Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XVI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
◄ | Capitolo XV | Capitolo XVII | ► |
CAPITOLO XVI.
Di quello che accadde all’ingegnoso idalgo don Chisciotte nell’osteria ch’egli volea pure che fosse castello.
che io senza far sogni di sorta, ma standomi desto come sono presentemente, mi trovo tutto coperto di lividure come il mio signor padrone.
— Come si chiama egli questo cavaliere? gli domandò l’asturiana Maritorna.
— Don Chisciotte della Mancia, rispose Sancio, ed è cavaliere venturiero dei più celebri e valorosi che da molto tempo in qua siensi veduti al mondo.
— Che significa cavaliere venturiero? soggiunse la serva.
— Siete voi sì bambina al mondo, rispose Sancio, che nol sapete? Vi sia dunque noto, sorella mia, che cavaliere venturiero è uno che in due parole si vede bastonato e imperatore; oggi è la più sventurata e la più bisognosa creatura del mondo, e avrà dimani due o tre corone di regni da regalare al suo scudiere.
— Ma come mai dunque, disse l’ostessa, non possedete almeno qualche contea?
— È troppo presto, rispose Sancio; perchè da un mese soltanto andiamo cercando avventure, e non ne abbiamo finora incontrata alcuna che potesse darci un sì gran bene: e poi le tante volte l’uomo trova altra cosa da quella che cerca. Ma in verità che se il mio signor don Chisciotte guarisce da questa ferita, cioè, caduta, ed io non ne rimango storpiato, in verità che non rinunzierei alle mie speranze pel maggior titolo di Spagna„.
Stava don Chisciotte ascoltando con somma attenzione tutti questi discorsi; e rizzandosi meglio che potè nel suo letto, prese la mano dell’ostessa, e disse: — Credetemi, bella signora, che vi potete chiamare ben fortunata di alloggiare in questo vostro castello la mia persona, la quale è siffatta che se io non la lodo, gli è perchè si suol dire che la propria lode avvilisce; ma vi dirà il mio scudiere chi io mi sia; e vi assicuro intanto che terrò scolpito nella memoria il favore che mi avete impartito, e ve ne sarò grato finchè mi duri la vita. Così piacesse agli alti destini che amore non mi tenesse soggetto e incatenato cotanto alle sue leggi, ed agli occhi di quell’ingrata vezzosa (e qui borbottò il nome fra i denti) che quelli di questa vaga ragazza già sarebbero dominatori della mia libertà!„
Stavansene confuse l’ostessa, la figlia e Maritorna udendo i ragionamenti dell’errante cavaliere, ch’esse intendevano nè più nè meno, come se avesse parlato greco. Si accorsero nondimeno che quelle dovevan essere parole di cortesia e gentilezza; ma non assuefatte a somigliante linguaggio lo stavano guardando con ammirazione, sembrando loro che fosse un uomo diverso dagli altri. Perciò ringraziatolo con gentilezze da osteria e lo lasciarono; e l’asturiana Maritorna si diede a curar Sancio che non n’avea men bisogno del suo padrone.
Fra Maritorna e il vetturale, nominato poc’anzi, erano corse già da tempo promesse di matrimonio: ma perchè il padrone di lei si opponeva, avevano ordinato che in quella notte sarebbero fuggiti insieme; al qual fine la fantesca, quando i padroni dormissero, verrebbe ad avvertirne il suo fidanzato. Il duro, angusto e mal accomodato letto di don Chisciotte trovavasi il primo in quella stalla o porcile, e ad esso vicino stava quello di Sancio, che consisteva in una stuoia da camera ed in una coperta piuttosto di canovaccio cimato che di lana. Succedeva a questi due letti quello del vetturale, composto, come si è detto, delle bardelle e dei fornimenti dei due migliori muli da lui condotti, che in tutto erano dodici, castagni, grassi e belli, essendo costui uno dei più doviziosi mulattieri di Arèvalo, per quanto ci fa sapere l’autore di questa storia, il quale ne parla minutamente per averlo assai ben conosciuto, credendosi da taluno che fosse anche poco suo parente1. Oltre di che Cide Hamete Ben-Engeli fu uno storico ricercatore attentissimo e molto esatto in tutte le sue cose; e ciò apparisce ad evidenza; mentre non ha omessa alcuna particolarità benchè minuta e di poco momento. Laonde potranno gli storici d’importanza pigliarlo ad esempio in luogo di tessere sì brevemente, come fanno, le altrui geste, di maniera che appena si cominciano a leggere sono già belle e finite, tacendo o per malizia o per ignoranza, quello ch’è più sostanziale. Benedetto sia mille volte l’autore di Tablante, di Ricamonte, e colui che riferisce le imprese del Conte Tomiglia! Con quanta esattezza descrivono ogni cosa!
