Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XIII
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XIII.
In cui si finisce il racconto delle vicende di Marcella, con altri avvenimenti.
Non aveano camminato un quarto di lega quando all’attraversar di un viottolo videro venire alla lor volta sei pastori vestiti con pelliccie nere, portando in testa una ghirlanda tessuta di cipresso e d’oleandro. Teneva ognuno di essi in mano un grosso bastone di sorbo, e li seguitavano due gentiluomini a cavallo vestiti sfarzosamente da viaggio, con tre servitori a piedi. Quando furono insieme, reciprocamente si fecero cortesi saluti; domandaronsi a vicenda a qual parte fossero diretti, e poichè tutti si avviavano al luogo del funerale, procedettero in numerosa compagnia. Uno di quelli ch’era a cavallo, parlando col suo compagno, disse: — Parmi, signor Vivaldo, che sarà bene impiegato il tempo che occuperemo in assistere a questo famoso mortorio; chè tale sarà certamente considerando quello che ci hanno detto cotesti uomini delle tanto straordinarie cose toccanti sì il pastore defunto come la pastorella omicida. — Sono io pure dello stesso avviso, rispose Vivaldo, e vi assicuro che a tal oggetto consacrerei, occorrendo, ben quattro giorni non che uno solo. Domandò loro don Chisciotte che cosa aveano inteso di Marcella e di Grisostomo; e quel medesimo viaggiatore rispose che incontratisi quella mattina in alcuni pastori, e chiestili della cagione di quel funereo abbigliamento, uno di essi avea raccontata la stravaganza e la bellezza di una pastorella, nominata Marcella, e gli amori di molti che la vagheggiavano, con la morte di quel Grisostomo che recavansi a veder sotterrare. Infine egli replicò il racconto fatto prima da Pietro a don Chisciotte.
Da questo passarono ad altro discorso, chiedendo colui che si chiamava Vivaldo a don Chisciotte, perchè andasse armato a quella foggia in sì pacifica terra. A cui don Chisciotte rispose: “La professione a cui mi son dato non mi consente nè mi permette di vestire altrimenti. Il passo agiato, i piaceri, il riposo sono fatti soltanto pei dilicati cortigiani; ma il travaglio, la inquietudine e l’arme s’inventarono e sono proprie di quelli che vengono chiamati dal mondo cavalieri erranti, de’ quali io, benchè indegno, sono il minore di tutti„. Non l’ebbero appena sentito parlare in questo modo che lo tennero per uomo scemo; e per accertarsene maggiormente e conoscere il genere della sua pazzia, tornò a domandargli Vivaldo che cosa fosse un cavaliere errante.
“Non hanno le signorie loro, rispose don Chisciotte, letto mai gli annali e le storie d’Inghilterra, che narrano le celebri imprese del re Arturo, comunemente nel nostro volgare castigliano chiamato il re Artus? il quale è tradizione universale in tutta la gran Brettagna che non morì, ma che per arte magica fu convertito in corvo, e che risalendo col volger dei tempi sul trono riprenderà il suo scettro? E in prova di questo non si è mai dato il caso che nessun Inglese dopo d’allora uccidesse un corvo1. Al tempo dunque di questo buon re fu istituito quel famoso ordine di cavalleria, chiamato della Tavola Rotonda2, e vi accaddero, cosa vera, gli amori che si raccontano di don Lancilotto del Lago con la regina Ginevra, dei quali fu consapevole e mezzana quell’ornatissima matrona, chiamata donna Chintagnona. Nacque su tal fondamento quella canzone sì celebre, e cantata sì di frequente nella nostra Spagna:
Non fu al mondo cavaliere |
con quel sì dolce e soave progresso de’ suoi amori e delle sue formidabili imprese. Da allora in qua si andò poi sempre più dilatando quell’ordine di cavalleria per diverse parti del mondo, e in essa si resero celebri e conosciuti per le loro geste il valoroso Amadigi di Gaula con tutti i figli e nipoti suoi fino alla quinta generazione, ed il prode Felismarte d’Ircania, il non mai celebrato abbastanza Tirante il Bianco, e colui che quasi fin a’ giorni nostri abbiamo veduto, trattato ed udito, l’invincibile e valente cavaliere don Belianigi di Grecia. Questo, o signori, è l’essere vero cavaliere errante, questo è l’ordine di cavalleria da me poc’anzi accennato, nella quale, benchè peccatore, ho fatto la professione, e mi esercito allo stesso modo dei cavalieri soprannarrati. Io dunque me ne vado errando per queste solitudini e deserti in traccia di avventure, con deliberato animo di offrire il mio braccio e la mia persona ai cimenti più perigliosi che mi presenti la sorte per soccorrere i deboli, e chiunque cui fia necessario il mio ministerio„.
