso, tutto color di rosa, che formava l’ammirazione delle donne vicine, benchè pur esse commosse dall’attesa generale della ragazza con lo spirito.
La giovine che lo teneva sulle braccia era invece bruna, magra, pallida. Tuttavia il suo volto conservava il ricordo di una grande bellezza.
Era Sadurra, malata, vestita quasi poveramente. Anch’essa vedeva sua madre, — la vedeva fredda, bianca, indifferente e superba, e faceva sforzi supremi per non rompere in pianto. Perchè, perchè almeno non dava uno sguardo, al bambino, che aveva il nome del nonno ucciso, che era bello come una dipintura4?
Ah, senza dubbio, zia Batòra invece fremeva di ira e malediceva la bionda testolina dell’innocente...
A questa tetra idea Sadurra lacrimava in cuor suo e veniva tentata di andarsene dalla chiesa.
Zia Batòra non malediceva il bambino, anzi la sua vista temprava l’ira apportatale dalla presenza di Sadurra. Non lo aveva ancora veduto quel bambino, quel suo nipote, e, non vedendolo, non aveva mai fatto un gran conto. Anche Sadurra era da molto tempo che non la incontrava.
Come era cambiata la disgraziata, il disonore della stirpe, la beffa del villaggio! Pareva una mendicante, pareva... Zia Batòra non esplorava il fondo del suo cuore, altrimenti sotto lo strato dell’ira avrebbe trovato un mare di pietà per la figlia sua.
Nostra Signora mia, come era bello il bimbo! I suoi occhi erano eguali a quelli del morto... No, non rassomigliava punto alla schiatta vile vile dei Nieglia; no, no...
La messa procedeva. Si era fatto un po’ di silenzio in chiesa, avvicinandosi l’Elevazione.
Zia Batòra pregava solo con le labbra. Non vedeva, nè udiva nulla, nulla, nulla, tranne le voci del suo spirito in tempesta. Ira, schianto, umiliazione, tenerezza, rimpianto, amaritudine e dolcezza, odio e pietà e amore passavano e sfilavano nell’animo semi-selvaggio, straziandole i resti sbranati del cuore, facendola piangere ed esultare per lo stato miserabile in cui scorgeva sua figlia, la sua nemica, il suo disonore...
Ma il suo volto restava impassibile. Solo un tremito leggerissimo le agitava le labbra che pregavano.
All’Elevazione la folla, mal come potè, gli uni sugli altri, si inginocchiò.
— Gesù, Gesù, — seguitò zia Batòra, nascondendo il volto tra le mani, — Gesù, Nostra Signora mia, abbiate pietà di me, abbiatene, abbiatene.
Essa sentiva gli occhi di Sadurra fissi sopra la sua persona e ne provava uno spasimo indicibile. Avrebbe voluto baciare il nipotino, avrebbe voluto battergli la testa al muro e sfracellarlo. Senza fallo Sadurra glielo mostrava così sfacciatamente per farla morire di rancore, rinnovandole il ricordo dei tormenti passati. Ancora, ancora la riafferrava l’odio, la rabbia, l’umiliazione. Le pareva che le donne Bittesi ed anche le straniere la guardassero, guardando poi Sadurra e deridendola, esultando della sua umiliazione.
Dio, Dio santissimo, che terribile messa era quella per zia Batòra, Dio!
⁂
A misura che la messa finiva, cresceva l’attenzione fremente, l’agitazione morbosa della folla. Anche gli uomini, i mercanti, i venditori, i monelli, tutti si erano introdotti in chiesa, spingendo, pigiando la gente. Qualche donna svenne, e risuonarono alcune grida, di persone dai piedi pestati e vesti gualcite.
In alto, dietro la balaustrata dell’altare, un gruppo di carabinieri metteva una strana nota nel quadro.
Nel pigia pigia, zia Batòra, che soffocava sotto la sua lunga cuffia nera, venne sospinta sino ai piedi della panca ove stava Sadurra.
Ora tremava tanto che a momenti era visibile il suo turbamento, acuminato dalla commozione che l’aspettazione del miracolo metteva anche nel suo spirito tormentato.
Alla fine un lungo sussurro percorse la folla. La ragazza era stata introdotta, e zia Batòra, dagli occhi acutissimi la vide per la prima.