Ora il vetturale poich’ebbe visitate le sue bestie, e governatele per la seconda volta, si distese sopra le sue coperte, e diessi ad attendere che venisse da lui Maritorna. Stavasene di già Sancio in letto impiastrato, e tuttochè tentasse di prender sonno, non lo lasciava riposare il dolore delle costole; e don Chisciotte, egualmente afflitto dalla sua macinatura, se ne stava cogli occhi aperti come una lepre. In tutta l’osteria regnava alto e profondo silenzio, nè vi era altro lume fuor quello di un lampione appeso in mezzo al portico. Questa maravigliosa quiete e i pensieri nei quali occupavasi il nostro cavaliere intorno agli avvenimenti che incontransi ad ogni passo nei libri, autori di sua disgrazia, lo condussero ad immaginare una delle più strane pazzie che potesse creare mente umana. Si figurò egli di essere giunto ad un famoso castello (giacchè gli parevano castelli tutte le osterie dove alloggiava); che la figlia dell’oste fosse figliuola del castellano, e che vinta dalla gentilezza di lui e perdutamente innamorata, gli avesse promesso di sottrarsi ai suoi genitori e di venire a trovarlo in quella medesima notte. Con tale chimera ch’egli si fabbricava come cosa reale, cominciò ad affliggersi pensando al periglioso cimento in cui dovea trovarsi la sua fedeltà; e fermamente si propose nel suo cuore di non commettere torto alcuno ed offesa alla sua signora Dulcinea del Toboso; tuttochè se gli presentasse dinanzi la stessa regina Ginevra con Chintagnona sua dama. Avendo fitti in pensiero questi spropositi, arrivò il tempo e l’ora (per lui ben disgraziata) in cui sopraggiunse l’Asturiana, la quale con tacito e guardingo passo entrò nel luogo, dove i tre già mentovati se ne stavano a letto, per cercare del suo vetturale. Giunse appena alla porta che don Chisciotte la sentì, e levatosi a sedere sul letto, ad onta dei suoi empiastri e del dolore alle costole, stese le braccia per accogliere la vezzosa donzella. L’Asturiana, che tutta rannicchiata e cheta andava colle mani avanti cercando l’amante suo, venne ad incontrarsi nelle braccia di don Chisciotte, il quale l’afferrò strettamente pei polsi, e tirandola a sè, la fece sedere sopra il suo letto senza ch’ella osasse aprir bocca. Portava Maritorna certi smanigli con pallottole di vetro che furono tenute da don Chisciotte in conto di preziose perle orientali: la vesta, comechè fosse di tela assai ruvida, egli se la credette di finissima stoffa; i capelli che poteano dirsi crini di cavallo, gli parvero fili di lucidissim’oro di Arabia, atti ad oscurare col loro splendore il sole medesimo; ed il fiato, che mandava certamente aliti d’insalata fredda e indigesta, parve a lui odore soave di aromi; in somma egli se la dipinse nella fantasia simile affatto ad una principessa di cui aveva letto nei libri, che andò a visitare un cavaliere ferito. Sembrandogli pertanto di avere presso di sè la dea della bellezza, e tenendosela vicina, cominciò a dirle con voce bassa e amorosa: — Ah quanto bramerei, bella e possente signora, di trovarmi in situazione da poter compensare la bontà suprema di cui mi onorate! ma la rea fortuna, che mai non si stanca di perseguitare i buoni, mi ha ridotto qui in questo letto sì pesto e malconcio come sapete; e vi si aggiunge anche cosa di molto maggiore importanza, ed è la fedeltà che promisi alla senza pari Dulcinea del Toboso, unica signora de’ miei più reconditi pensieri„. Stavasene Maritorna in grande affanno, e sudava a sentirsi tenere sì stretta da don Chisciotte, e senza intendere e senza por mente a ciò ch’egli andava dicendo, procurava di liberarsene, nè profferiva parola. Il vetturale frattanto, che non dormiva, era stato ascoltando tutto ciò che don Chisciotte diceva alla sua Maritorna; e mosso da gelosia, si accostò quatto quatto al letto di lui per vedere come andavano a finire quelle dicerie ch’egli non poteva ben comprendere; e quando si accorse che la serva faceva ogni sua possa per isvincolarsi, e don Chisciotte si