Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XV
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XV.
Si narra la disgraziata avventura di don Chisciotte con certi imbestialiti Ianguesi
Come don Chisciotte ciò intese, rispose: “Oh quanto pagherei di poter parlare un po’ riposato, e che mi si mitigasse il dolore di questa costola quanto bastar potesse, o Panza, per farti conoscere il tuo errore! Senti, sempliciotto: se il vento della fortuna, avverso finora, voltandosi in nostro favore, soffiasse nella vela del nostro desiderio, sicchè potessimo senza opposizione di sorta prender porto in alcuna delle isole che ti ho promesso, che saria di te, qualora dopo averla conquistata io te ne facessi assoluto signore; e tu te ne rendessi indegno per non essere cavaliere, e per non amare di esserlo, e non aver valore o intenzione di vendicare i tuoi torti e difendere il tuo dominio? Perocchè devi sapere che nei regni e nelle provincie di nuova conquista gli animi dei nazionali non sono mai tanto tranquilli nè tanto affezionati al novello dominatore, che non gli resti sospetto di qualche congiura diretta ad alterar di nuovo le cose od a rimettere in piedi quelle di prima. Rendesi dunque necessario, che il nuovo possessore abbia senno acconcio a saper governare, e valore per offendere e per difendersi in qualunque occasione. — Vorrei avere avuto quel buon giudizio, rispose Sancio, e quella bravura descritta da vossignoria nel fatto che ci è occorso presentemente; ma le giuro da povero diavolo che sono, che ho più bisogno di empiastri che di ragionamenti. Tenti vossignoria, se può, di rialzarsi e aiuteremo Ronzinante, benchè non lo meriti, per essere stato lui la causa principale di tutta questa rovina. — Ah! sclamò don Chisciotte, non avrei mai pensato questo di Ronzinante; lo ebbi sempre in conto di persona morigerata e pacifica al pari di me: si suol dire pur bene che a conoscer uno ci vuole gran tempo, e che in questa vita non avvi cosa sicura. — Chi avrebbe mai detto, soggiunse Sancio, che a quei colpi di spada dati dalla signoria vostra a quello sventurato passaggiero, dovesse tener dietro per la posta una sì terribile tempesta di bastonate qual fu quella che si scaricò sopra le nostre spalle? — Le tue possono essere avvezze a simiglianti burrasche, replicò don Chisciotte; ma alle mie, cresciute nella bambagia e nella tela d’Olanda, è ben evidente che debba riuscire senza paragone più dolorosa questa disgrazia; e se non fosse perchè mi figuro... che dico mai mi figuro? perchè sono certissimo che tutti questi malanni vanno uniti indispensabilmente all’esercizio delle armi, credo sicuramente che io me ne morrei qui di rabbia e di veleno„. A questo replicò lo scudiere: — Se tali disavventure sono proprie della cavalleria, favorisca ella dirmi se vengono spesso spesso, oppure se hanno certi tempi determinati; perchè (a quanto vedo) dopo due di queste avventure, noi non saremmo al caso di sostenere la terza, a meno che il Signore per sua divina misericordia non ci soccorra validamente. — Sappi, amico Sancio, replicò don Chisciotte, che la vita de’ cavalieri erranti va soggetta a mille pericoli ed infortunii; ma essi sono poi anche sempre nella possibilità di diventare re e imperatori, come si vede da molti, la storia de’ quali è a piena mia cognizione. Potrei qui farti il minuto racconto (se mi venisse un po’ meno il dolore) di alcuni che unicamente pel valore del braccio salirono agli alti gradi che ti ho detto, benchè siansi trovati e prima e poi in diverse afflizioni e miserie. Ti sia d’esempio il valoroso Amadigi di Gaula, che si vide in potere del suo mortale nemico Arcalao l’incantatore, da cui si crede che mentre n’era prigione ricevesse, legato ad una colonna in un cortile, più di dugento frustate con le redini del suo cavallo. Avvi un anonimo accreditato non poco, il quale racconta che essendo preso il cavaliero di Febo, mediante un trabocchetto che si sprofondò sotto a’ suoi piedi in un certo castello, trovossi nel cadere in una profonda buca sotterra con piè e mani legate, e quivi gli fu applicato un serviziale di acqua gelata con rena, che ne stette quasi per morire; e ciò sarebbe avvenuto se non fosse stato soccorso in tempo da un gran savio suo amico. Posso dunque ancor io, se tanto sofferse gente di sì gran merito, tollerare i torti che testè ci vennero fatti, mentre quelli da tanti altri patiti furono molto più gravi. E devi sapere, o Sancio, che l’uomo non è punto disonorato, quando altri lo ferisce con istrumenti che vengono casualmente alle mani; come si può vedere nel codice dei duelli, dove con espresse parole sta scritto: Che se il calzolaio colpisce un altro con la forma che tiene in mano, benchè sia di fatto ch’essa è di legno, non per questo si può dire che sia stato bastonato colui che ne rimase colpito. Ciò ti dico affinchè tu non creda che per