Discorsi (Guicciardini)/II. Sullo stesso argomento

II. Sullo stesso argomento

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I. Del modo di eleggere gli uffici nel Consiglio grande III. La decima scalata

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II

[Sullo stesso argomento].

In contrario.

Io sono di opinione molto diversa, prestantissimi cittadini, che non solo non sia pericolo che voi usiate troppo licenziosamente questa vostra libertá, ma piú tosto che siate da essere imputati che voi vi governate bene spesso con troppo rispetto e con troppa modestia, e che gli intervenga a voi come a uno che è stato lungamente in servitú, che benché gli sia renduto la libertá, nondimanco può tanto in lui l’abito del servire, che procede nelle azione sue timidamente e con lo animo abietto, ritenendo ancora la memoria ed e’ vestigi della antica servitú. E perché voi per grazia di Dio non solo avete la libertá, ma ancora imperio e dominio in altri, vi si conviene assuefarvi alla grandezza e generositá; e però è officio di quegli cittadini che amano la libertá e l’onore vostro, non invilirvi e ritirarvi, e cercare di farvi continuare ne’ costumi della servitú, e confortarvi, sotto nome di modestia e di rispetto, alla timiditá ed abiezione; ma per el contrario consigliarvi, eccitarvi, stimolarvi che pigliate quello spirito eccelso e quello vigore generoso che si conviene a chi è padrone e principe di tanto dominio.

Non può negare, prestantissimi consiglieri, chi contradice a questa provisione, che non si convenga che tutti e’ cittadini participino degli onori ed utili che può dare questa republica; [p. 187 modifica] perché è necessario o volere che quegli che si escludono non siano cittadini, o bisogna che siano trattati come gli altri cittadini; altrimenti se e’commodi ed onori non fussino universali, sarebbe come se una parte della cittá fussi in dominio, l’altra fussi in servitú. Per il che non solo sarebbono privati di quello che ragionevolmente se gli appartiene, ma ancora si verrebbe a alterare ed indebolire quella sicurtá ed equalitá di vivere sotto le medesime legge e magistrati, per la quale è stato detto che furono trovate le libertá; perché se tra alcuni girassino sempre e’ magistrati ed el governo, gli altri non ne sentissino mai, chi dubita che la riputazione e la grandezza sarebbe in quegli, e che le cose loro sarebbono ne’ giudici e ne’ magistrati trattate con grandissimo rispetto, in modo che in ogni caso sarebbe tra una sorte di uomini ed1 una altra grandissimo disa vantaggio? Però chi bene considera, questi duoi fini non si possono separare, ma sono connessi in maniera che non si può mancare dell’uno, che l’altro non ne patisca assai; e se questa participazione e, per dire cosi, comnninicazione è ragionevole e giusta in ogni libertá, molto piú sará nella nostra, perché una parte grande di noi siamo stati giá sessanta anni esclusi per violenzia, si può dire, da quasi tutte le degnitá ed emolumenti, in modo che non solo è giusto che ora abbiamo la parte nostra, ma sarebbe ancora giusto che noi ora participassimo tanto piú che gli altri, che ci ragguagliassimo del tempo passato. A che nondimeno io non conforto le Prestanzie vostre, per non destare le discordie nella cittá, ma appruovo la modestia vostra, che voi vi contentiate, lasciata la memoria del passato, avere di presente la vostra parte, ed in questo è laudabile la modestia; ma non si vuole giá lasciarsi dare ad intendere che sotto spezie di bene, lasciate tórvi la parte vostra, perché questa sarebbe timiditá ed abiezione, ed uno segno che voi non cognoscessi ancora interamente di essere tornati in libertá.