Era una piccina vestita in costume, un costume tutto di panno scuro, magra bianchissima, e con gli occhi di un bizzarro colore, quasi color rame, rilucenti davvero di una fiamma infernale. Legata fortemente, non oppose alcuna resistenza, nè parlò durante lo scongiuro; — ma quando si trattò di farle baciare la reliquia santa fece un chiasso proprio del diavolo.
Le donne impallidirono, e si fece un gran silenzio ansioso per la chiesa.
La bambina destava in realtà paura. Gridava e urlava con una voce sonora, maschile, imprecando, sputando la reliquia, parlando in latino e dicendo cose terribili.
Inginocchiata, con la fronte appoggiata allo spigolo dell’altare, una donna piangeva e pregava, agitata da singhiozzi spasmodici.
Zia Batòra guardava più la donna che la bambina, di cui senza dubbio era la madre, — e una specie di fascino, una forte suggestione di pietà soggiogavale l’anima. Le sembrava sentire i lamenti della sventurata.
La gente mormorava di nuovo, e nel susurro forte, febbrile, che allagava la navata della chiesa, destandone l’eco misterioso, zia Batòra avrebbe giurato di udire le parole della donna di Alà, che le diceva:
— Non c’è una madre più sventurata di me. Perchè vieni tu a piangere quà, cosa vuoi, cosa chiedi? Son io la madre disgraziata. Tu hai la pace vicino a te, entro di te, ma è il tuo orgoglio che la respinge, o Batòra, Batòra!
Sì, proprio, zia Batòra sentiva il suo nome, ripetuto a migliaia di volte dall’eco della navata; questo almeno poteva giurare. E presa da un repentino rimorso, da una tenerezza immensa, avrebbe voluto voltarsi e baciare il bimbo di Sadurra, il cui respiro le sfiorava la testa, — ma non poteva, non poteva ancora, benchè sentisse che non sarebbe uscita di chiesa senza far ciò...
La grande commozione, o meglio la tensione che lo spettacolo svolgentesi nell’altare, metteva nelle sue sensazioni, faceva tacere la passione intima di zia Batòra, mentre la vista di quel dolore materno, senza parole e senza confine, sviluppava il suo amore di madre, da lungo tempo represso.
I singhiozzi della donna di Alà erano così forti che dominavano il baccano suscitato dalle convulsioni della bambina. Zia Batòra li udiva con spasimo, e le pareva di provare un acuto dolore fisico; non sapeva dove, nè come, — ma che forse era il soffocamento che l’asfissiava.
La spiritata continuava a contorcersi, urlando spaventosamente e vomitando bestemmie inenarrabili, in latino, in sardo, in italiano.
Aveva rotto i legami che l’avvolgevano, e tre uomini, forti e robusti, aiutati dai carabinieri, bastavano a mala pena a contenerla, nonchè a farle baciare la reliquia. Il sacerdote continuava i suoi scongiuri, — e la folla, stanca dello spettacolo, parlava a voce alta, dimentica del luogo.
Pareva la spianata all’ora del ballo tondo.
Ma a un tratto zia Batòra vide la madre della ragazzina alzarsi, cessando dal piangere, come inspirata. Prese essa la reliquia, e con un atto repentino la accostò alle labbra della figlia.
Allora si vide una cosa meravigliosa e commovente, benchè tanto attesa.
La bimba si calmò per incanto, i suoi occhi si spensero in un languore dolcissimo, e cadde inginocchiata, dicendo l’Ave Maria ad alta voce, con una vocina sottile, soave, piena di pianto.
— Figlia mia!... Figlia mia!... — gridò la madre, con un accento che la gioia rendeva straziante, pazzo...
Il miracolo era compiuto. La folla tacque, e quasi tutti si inginocchiarono, pallidi, frementi, rispondendo all’Ave Maria della bambina. Moltissime donne piangevano e singhiozzavano, con quel pianto che è l’espressione più viva di un terrore indicibile, naturale o sovrumano, e che può dirsi la vertigine dello spirito davanti a un fenomeno terribile e misterioso nella sua stessa semplicità.
Zia Batòra era fra queste donne.
⁂
Essa ridiscese al villaggio col bimbo di Sadurra in braccio e con la figlia al fianco. Per cui i buoni Bittesi, fieri della loro Madonna, dissero che quell’anno Nostra Signora aveva fatto due miracoli.