Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XIV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
◄ | Capitolo XIII | Capitolo XV | ► |
CAPITOLO XIV.
Dove si recita la disperata canzone dell’infelice pastore, con altri inaspettati avvenimenti.
CANZONE DI GRISOSTOMO.
“Farò che lo stesso inferno comunichi al tristo mio petto un suon di dolore che muti l’accento ordinario della mia voce.
“E pari al desiderio che ho di far manifesto il mio dolore e l’opere tue sarà l’accento della spaventevole mia voce, alla quale per maggior tormento seguiteranno anche i brani delle mie viscere.
“Ascolta pertanto e presta attento orecchio al suono, non già armonioso, ma aspro, che dal fondo del tristo petto, mosso da cupo disinganno si esala per mio giusto sollievo e per tua confusione.
“Così il ruggir del leone, lo spaventoso ululare del lupo, il fischio terribile dello squamoso serpente, l’orrendo grido di qualche mostro, l’auguroso gracchiare della cornacchia, il fracasso del vento che agita il mare, l’implacabile muggito del toro già vinto, il gemito lamentevole della vedova tortorella, il sinistro canto del gufo, e i tristi suoni di tutta la negra falange infernale,
“Escano fuori con la dolente mia anima commisti fra loro in tal suono, che tutti i sentimenti ne rimangano confusi: poichè a far conoscere l’affanno che mi strazia, ho bisogno d’insoliti modi.
“A questi suoni così misti e confusi non faranno eco nè le dorate sabbie del Tago, nè gli uliveti del famoso Beti; bensì sulla cima delle alte roccie e nei profondi burroni si stenderanno i miei lamenti con morta lingua, ma con vive parole;
“Ovvero in oscure valli o per aride piagge prive d’ogni umana conversazione, e dove il sole non mostrò mai la sua luce, o fra la velenosa moltitudine di fiere che vivono nelle sterminate pianure.
“E mentre pei selvaggi deserti l’eco ripeterà i miei affanni e il tuo rigore, che non ha pari nel mondo, per qualche mercede alla breve mia vita s’andran diffondendo su tutta quanta la terra.
“Il disprezzo uccide; il sospetto o vero o falso abbatte la pazienza; la gelosia uccide con più forte rigore; una lunga assenza è grande pena; e contra il timore dell’obblio non è scudo nessuna speranza di migliore destino.
“In tutto questo è certa inevitabile morte; ma io (inudito prodigio!), io vivo geloso, spregiato, assente e certo di quei sospetti che mi uccidono, e nell’obblio dove si ravviva il mio fuoco.
“E in mezzo a così gran numero di tormenti non giunge il mio sguardo a vedere pur l’ombra della speranza; nè io disperato me ne do alcun pensiero: anzi, per viver sempre nel mio dolore, giuro di tenermi sempre lontano da lei.
“Potrebbe mai l’uomo nel tempo stesso sperare e temere? o saria dunque buon consiglio sperare mentre le cagioni di temere sono più che mai certe?
Quando la dura gelosia mi sta dinanzi, potrei io forse chiudere gli occhi, mentre io la veggo a traverso di mille ferite aperte nell’anima mia?
“Chi non aprirebbe le porte alla disperazione quando vede scopertamente l’indifferenza altrui, e i sospetti (oh amaro convincimento!) convertiti in fatti veri, e la limpida verità cambiata in menzogna.
“O gelosia, fiera tiranna del regno d’amore, armami di ferro le mani; dammi, o dispregio, una corda. Ma oimè! che con crudele vittoria la vostra rimembranza soverchia il mio patimento.
“Or finalmente io muoio, e per non avere alcuna speranza di felicità nè in vita nè in morte, voglio persistere ne’ miei pensieri.
“Dirò che non s’inganna chiunque ben ama; e che quell’anima è libera sopra le altre, la quale è più schiava d’amore.
“Dirò che la mia costante nemica ha l’anima bella al pari del corpo; che la sua indifferenza nasce da propria mia colpa, e che per mezzo dei mali a cui ci sottopone, amore mantiene in pace il suo regno.
“E in questa opinione accelerando con un duro laccio il miserando passo a cui mi ha condotto la sua indifferenza, commetterò al vento il mio corpo e la mia anima senz’alloro o palma di gloria avvenire.
“E tu che con tanta crudeltà fai evidente la cagione che mi sforza a gittar di tal modo l’abborrito mio vivere;
“Poichè questa profonda piaga del mio cuore apertamente ti mostra com’io m’offerisco lieto al tuo rigore:
“Se mai per caso tu mi giudichi degno che il chiaro cielo de’ tuoi begli occhi nella mia morte si turbi, non lasciar che ciò accada, io te ne prego; nè cerco che tu mi dia verun compenso per queste spoglie dell’anima mia.