Uditi tali ragionamenti, finirono di assicurarsi quei passeggeri che don Chisciotte era uscito del senno, e conobbero il genere di follia che lo dominava, di che restarono maravigliati come accadeva a tutti coloro che per la prima volta se ne accorgevano. Vivaldo, come uomo di molto buon senso e faceto, per rallegrare il cammino che ancor rimaneva al sito del mortorio, diede eccitamento ai pazzi discorsi di don Chisciotte, dicendogli: “Sembrami, signor cavaliere errante, che vossignoria siasi dedicata ad una delle più rigorose professioni di tutto il mondo, e sono di avviso che non sia altrettanto stretta quella dei Certosini. — Ben potrebb’essere altrettanto stretta, rispose il nostro don Chisciotte; ma sono a due dita dal porre in dubbio s’ella sia altrettanto necessaria al mondo; perchè, se debbo dire il vero, il soldato che eseguisce gli ordini del suo capitano non fa meno del capitano stesso il quale comanda: e voglio inferire che i religiosi con tutta pace e tranquillità implorano il cielo propizio alla terra; ma noi soldati e cavalieri, noi mettiamo in esecuzione ciò ch’essi domandan pregando, poichè difendiamo la terra col valore delle nostre braccia e col filo delle nostre spade; nè già in luogo chiuso, ma a cielo scoperto, esponendoci agli ardori più cocenti e insoffribili della state, non meno che ai più rigidi geli del verno. Così possiamo chiamarci ministri di Dio qui in terra; e siamo le braccia per le quali si eseguisce la sua giustizia; e siccome le cose della guerra, e quanto ha relazione con esse non possono effettuarsi se non con sudori, affanni ed eccessivi travagli, perciò ne segue che chi la professa si affatica senza confronto più di coloro che tranquilli e riposati pregano Dio di soccorrere chi è da poco e meschino. Non voglio dire, nè mi passa pur pel pensiere, che sia meritoria egualmente la condizione del cavaliere errante, come quella del religioso claustrale; ma intendo concludere, per quel molto che soffro, che sia molto più travagliosa, affamata, assetata, piena di miserie, stracciata e pidocchiosa: mentre, non v’ha dubbio, che i cavalieri erranti, i quali già furono, non abbiano passato in mezzo ai guai il corso della loro vita. E se alcuni giunsero a divenire imperadori3 mercè il valore del loro braccio, affè che lo guadagnarono a prezzo di sangue e di sudore, e se a quelli che salirono a sì alto grado fossero mancati incantatori e savii per prestar loro ogni aiuto, vi so ben dire che sarebbero rimasti defraudati ne’ lor desiderii ed ingannati a partito nelle loro speranze. — Sono della vostra opinione ancor io, replicò il passeggero, ma una cosa che fra molte altre mi sembra mal fatta da’ cavalieri erranti, si è che quando stanno per mettersi in qualche evidente pericolo della vita, sul punto più importante non si sovvengono mai di raccomandarsi a Dio, come dovrebbe pur fare ogni buon cristiano in simiglianti pericoli; ed invocano in cambio le loro signore con tanto fervore e con sì gran devozione come se fossero altrettante deità: cosa che a mio parere pizzica di gentilesimo4. — Non può essere altrimenti, rispose don Chisciotte: e quel cavaliere che diversamente operasse, cadrebbe in mala ventura; mentre è pratica e costumanza della errante cavalleria, che il cavaliere nel cimentarsi a qualche gran fatto d’arme debba tenersi presente la sua signora, a lei dolcemente e