Che sia utile alla cittá che in magistrato siano persone [p. 188 modifica] sufficienti, io lo confessi; ma dico che anche è utile e ragionevole che come ognuno sente delle gravezze e degli incommodi, cosí ancora participi degli emolumenti e de’ commodi, perché questo è uno de’ fini sustanziali della libertá; e quando bisognassi patire uno de’ dua inconvenienti, o che e’ magistrati si dessino a persone che le cose non fussino bene governate, o mandargli stretti, la necessitá mi farebbe confessare che manco male è la strettezza; pure è male l’uno e l’altro, e però si debbe cercare di uno modo, el quale, se io non mi inganno, si può trovare facilmente, anzi è trovato, e che e’ magistrati non disordinino, e che ci sia una larghezza non sbracata, ma temperata e conveniente. Cosí l’uno rispetto comporterá l’altro, e nella cittá nostra sará quella armonia e concordanza di voce, con la quale dicono gli antichi che a imitazione della musica debbono essere temperate le republiche; e come si dice in proverbio, non sará una insalata di una erba sola, ma ci sará de omni genere musicorum; ed a quegli che sessanta anni continui aranno portato el basto, toccherá pure andare a cavallo la volta sua.

Dicono costoro che quando gli ufici si eleggono per le piú fave, che si danno a persone piú scelte, perché s’ha a reputare che meritino piú quegli in chi concorre el giudicio di piú numero; ed io confesserei el medesimo, se quegli che intervengono a eleggere, cioè gli uomini del consiglio, fussino tutti di una medesima qualitá e di uno medesimo grado, perché non ci sendo ragione particulare che gli avessi a fare variare, si potrebbe credere che fussi el meglio quello in chi concorressino e’ piú. Ma el difetto nasce che tutti noi che siamo del consiglio, non siamo di uno grado medesimo né abbiamo e’ medesimi fini; perché ci è una sorte di uomini, cioè quelli che sono dal quattro in su, che per essere piú ricchi, tenuti piú nobili, o che hanno fresca nello stato la riputazione de’ padri e degli avoli, pare loro che a loro propri si appartenga lo stato, e che e’ nostri pari cioè el tre, dua, asso, non meritino le degnitá; ma che ci dobbiamo contentare con qualche uficiuzzo, e del resto portare la soma come abbiamo fatto per el passato. [p. 189 modifica]

Questi tali hanno nel capo e’ modi degli squittiní e le distinzione che si facevano tra e’ 14 e gli 11 ufici, ed el mazzocchio; e sono in maniera abituati in quegli ordini tirannici, che gli pare giusto che le cose si governino in futuro con quegli stili, e che chi non è di quello cerchio, o di qualche casa tenuta tanto nobile che non se gli può negare non sia capace delle degnitá che importano. Però tutti questi che a dire in una parola sono quegli che, non si ricordando che tutti siamo cittadini, pretendono avere piú qualitá che gli altri, si fanno favore tra loro medesimi quando vanno a partito, ed a’ nostri pari, cioè al tre, dua ed asso, non danno mai se non fave bianche; perché ancora che uno di noi fussi virtuosissimo, che fussi uno Aristotile o uno Salamone, presummono che uno uficio grande a darlo a lui perda di riputazione, e sia come imbrattarlo. Da altro canto noi altri, cioè e’ nostri pari non tengono e’ partiti a questi tali; anzi ci sono molti di noi, che non sendo ancora sgannati delle opinione ed abiti vecchi, pare loro che gli onori si convenghino piú a questi tali; e questa è la ragione vera che ancora che uno pare nostro sia d’assai e sufficiente a ogni impresa, nondimeno per le piú fave non ha mai nulla, se non forse qualche volta e bene di rado, per compassione o per disgrazia; perché bisogna che di necessitá le piú fave siano di questi dal quattro in su, che hanno favore da’ loro pari ed anche da noi altri; ma noi al piú abbiamo favore solamente da’nostri, e da loro tutte fave bianche.