“Anzi nel funesto momento il tuo riso faccia conoscere che tu della mia morte ti allegri. Se non che troppa semplicità il porgere a te questo consiglio, mentre so che tu ti fai gloria di accelerare il fine della mia vita.
“Sorga dunque, che già n’è tempo, dal profondo abisso Tantalo colla sua sete, sorga Sisifo coll’immane peso del suo macigno, Tizio conduca il suo avvoltojo, nè Issione qui manchi colla sua ruota, nè le cinquanta sorelle intente alla perpetua loro fatica;
“E tutti insieme riversino il loro mortale supplizio nel mio petto, e con bassa voce (se tanto s’aspetta a chi muor disperato) cantino triste esequie e dolorose a questo mio corpo, a cui sarà negato anche il mortorio.
“E il trifome custode dell’inferno con mille altre chimere e mille mostri facciano loro un doloroso accompagnamento; perocchè non mi pare che veruna altra pompa convenga meglio di questa a chi muor per amore.
“E tu, disperata canzone, non prorompere in pianto abbandonando la mia lugubre compagnia; anzi, poichè la cagione d’onde nascesti colla mia sventura aumenta la sua felicità, fa di non esser trista nemmeno nella sepoltura„.
Piacque sommamente a tutti la canzone di Grisostomo, benchè quello da cui fu letta dicesse che non gli sembrava concorde con quanto gli avevano raccontato della modestia e bontà di Marcella, mentre Grisostomo nella sua canzone si querelava di gelosie, di sospetti e di assenza, ciò che tornava a pregiudizio del buon nome della giovane. Ambrogio, come colui ch’era stato a parte de’ più reconditi pensieri del suo amico, rispose: “A cancellar questo dubbio sappiate che quando fu scritta la canzone da questo infelice, trovavasi egli lontano da Marcella, la quale a bella posta erasi discostata da lui per vedere se l’assenza potesse guarirlo. E siccome tutto reca afflizione ad un amante lontano, perciò si tormentava Grisostomo con sognate gelosie, e teneva gli immaginari sospetti come verità indubitate; egli è d’altra parte verissimo quanto si dice comunemente della bontà di Marcella; chè dall’essere un po’ crudele ed arrogante in fuori, di niun’altra colpa potrebbe tacciarla la stessa invidia. — Così è, rispose Vivaldo;„ e mentre stavasi egli per leggere un altro de’ fogli sottratto alle fiamme, ne venne distolto da una maravigliosa visione (che tale gli parve) e fu questa: che dalla sommità di quella montagna, appiè della quale si stava scavando la sepoltura, comparve la giovine Marcella adorna di sì grande bellezza da avanzarne di gran lunga la fama. Quelli che fin allora non l’aveano veduta, la stavano osservando con ammirazione e silenzio, e gli altri ch’erano accostumati ad averla sott’occhio, restaron eglino pure sì meravigliati come se la vedessero allora per la prima volta. Ambrogio tosto che la riconobbe, con segni di animo irritato le disse: “Vieni forse a vedere, o fiero basilisco di queste montagne, se al tuo apparire versino sangue le ferite di questo miserabile a cui la tua crudeltà tolse la vita? o ti rechi tu qui ad insuperbirti per la riuscita delle tue detestabili imprese? oppur a bearti, nuovo spietato Nerone, da quell’altura nell’incendio della divampante sua Roma, e a calpestar temeraria questo sfortunato cadavere, come la ingrata figlia quello di Tarquinio suo padre?1 Dichiara, orsù, senza ritardo qual fine qui ti conduce, o quello di cui più ti compiaci; chè sapendo io come Grisostomo non tralasciò mai di obbedirti ciecamente vivendo, farò che anche in morte ti obbediscano quelli che si vantarono d’essergli amici. — Qua non mi conduce, o Ambrogio, veruno dei fini da te immaginati, rispose Marcella, ma la sola mia determinata volontà di far conoscere ad ognuno quanto a torto io sia incolpata della disperazione e della morte di Grisostomo. Prego dunque quanti qui stanno di prestarmi attenzione, chè non mi sarà d’uopo d’impiegare gran tempo, nè di spendere molte parole, a far sì che chiunque ha buon senno si persuada delle verità che esporrò.