con amorosa intenzione rivolgere gli occhi, e a lei chiedere soccorso e favore nel dubbioso evento che va ad incontrare; e quand’anche non v’abbia chi lo ascolti è almeno obbligato a proferire alcune parole fra’ denti colle quali di tutto cuore se le raccomandi a lei, di che abbiamo nelle storie innumerabili esempi. Nè perciò s’ha da intendere che debbano tralasciare di raccomandarsi a Dio; chè resta loro tempo ed agio di farlo nel corso della ventura5. — Ad onta di tutto questo, replicò il passaggero, mi resta uno scrupolo, ed è che sovente ho letto come vengono a parole fra loro due erranti cavalieri, e che d’una in un’altra si accendono, sbuffano, voltano i cavalli, pigliano il campo, e prima di venire a scontrarsi, alla metà della corsa si raccomandano alle loro signore; ciò poi che suole accadere in simili incontri si è che uno cade rovescione dal suo cavallo passato fuor fuora dalla lancia nemica, e l’altro, se non s’attiene alla chioma, stramazza egli pure sul fatto. Ora domando io, come potè quello ch’è morto trovar il tempo da raccomandarsi a Dio in uno scontro tanto precipitoso? Sarebbe stato assai meglio che le parole indirizzate nella sua carriera alla signora, le avesse rivolte a chi è tenuto di volgerle ogni buon cristiano; tanto più ch’io mi penso che non tutti i cavalieri erranti abbiano signore alle quali raccomandarsi: perchè non tutti saranno innamorati. — Ciò non può essere, rispose don Chisciotte, e ripeto che non può essere che siavi errante cavaliere senza la dama, mentre è sì proprio e naturale a loro di essere innamorati come al cielo di brillare di stelle; ed io sono sicurissimo che non vi ha notizia d’alcun cavaliere errante senza amori: nel qual caso non sarebbe egli tenuto per legittimo cavaliere, ma per bastardo; e si direbbe ch’entrò nella fortezza della cavalleria, non per la porta, ma per le muraglie a guisa di ladro e di assassino6. — Eppure a fronte di tutto ciò, soggiunse il passeggero, sembrami, se male non mi ricordo, di aver letto che don Galaorre, fratello del valoroso don Amadigi di Gaula, non trovò donna cui dichiarar sua signora ed a cui raccomandarsi, e non pertanto fu tenuto in gran conto, e meritò il grado e l’onore di celebre e valoroso cavaliere„. Rispose don Chisciotte: “Signor mio, un fiore non fa primavera; e poi io so che segretamente era innamoratissimo, e per sopra più avea una naturale inclinazione ad amare tutte le donne che gli andavano a grado; ma in sostanza è poi provatissimo ch’egli n’ebbe una sola dominatrice della sua volontà, cui raccomandavasi bene spesso, e in gran segretezza, perchè si pregiò di essere cavaliere segreto. — Se dunque è cosa essenziale, soggiunse l’altro, che ogni cavaliere errante debba essere innamorato, dobbiamo perciò concludere che lo sia pure la signoria vostra, come uno della professione; e s’ella non ambisce di essere tanto segreto quanto don Galaorre, la prego con ogni istanza, anche a nome di quanti sono in questa compagnia, che ci palesi il nome, la patria, le qualità e la bellezza della sua signora; la quale, senza dubbio, avrà caro che il mondo intero sappia ch’è amata e servita da un cavaliere di sì alta portata, come vostra signoria mostra di essere„. A questo punto don Chisciotte mandò un profondo sospiro e disse: “Io non posso affermare se alla mia dolce nemica piaccia o no che si sappia dal mondo ch’ella