Non è dunche la virtú, la prudenzia, la esperienzia che dia queste piú fave, ma è la nobilita, la roba, la reputazione de* padri e degli avoli; non è el beneficio della cittá, né perché e’ magistrati siano in mano di chi sa, ma l’aversi quasi appropriato lo stato con queste prosunzione ed opinione false. Sono ancora nel tre, dua, asso molti cittadini buoni, d’assai e valenti, cosí come nel sei, cinque e quattro, molti amatori della libertá quanto loro e forse piú che loro; perché noi non speriamo luogo se non in uno vivere libero, loro sperano d’avere in uno stato stretto ed apresso a’ tiranni parte come hanno [p. 190 modifica] avuto per el passato. E però se nello andare a partito s’avessi considerazione delle virtú solo e si ponessi da canto questi altri respetti, io confesserei che el giudicio delle piú fave sarebbe buono, né dubito che di ogni qualitá di uomini arebbono luogo; ma ci tengono affogati con queste loro nobilitá, con queste loro riputazione, che portano seco uno certo splendore, che ancora noi altri ne restiamo abbagliati. Però mi pare a proposito dirne qualche cosa, non in quello modo che n’hanno parlato molti scrittori, ma secondo e’ termini della cittá nostra e la natura del nostro vivere.

Costoro oggidí chiamano nobili, o per parlare co’ loro vocaboli, uomini da bene, non tanto quegli che sono antichi di sangue in questa cittá, che questo arebbe forse qualche ragione, quanto uno numero di case che da qualche tempo in qua hanno avuto uno certo corso piú che gli altri nello stato; anzi se ci è alcuna casa antica che sia diminuita di uomini o di roba, in modo che non paia mantenuta in quello splendore, costoro la chiamano intignata, e si sdegnano quasi di metterla nel numero suo, riponendola tra’ ferri rotti, come ripongono noi altri. Chi adunche considerrá in su che sia fondata questa loro nobilitá, non troverrá cagione alcuna di che s’abbino tanto a gloriare; perché se hanno avuto corso, è stato per prospera fortuna e per favore di tempi, ed el piú delle volte tirannici, o perché è stato tra loro qualche uomo ricco, che hanno avuto modo a imparentarsi altamente e nobilitarsi con la ricchezza; ed alcuni hanno acquistato favore da chi reggeva gli stati con cagione vergognose a dirlo. Però non la virtú ma ragione estraordinarie gli hanno tirati in questa altezza, delle quali voi non dovete tenere conto; e se e’ passati vostri sono stati cittadini modesti, ed atteso agli esercizi loro, né cercato di farsi innanzi con questi modi, non per questo siate da manco di loro né dovete avere minore parte nella cittá; anzi e’ vostri maggiori hanno fatto, quando è accaduto, bene alla republica e non mai male, come hanno fatto e’ maggiori di molti di loro, che sono stati ministri di stati stretti e si sono ingranditi con queste arte. Chiamano sé medesimi uomini da bene, [p. 191 modifica] come se noi fussimo uomini da male ed usi a rapinare ed opprimere gli altri, come hanno fatto molti di loro; alcuni ci sono che si reputano per el buono mantello che ha lasciato loro el padre e lo avolo, o per essere stato grande nello stato, o pure per essere stato uomo savio e buono, come se noi [non] sapessimo che spesso e’ figliuoli sono el contrario de’ padri, e che le virtú ed el cervello non vanno per ereditá, ma per ordine della natura o per volontá di Dio. Però come io non tengo piú conto, né stimo piú utili cittadini quegli, e’ maggiori di chi hanno avuto migliore fortuna che e’ maggiori miei, cosí se arò a dare o a tórre uno magistrato a uno, non debbo guardare se suo padre fu savio e virtuoso, ma quello che è lui, e se è simile al padre o allo avolo, fargli onore, e per memoria de’ suoi dargli anche qualche piú vantaggio che agli altri; ma se di altra sorte, tenerne minore conto, quanto gli è piú vergogna se non ha saputo imitare gli esempli buoni che ha in casa; né debbo comportare che si faccia onore di uno mantello che fu giá bello, ma ora è brutto perché lui medesimo bruttamente l’ha imbrattato.