“M’impartì il cielo, a detto vostro, bellezza tanto singolare che vi trovate costretti, anche a vostro malgrado, di dovermi amare; e sostenete ch’io perciò sono in dovere di ricambiarvi con altrettanto affetto. Il naturale mio intendimento mi persuade che amabile è tutto il bello, ma non trovo però che ne venga di conseguenza che l’oggetto amato debba amare chi l’ama; e tanto più che potrebbe accadere che l’amatore del bello fosse brutto, ond’è che toccando al brutto d’essere abborrito cade male in acconcio il dire: T’amo perchè seí bella, e tu devi amar me benchè brutto. Ma posto anche il caso che dall’una e dall’altra parte v’abbia uguale bellezza, non è per questo ch’eguale debba essere in ambidue la inclinazione, perchè tutte le bellezze non innamorano, e talune piacciono a vederle, ma non legano la volontà. Che se le bellezze tutte innamorassero e incatenassero, si troverebbero confuse e fuor di sentiero le volontà, non sapendo a quale specialmente applicarsi. Perchè essendo innumerabili gli oggetti adorni di bellezza, infiniti sarebbero eziandio i desiderii; ed, a quanto ho inteso dire, il vero amore si concentra in un solo oggetto, e nasce da libera volontà, non da violenza. Ciò essendo (com’io pure credo che sia), perchè volete ch’io pieghi a forza la volontà mia per questo solo che voi dite di amarmi? Rispondetemi. Se in luogo di crearmi bella m’avesse il cielo fatta nascere brutta, sarebb’egli stato giusto ch’io mi fossi doluta di voi che certamente non mi avreste amata? Oh quanto vi starebbe bene il considerare che io non mi sono fatta bella da per me stessa, e che qualunque siasi la bellezza mia, è il cielo che me l’ha data in dono, senza ch’io l’abbia o chiesta o voluta! E siccome non può accusarsi la vipera del veleno che porta seco, benchè con quello uccida, perchè lo ha dalla natura, così nemmen io merito d’essere censurata per essere bella; mentre la bellezza è nell’onesta femmina come fuoco lontano, o come spada acuta, chè nè quello abbrucia nè questa ferisce chi non si accosta. L’onore e la virtù sono gli ornamenti dell’anima, senza de’ quali il corpo, benchè sia avvenente, non deve però sembrar tale; e se l’onestà è una delle virtù che più adornano ed abbelliscono l’anima e la persona, perchè mai dovrà spogliarsene una giovane amata a cagione della sua bellezza, per secondare la inclinazione di colui che procura di farle perdere sì pregevole qualità? Io nacqui libera, e per vivere tale ho scelto la solitudine della campagna; gli alberi di questi boschi sono i compagni miei; mio specchio le chiare acque di questi rivi, e mi contento di comunicare agli alberi ed alle acque i miei pensieri: fate conto ch’io sia fuoco lontano, e spada rimota. Ho disingannati con le mie parole quelli che innamorai colla vista: e se è vero che i desiderii alimentansi di speranze, non avendone io data mai nessuna nè a Grisostomo nè a verun altro, ben si può dire che non fu la crudeltà mia quella che gli ha perduti, ma la loro ostinazione. Se poi qualcuno volesse imputarmi che oneste erano le inclinazioni di lui, e che perciò io fossi obbligata di corrispondergli, dichiaro che quando in questo sito medesimo, dove ora state scavando il suo sepolcro, mi scoprì la rettitudine delle sue intenzioni, io gli risposi ch’ero deliberata di vivere in una perpetua solitudine, e che la sola terra cogliesse il frutto delle mie conversazioni e le spoglie della mia bellezza. Che se, ad onta di sì chiaro disinganno, gli piacque ostinarsi contro la speranza, e navigar contro il vento, qual maraviglia ch’egli sia naufragato nel golfo della sua imprudenza? Se io lo avessi tenuto a parole sarei stata falsa: se avessi accondisceso a’ suoi voleri avrei mancato al mio migliore divisamento. Egli disingannato ostinossi, e senza essere odiato si diede alla disperazione. Vedete pertanto se sarebbe ragionevole l’incolparmi di quanto egli sofferse. Si dolga chi fu ingannato; si disperi colui che si trovò deluso nelle promesse speranze; mi accusi chi può dire di essere stato sedotto da me; ma nessuno mi dica crudele nè micidiale di un uomo cui nulla ho promesso, che da me non fu mai ingannato, nè ebbe mai accoglimenti e carezze. Non volle finora Iddio rendermi amante per destino, ed io sarò sempre scusata se amar non voglio per elezione. Serva questa lezione di disinganno a tutti coloro che mi vanno sollecitando ad amarli, e sappiano che se alcuno per me avesse a morire, non morrà per colpa di gelosia o di disprezzo; mentre chi non ama veruno non può dar gelosia a veruno, e non debbono i disinganni tenersi in conto di sdegni o di disprezzi. Chi trova in me una fiera, un basilico, un essere pregiudizievole e tristo; chi mi chiama ingrata, non mi serva; non mi segua chi mi tien per crudele; perchè questa crudele, questa sconoscente, questa ingrata, questo basilisco non li chiamerà, non cercherà mai di loro, nè amerà mai d’averli vicino. Che se Grisostomo cadde vittima della sua intolleranza e del suo sconsigliato amore, perchè ho io ad essere incolpata di un procedere che non declinò punto nè poco dalla onestà e dal riguardo? Se io conservo fra queste romite piante la mia purità, qual ragione ha mai di dolersi chi vorrebbe ch’io la perdessi conversando cogli uomini? Io, come sapete, ho ricchezze mie proprie, nè bramo quelle degli altri: libera è la mia condizione, e non voglio rendermi soggetta a chicchessia: non amo, nè odio alcuno; non inganno questo, nè istigo quello; non burlo uno, nè mi do buon tempo con l’altro: l’onesta conversazione con le abitatrici di queste selve, e la custodia delle mie capre formano il soggetto de’ miei passatempi; tra questi dirupi si confinano i miei desiderii, e se da essi si allontanano, nol fanno che per contemplare la bellezza del cielo: cose tutte che guidano l’anima alla felicità cui unicamente anela„.
