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capitolo xv. 131


Panza, replicò don Chisciotte, che non v’è reminescenza la quale non venga cancellata dal tempo, nè dolore a cui la morte non metta fine. — E qual maggiore sventura, replicò Panza, di quella che ha bisogno del tempo per essere cancellata dalla memoria, o della morte per esser tolta? Se la presente nostra disgrazia fosse di quelle che si guariscono con qualche poco di empiastro, non vi saria tanto male; ma io vado pensando che non basteranno gli empiastri di un intero spedale al nostro risanamento. — Non ti affliggere per questo, ma tenta, Sancio mio, di vincere la sventura, ch’io pure farò lo stesso; e vediamo intanto come sta Ronzinante; chè, a quanto mi sembra, non toccò al poveretto la parte minore di questa nostra disavventura. — Di lui non mi meraviglio, rispose Sancio, essendo egli pure cavaliere errante; mi meraviglio bene che il mio asino l’abbia scappata colle costole sane, quando noi l’abbiamo finita colle costole rotte. — La ventura lascia sempre un uscio aperto al rimedio nelle disgrazie, disse don Chisciotte; e voglio con ciò inferire che questa bestiuola potrà per ora fare le veci di Ronzinante, portandomi di qua fino a qualche castello dove curare le mie ferite. Nè io mi recherò a disonore l’usare di tale cavalcatura, avendo letto che quel buon vecchio Sileno, aio e pedagogo del giovane Dio della letizia, quando entrò nella città dalle cento porte se n’andava a proprio talento, cavalcando un bellissimo asino. — Sarà vero, disse Sancio, ch’egli se n’andasse come dice vossignoria, ma passa una gran differenza dal cavalcare un asino allo starvi sopra come un sacco di cenci„. E don Chisciotte: — Le ferite che si ricevono nelle battaglie recano più onore che vergogna; perciò, amico Panza, non replicar oltre, ma, come ti ho detto poc’anzi, alzati il meglio che puoi, stendimi nella maniera che ti sembra più acconcia attraverso del tuo giumento, e partiamci da questo luogo prima che ci colga la notte, e ci vengano ad assassinare in questo deserto. — Eppure io intesi dire da vostra signoria, replicò Panza, ch’è proprio de’ cavalieri erranti il dormire in boscaglie e in deserti per la maggior parte dell’anno, e che se lo recano a gran ventura. — Ciò avviene, disse don Chisciotte, quando non possono fare diversamente, o quando sono innamorati; e questo è tanto vero, che vi fu un cavaliere il quale se ne stette sopra una balza esposto alla sferza del sole, all’ombra ed alle inclemenze del cielo per due anni interi senza saputa della sua signora: ed uno di questi fu Amadigi quando facendosi chiamare Beltenebro, si mise a stare nella balza di Pegnapobre, non so se ott’anni od otto mesi, che di ciò non mi sovviene precisamente; fatto sta ch’egli vi dimorò, facendo la penitenza di non so quale rabbuffo avuto dalla signora Oriana. Ma lasciamo questo da parte, ed allestisci il giumento e Ronzinante, prima che altro ci avvenga di male.