è da me servita; so dir solamente, rispondendo a quello di cui tanto caldamente sono richiesto, che il suo nome è Dulcinea, la sua patria il Toboso, villaggio della Mancia, e la sua condizione debb’essere per lo meno quella di principessa, essendo signora e regina mia; sovrumana poi è la sua bellezza, giacchè sono veri e reali in lei tutti gl’impossibili e chimerici attributi della perfezione che i poeti attribuiscono alle loro amanti; e sono oro i capelli, è un eliso la fronte, archibaleni le ciglia, due soli gli occhi, rose le guance, coralli i labbri, perle i denti, alabastro il collo, avorio le mani, neve la bianchezza... — Il lignaggio, la prosapia e l’origine desideriamo saperne, disse Vivaldo. Al che don Chisciotte rispose: “Non è costei degli antichi Curzi, Cai, o Scipioni romani, nè dei moderni Colonna e Orsini; nè dei Moncada e Recheseni di Catalogna; nè dei Rebelle e Viglianuova di Valenza, dei Palafox, Nuzze, Roccaberti, Coreglie, Lune, Magona, Urèe, Foz e Guerree di Aragona; dei Zerde, Maurichi, Mendoza e Guzmani di Castiglia; dei Alencastri, Paglie e Menessi di Portogallo; ma discende da quelli del Toboso della Mancia, lignaggio moderno bensì, ma pur tale da dar principio alle più illustri famiglie de’ secoli avvenire. Nè vi sia chi osi contraddirmi se non a patto di quello che Zerbino appiè del trofeo delle armi di Orlando scrisse in questi termini:
Nessun le muova, |
Sebbene il mio casato sia de’ Caccioppini7 di Laredo, disse allora il passaggero, non oserei di porlo a petto di quello del Toboso della Mancia, ad onta che mi sia ignoto interamente. — Come ignoto? replicò don Chisciotte.
Stavansene gli altri tutti ascoltando con somma attenzione questi discorsi in forza dei quali fino gli stessi caprai e pastori conobbero che il nostro don Chisciotte era pazzo dichiarato. Il solo Sancio Panza tenea per vero quanto dicevasi dal suo padrone, sapendo chi egli era, ed avendolo conosciuto fin dal suo nascere. Metteva tutt’al più qualche dubbio nel credere tante rare cose intorno alla bella Dulcinea del Toboso, mentre da che era al mondo, non avea mai udito nominare una tal principessa, benchè fosse vissuto sempre vicinissimo al Toboso.
Viaggiavano pertanto trattenendosi in questi colloqui allorchè videro discendere dalla sommità di due alte montagne circa venti pastori, tutti vestiti con pellicce di lana nera, e coronati di ghirlande, che poi si conobbe essere di tiglio e di cipresso. Sei di costoro portavano una bara coperta con fiori e con rami di varie sorta; ed uno de’ caprai ciò vedendo si fece a dire: “Quelli che vengono da quella parte trasportano il corpo di Grisostomo, ed il sito dov’egli comandò di essere seppellito è alle falde di quella montagna„. Allora affrettaronsi tutti a raggiungerli, e arrivarono appunto quando quelli che venivano aveano deposta la bara; e già quattro pastori con acuti picconi di ferro stavano scavando la sepoltura ai piedi dell’alpestre balza. Fecero gli uni agli altri cortese accoglimento, e mettendosi don Chisciotte co’ suoi compagni ad esaminare la bara, vide in essa giacere coperto un corpo morto inghirlandato di fiori, in abito di pastore, dell’età, a quanto pareva, di trent’anni, e tuttochè morto, mostrava di avere avuto un bell’aspetto ed una gagliarda complessione. D’intorno a lui sulla bara stavano alquanti libri e molte carte aperte e suggellate.
