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capitolo xv. 127

le costole. Alla seconda bastonata Sancio precipitò, e dopo lui don Chisciotte, nè gli valse destrezza o coraggio; e manco male ch’egli cadde appiè di Ronzinante, il quale non s’era per anche rizzato: dal che si vede che brutta riuscita fanno le stanghe in mani villane e arrabbiate. Accorgendosi gl’Ianguesi della brutal opera da loro commessa caricarono le bestie colla più grande celerità, e proseguirono la loro strada, lasciando i due venturieri al partito più tristo che dir si possa. Il primo a risentirsi fu Sancio Panza, che trovandosi vicino al suo signore, con voce ammalata e dogliosa gli disse: “Signor don Chisciotte! ahi signor don Chisciotte! — Che vuoi tu, Sancio fratello mio? rispondeva don Chisciotte con voce parimenti debole e addolorata. — Bramerei, se fosse possibile, disse Sancio Panza, che vossignoria mi desse due sorsi di quella bibita di Feo Blas, se ne ha qui alla mano, che potrebbe forse essere tanto buona per le ossa peste come per le ferite. — Ah tapino di me! se qui l’avessi, che ci mancherebbe adesso per guarire? rispose don Chisciotte. Io ti giuro, o Sancio, in parola di cavaliere errante, che non passeranno due giorni, se altrimenti non dispone la sorte, che ne avrò in abbondanza, o ch’io non potrò più valermi delle mie mani. — E quando crede vossignoria, replicò Sancio Panza, che potremo valerci dei piedi? — Altro non so dirti, rispose il macinato cavaliere, se non