adoperava altrettanto per trattenerla, non piacendogli per niente la burla, inalberò il braccio, e lasciò cadere un pugno sì terribile sopra le scarne ganasce dell’innamorato cavaliere che gli fece insanguinare tutta la bocca; nè contento di questo gli montò sopra le costole e lo pestò bene coi piedi. Il letto, ch’era debole e sopra un fondamento mal fermo, non potendo sostenere l’aggiunta del vetturale, precipitò, e con romore sì forte che svegliò l’oste; il quale inmaginò subito che ciò fosse avvenuto per colpa di Maritorna; massimamente che avendola chiamata ad alta voce non gli avea punto risposto. Si alzò con questo sospetto, e acceso tosto un lume si condusse fin là d’onde era venuto il fracasso. La serva, vedendo il padrone, il quale era uomo bestiale, tutta spaventata e fuori di sè andò a cacciarsi nel letto di Sancio Panza che dormiva, e vi si nicchiò facendosi come in un gomitolo. Entrò l’oste dicendo: — Dove sei, sciagurata? Scommetto che questo strepito è per colpa tua„. Svegliossi Sancio in questo punto, e sentendosi quel gruppo quasi a ridosso, e pensando che fosse qualche folletto, cominciò a mazzicar co’ pugni dall’una parte e dall’altra, cogliendo con non so quanti Maritorna; la quale, vinta dal dolore ne ricambiò Sancio in maniera da fargli perdere il sonno per molte notti. Vedendosi egli trattato a quel modo senza sapere da chi, e alzandosi alla meglio che potè, si accapigliò con Maritorna, e cominciò fra loro la più accanita e graziosa zuffa del mondo. Laonde il vetturale che al lume del candelliere dell’oste vide il mal trattamento della sua bella, lasciato don Chisciotte, corse a prestarle il necessario soccorso; e l’oste fece lo stesso, ma con diversa intenzione, perch’egli vi andò risoluto di gastigare la serva, tenendola indubitatamente per l’autrice di tutto quello scompiglio. E qua, come suol dirsi, il gatto al topo, il topo al gatto, ed il gatto alla corda, e la corda al palo: il vetturale bastonava Sancio, Sancio la serva, la serva lui, l’oste la serva, e tutti menavano così alla presta che non restava un momento di pausa. Fu poi da ridere che all’oste si spense il lume, e rimasti perciò tutti all’oscuro si percuotevano sì pazzamente e alla cieca, che dove giugnevan le mani non restava niente di sano.
Trovavasi a caso in quella notte nell’osteria un bargello di quelli che si chiamano della Santa Hermandada antica di Toledo; il quale, udito quello straordinario fracasso, toltosi l’archibugio, entrò all’oscuro dove infuriava ancora la zuffa, dicendo: — Alto là, alla giustizia! alto là, al bargello di campagna! Il primo in cui incappò fu l’ammaccato don Chisciotte, che giaceva supino e fuori di sentimento sul rovinato suo letto; e scossolo così a tastone per la barba, rinnovava le grida: — Alto là, alla giustizia! Vedendo che punto non si movea, nè dava alcuna voce, si avvisò che fosse morto, e che gli altri compagni lo avessero ammazzato, e con tale sospetto rinforzò la voce, dicendo: — Chiudasi la porta dell’osteria, e nessuno n’esca perchè qui è stato ucciso un uomo. Questa voce mise terrore in tutti, ed ognuno lasciò la zuffa indecisa com’era quando la voce si fece sentire. L’oste si ritirò nella sua camera, il vetturale si ravvolse nelle sue coperte, la serva tornò al suo giaciglio, e i soli sventurati don Chisciotte e Sancio non si poterono movere dal luogo dov’erano. Intanto il bargello lasciò andare la barba di don Chisciotte, ed uscì in traccia di un lume per vedere ed arrestare i delinquenti; ma non gli riuscì di trovarlo, perchè l’oste maliziosamente avea già spento il lampione, di maniera che gli bisognò cercar del focolare, dove con molto stento e perdita di tempo accese un’altra candela.
Note
- ↑ I Morischi prima di essere espulsi dalla Spagna attendevano all’agricoltura, alle arti meccaniche, e soprattutto a condur bestie da soma. I mulattieri dovendo sempre andare vaganti, non erano tenuti a frequentare le chiese, e sottraevansi alla vigilanza dell’Inquisizione.