Quelli che si trovavano presenti, come gli altri che stavano scavando la sepoltura, senza distrarsi dalle loro incombenze serbavano un maraviglioso silenzio, finchè uno di quelli che aveva portato il defunto disse ad un altro: “Esamina bene, o Ambrogio, se questo è il sito indicato da Grisostomo, giacchè bramo che si adempia con ogni esattezza quanto egli comandò col suo testamento. — È appunto questo, rispose Ambrogio, avendomi qui lo sventurato amico raccontata parecchie volte la storia delle sue disgrazie. Qui, mi diceva, fu dove per la prima volta giunsi a vedere quella nemica del genere umano; qui le dichiarai per la prima volta la mia intenzione tanto onesta quanto il mio amore; e fu in questo luogo dove l’ultima volta Marcella disingannadolo, finì di metterlo alla disperazione, ond’è ch’egli pose fine alla dolorosa tragedia della infelice sua vita. Qui dunque in memoria di tante sventure amò egli di esser sotterrato nel seno dell’eterno obblio. Volgendosi poscia a don Chisciotte ed ai passaggeri, proseguì dicendo: “Questa spoglia che state pietosamente mirando fu già albergo di un’anima in cui il cielo avea posta gran parte di sue ricchezze; questo è il corpo di Grisostomo, che unico fu nell’ingegno, solo nella cortesia, inarrivabile nella gentilezza, fenice nell’amicizia, splendido senza misura, grave senza albagia, di allegro umore senza bassezza, e finalmente primo in tutto ciò che vi può essere di buono, e senza pari in tutto ciò che può darsi di sventurato. Amò e fu abborrito, adorando fu discacciato, porse voti a una fiera, percosse un marmo, corse dietro ad un’ombra, parlò a chi non voleva udirlo, si fece servo all’ingratitudine; e fu suo premio diventar preda della morte in mezzo al cammino della vita, rapitagli da una femmina ch’egli tentava di rendere cosa immortale nella memoria de’ posteri, come ne farebbero prova queste carte che qui vedete, s’egli non m’avesse ingiunto di darle alle fiamme, tostochè avrò posta sotterra la sua mortale spoglia.
— Voi sareste ben più crudele, disse Vivaldo, dello stesso loro signore, se le abbruciaste, non essendo ragionevole l’eseguire i voleri di chi nei comandi suoi non serba ragionevolezza. Sarebbe stato da rimproverarsi Cesare Augusto se avesse consentito che fosse eseguita la volontà spiegata dal divin Mantovano nel suo testamento; perciò, o Ambrogio, giacchè dovete pur dare il corpo dell’amico vostro alla terra, non vogliate abbandonare alla obblivione i suoi scritti: che s’egli ordinò come offeso, staria male che voi obbediste come indiscreto. Nel preservare questi fogli voi renderete eterna la crudeltà di Marcella, e servirà di esempio ai posteri affinchè evitino di cadere in simili disavventure. Io, e quanti qui siamo, già conosciamo la storia di questo amante, e vostro disperato amico; ci son noti i legami che a lui vi stringono, e palese ci è pure la causa della sua morte e la volontà da lui dichiarata nel terminar della vita. Dalla sua compassionevole storia si potrà conoscere a qual grado fosse giunta la crudeltà di Marcella, l’amore di Grisostomo, la grandezza della leale vostra amicizia, e qual fine possano attendersi quelli che si abbandonano ciecamente ai terribili funesti effetti di un amore non corrisposto. Pervenne ieri notte a nostra notizia la morte di Grisostomo, e che qui doveasi sotterrarlo, e ciò mosse la nostra curiosità, e la compassione ci ha fatto torcere dal proposto sentiero per condurci a vedere co’ nostri proprii occhi quanto, pur raccontato, ci era stato cagione di tanto cordoglio. In guiderdone pertanto di questa nostra afflizione, e del desiderio che avemmo di porger rimedio a questa sciagura, vi preghiamo, o prudente Ambrogio, od almeno io ve ne supplico per parte mia, che non si mandino alle fiamme queste carte, e se non altro lasciate che una sola io ne conservi„. E senza attendere la risposta, allungò la mano, e prese alcuni di que’ fogli che gli erano più da vicino.