Nel proferire quest’ultime parole senz’attendere o udire risposta alcuna, volse a tutti le spalle, e si cacciò nel più folto d’una selva alla cima di un monte, lasciando stupidi tutti tanto della saviezza del suo ragionamento quanto della bellezza che l’adornava. Alcuni feriti dagli strali de’ suoi begli occhi mostravano di volerla seguire rifiutando di mettere a profitto quel disinganno che avevano udito; ma don Chisciotte che se ne avvide, sembrandogli che fosse questa un’occasione di mettere in campo la sua cavalleria soccorrendo le donzelle che ne han d’uopo, posta la mano sull’impugnatura della sua spada disse con alta voce e ben intesa da’ circostanti: “Non vi sia persona (qualunque possa essere il suo stato e la sua condizione) che ardisca di tener dietro alla vezzosa Marcella, o sappia che incontrerà il furibondo mio sdegno. Essa provò abbastanza con chiare ragioni, che poca o nessuna colpa se le può dare per la morte di Grisostomo, e ch’è affatto aliena dal condiscendere alle brame di veruno de’ suoi amanti; e perciò trovo giusto, che in vece d’essere inseguita o perseguitata, le sia dovuto onore ed estimazione da tutti i buoni di questo mondo, nel quale essa sola oramai fa professione di sì onesti principii„.
O fosse per le minacce di don Chisciotte, o perchè Ambrogio raccomandò allora che si compisse l’ufficio funebre all’amico, nessuno de’ pastori si mosse, nè di là si tolse prima che, scavato il sepolcro e abbruciate le carte di Grisostomo, avessero sotterrato il suo corpo non senza larghissimo pianto. Chiusero la sepoltura con un gran sasso, fin tanto che fosse apparecchiato il marmo che, a quanto disse Ambrogio, stavasi lavorando, e sopra il quale dovea leggersi il seguente epitaffio:
“Giace qui la misera e fredda spoglia di un amante che fu pastore d’armenti e finì per colpa di amore2.
“Egli morì sotto i colpi del rigore di una bella schifiltosa ed ingrata, per la quale amore va ampliando il suo imperio„.
Furono poi sparsi sulla sepoltura fiori e ramoscelli di varie piante, e, dato sfogo alle condoglianze coll’amico Ambrogio, di là si partirono. Lo stesso fecero Vivaldo e il suo compagno; e don Chisciotte si divise da’ suoi ospiti e dai passaggieri, i quali però lo pregarono di andar con loro fino a Siviglia, perchè in ogni strada e quasi in ogni angolo avrebbe potuto trovar avventure piucchè in verun altro paese. Don Chisciotte ringraziò dell’avvertimento, e si mostrò
obbligato della buona volontà che avevano di favorirlo; ma soggiunse che per allora nè potea nè dovea recarsi a Siviglia, mentre era suo debito di snidare da quelle montagne tutti gli assassini de’ quali correa voce che fossero piene zeppe. Persuasi di questa sua eroica risoluzione non lo importunarono di vantaggio, ma preso da lui nuovamente commiato lo lasciarono e proseguirono il loro viaggio, ragionando tuttavia sulla storia di Marcella e di Grisostomo, siccome ancora sulle pazzie di don Chisciotte. Questi intanto, mosso in traccia di Marcella, voleva esibirsi interamente a’ suoi servigi, ma non potè poi eseguire questo suo disegno, secondochè nella continuazione di questa verace storia trovasi scritto.
Note
- ↑ Tullia fu moglie di Tarquinio e figliuola di Servio Tullio di cui calpestò il cadavere. L’autore scrisse probabilmente questo capitolo mentre era in prigione senza il soccorso de’ suoi libri, e la memoria gli fece inganno.
- ↑
Que fue pastor de ganado
Perdido por desamor.Vi è in questi versi un insipido giuoco di parole fra ganado e perdido; perchè questa significa perduto, e l’altra vuol dire armento ed anche guadagnato.