essere noi rimasti fracassati e mal conci nella passata scaramuccia, ci sia stato usato un affronto; perchè le arme che aveano con loro quegli uomini, e colle quali ci han macinati, erano alla fin fine le loro stanghe, e nessuno, ch’io mi ricordi, avea stocco, spada o pugnale. — A me non diedero tempo di far tanti esami, rispose Sancio, perchè ebbi appena posto mano alla mia tizona1, ed essi mi sventolarono le spalle coi loro bastoni per modo che mi levarono la vista dagli occhi e la forza dai piedi, e mi stramazzarono qui dove sono tuttora, e dove non mi dà alcun fastidio il pensare se fu affronto o no l’essere bastonato, bensì il dolore delle percosse che mi restano tanto stampate nella memoria quanto nelle spalle. — Hai con tutto questo da sapere, fratello Panza, replicò don Chisciotte, che non v’è reminescenza la quale non venga cancellata dal tempo, nè dolore a cui la morte non metta fine. — E qual maggiore sventura, replicò Panza, di quella che ha bisogno del tempo per essere cancellata dalla memoria, o della morte per esser tolta? Se la presente nostra disgrazia fosse di quelle che si guariscono con qualche poco di empiastro, non vi saria tanto male; ma io vado pensando che non basteranno gli empiastri di un intero spedale al nostro risanamento. — Non ti affliggere per questo, ma tenta, Sancio mio, di vincere la sventura, ch’io pure farò lo stesso; e vediamo intanto come sta Ronzinante; chè, a quanto mi sembra, non toccò al poveretto la parte minore di questa nostra disavventura. — Di lui non mi meraviglio, rispose Sancio, essendo egli pure cavaliere errante; mi meraviglio bene che il mio asino l’abbia scappata colle costole sane, quando noi l’abbiamo finita colle costole rotte. — La ventura lascia sempre un uscio aperto al rimedio nelle disgrazie, disse don Chisciotte; e voglio con ciò inferire che questa bestiuola potrà per ora fare le veci di Ronzinante, portandomi di qua fino a qualche castello dove curare le mie ferite. Nè io mi recherò a disonore l’usare di tale cavalcatura, avendo letto che quel buon vecchio Sileno, aio e pedagogo del giovane Dio della letizia, quando entrò nella città dalle cento porte se n’andava a proprio talento, cavalcando un bellissimo asino. — Sarà vero, disse Sancio, ch’egli se n’andasse come dice vossignoria, ma passa una gran differenza dal cavalcare un asino allo starvi sopra come un sacco di cenci„. E don Chisciotte: — Le ferite che si ricevono nelle battaglie recano più onore che vergogna; perciò, amico Panza, non replicar oltre, ma, come ti ho detto poc’anzi, alzati il meglio che puoi, stendimi nella maniera che ti sembra più acconcia attraverso del tuo giumento, e partiamci da questo luogo prima che ci colga la notte, e ci vengano ad assassinare in questo deserto. — Eppure io intesi dire da vostra signoria, replicò Panza, ch’è proprio de’ cavalieri erranti il dormire in boscaglie e in deserti per la maggior parte dell’anno, e che se lo recano a gran ventura. — Ciò avviene, disse don Chisciotte, quando non possono fare diversamente, o quando sono innamorati; e questo è tanto vero, che vi fu un cavaliere il quale se ne stette sopra una balza esposto alla sferza del sole, all’ombra ed alle inclemenze del cielo per due anni interi senza saputa della sua signora: ed uno di questi fu Amadigi quando facendosi chiamare Beltenebro, si mise a stare nella balza di Pegnapobre, non so se ott’anni od otto mesi, che di ciò non mi sovviene precisamente; fatto sta ch’egli vi dimorò, facendo la penitenza di non so quale rabbuffo avuto dalla signora Oriana. Ma lasciamo questo da parte, ed allestisci il giumento e Ronzinante, prima che altro ci avvenga di male.
— Non ci mancherebbe altro, soggiunse Sancio; e prorompendo con trenta ahi, con sessanta sospiri, e con cento e venti invettive ed imprecazioni contro chi a tale lo aveva condotto, si alzò, ma rimase alla metà dell’impresa gobbo gobbo, come un arco turchesco, senza che gli potesse riuscire mai di raddrizzarsi bene. Ad onta di tanto travaglio mise all’ordine il suo asino, ch’era sviato alquanto mercè la rovinosa libertà di quel giorno. Fece pure che si levasse Ronzinante, il quale se avesse avuto lingua per querelarsi non avrebbe risparmiato sicuramente nè Sancio nè il suo padrone. Finalmente, Sancio accomodò don Chisciotte sopra l’asino, fece precedere Ronzinante, e guidando la bestia per il capestro si diresse poco più poco meno, dove gli sembrava essere la strada maestra: e la sorte, che andava guidando di bene in meglio le cose loro, dopo il viaggio appena di una lega gli scoperse dinanzi un’osteria che a suo dispetto, ma per soddisfazione di don Chisciotte dovea essere un castello. Persisteva Sancio a dirla un’osteria, e il suo padrone un castello; e tanto durò la controversia che vi giunsero prima d’averla terminata, e vi entrò Sancio, senz’altro contrastare, con tutto l’accompagnamento.