Vedendo ciò Ambrogio, gli disse: “Consentirò per sola urbanità di lasciarvi, o signore, que’ fogli che avete presi; ma ch’io tralasci di dare al fuoco gli altri che restano, me ne consigliate inutilmente. Vivaldo, che bramava di vedere il loro contenuto, ne aperse uno sul fatto, e ne lesse il titolo: Lamento di un disperato. Lo udì Ambrogio e disse: “Quest’è l’ultimo scritto di quell’infelice; e perchè sia conosciuto, signore, a qual segno erano giunte le sue disgrazie, leggetelo ad alta voce, chè ne avrete il tempo, mentre chè noi attendiamo a scavare la sepoltura.
— Così farò ben volentieri, disse Vivaldo; e siccome gli astanti tutti avevano un ugual desiderio, se gli fecero attorno, ed egli a chiara voce lesse lo scritto che diceva così:
Note
- ↑ Nel capitolo XCIX del romanzo di Splandiano raccontasi che la fata Morgana, sorella del re Arturo, lo tiene nascosto per incantesimo; ma che senza fallo tornerà ad occupare il suo trono. Sul suo sepolcro, al dire di don Diego de Vera (Epitome de los imperios), erasi scolpito questo verso: Hic jacet Arturus rex quondam rexque futurus. E Giuliano del Castillo (Historia de los reges godos) riferisce un aneddoto allora popolare, che Filippo II sposando la regina Maria giurasse di restituire il trono al re Arturo se mai risuscitasse a’ suoi giorni. Finalmente il dottore John Bowle nelle note al don Chisciotte riferisce una legge con cui Oelio il Buono re di Galles nel 998 proibì di uccidere corvi sull’altrui terreno: e da questa legge e dalla tradizione che Arturo fosse stato convertito in un corvo, potè nascere la tradizione popolare, che gl’Inglesi si astenessero dall’uccidere questi uccelli per timore di uccidere l’antico loro re.
- ↑ L’ordine della Tavola Rotonda componevasi di ventiquattro cavalieri presieduti dal re. Potevano appartenervi anche gli stranieri, fra i quali constavasi Orlando con altri paladini di Francia. Fra Diego de Vera, citato poc’anzi, racconta che al tempo del matrimonio di Filippo II colla regina Maria mostravasi ancora in Hunscrit la Tavola Rotonda costrutta da Merlino: ch’essa era composta di venticinque compartimenti le cui punte univano nel centro: in ciascuno di questi compartimenti era scritto il nome del cavaliere a cui era destinato e quello del re: uno poi detto il luogo di Giuda o il seggio pericoloso, restava sempre vôto.
- ↑ Secondo i romanzi Rinaldo di Montalbano diventò imperatore di Trebisonda; Bernardo del Carpio, re d’Irlanda; Palmerino d’Oliva, imperatore di Costantinopoli; Tirante il Bianco, cesare dell’imperio greco, ec.
- ↑ “Tirante il Bianco non soleva invocare alcun santo, ma solamente il nome di Carmesina; e quando era domandato perchè non invocasse anche il nome di qualche santo, rispondeva: — Chi serve a molti, non serve a nessuno„. (Lib. III, c. 28).
- ↑ Così quando Tristano si precipita da una torre nel mare si raccomanda all’amica Isotta ed al suo dolce Redentore.
- ↑ L’art. 31 degli Statuti dell’Ordine della Ciarpa diceva: “Nessun cavaliere della Ciarpa sia senza una dama a cui servire, non per disonorarla, ma per corteggiarla e sposarla. E quando ella uscirà in pubblico, egli la accompagni a piedi od a cavallo, tenendo in mano il proprio berretto e piegando per riverenza il ginocchio„.
- ↑ Davasi allora tal nome popolarmente a quegli Spagnuoli che per povertà o per abitudine di vivere vagabondi passavano nell’America.