Sono altri che per essere ricchi entrano in questo numero; cosa che non può essere piú disonesta, perché la ricchezza non solo è cosa che totalmente depende dalla fortuna, e domani può essere povero uno che oggi era ricco, ma molte volte è acquistata con usure o con altre arte inoneste e vituperose, e quegli che per avere guadagnato la roba ingiustamente meriterebbono essere puniti, a costoro pare debito che siano onorati, e quello che è peggio chiamati uomini da bene. Vedete dunche che le ragione per le quali a costoro pare meritare di essere preferiti alli altri, non sono fondate in sulle virtú, in su’ meriti, in sulla prudenzia, ma in cose di fortuna, di favori e di guadagni illeciti. E nondimanco noi siamosi grossi, che ne tegnamo piú conto che di noi medesimi, né ci accorgiamo che sendo nati in una cittá medesima, sendo questa patria di tutti, sendo noi abili agli ufici, non ricchezza, non favori, non migliore fortuna debbe fare distinzione tra noi, ma solo la virtú, la prudenzia, la bontá, lo amore alla cittá [p. 192 modifica] ed a questo governo. Però, prestantissimi consiglieri, bisognerebbe che ognuno che intervenissi in questo consiglio, posposte tutte le altre considerazioni, dessi le fave a chi fussi piú atto a governare; o veramente che noi del tre, dua, asso, facessimo come fanno loro, che non rendessimo fave se non a’ medesimi, che certo essendo maggiore numero che non sono loro, gli faremo presto accorgere che cosa sia favorire e’ suoi simili e disfavorire gli altri.

Ma perché el primo modo è impossibile perché loro non si rimuterebbono mai da quelle sue openione, el secondo potrebbe essere scandaloso e principio di dividere la cittá, chi desidera che noi stiamo uniti e che ognuno abbia parte, ha proposto questa provisione, la quale vincendosi, potrete sperare ancora voi di entrare qualche volta in quelle borse, e poi stare alla sorte. E nondiinanco e’ magistrati non andranno in mano di chi non sia sufficiente, perché a questi tali non saranno rendute le fave, ed aranno ogni di manco favore perché saranno meglio cognosciuti: né sará mai o rare volte che la metá del consiglio si inganni a giudicare sufficiente uno che non sia, né concorreranno tanti rispetti privati in uno, che gli possino fare avere tanto partito; anzi se ci sará disavantaggio, sará a vostro danno, perché molti di noi si lasciano spesso tanto abbagliare da queste loro condizione, che non considerano quanto bisogna la loro sufficienzia; dove a’ nostri pari non interverrá cosi, che se non saranno portati dalla virtú, non aggiugneranno mai a questo partito.

El levare dunche le piú fave non aprirrá la via agli insufficienti, ma leverá lo impedimento che oggi abbiamo noi altri per non avere tanta roba, tanta riputazione, tanti parenti quanti hanno loro. E certo, quando fussi anche vero che questo modo facessi piú larghezza, non se n’arebbe però a fare tanto romore, né temere che ne seguissi tanti disordini; perché e’ magistrati communemente non si danno a uno solo, ma a piú, nel numero de’ quali sará bene gran cosa che non vi sia una parte sufficiente alla quale gli altri deferiranno, e massime e’ nostri pari che fanno piú tosto professione di essere [p. 193 modifica] governati che di governare, e volentieri si rapportano a chi sa piú; e sarebbe piú onesto tollerare questo poco di disordine, che fare questo altro di escludere in perpetuo noi altri, come se fussimo inimici o cittadini di una altra cittá, o come se fussimo, sia detto con riverenzia, asini, che ci toccassi a portare sempre el vino e bere la acqua. Noi paghiamo le gravezze ed allo avvenante piú che non pagono loro, perché siamo poveri ed ogni poco di carico ci sconcia, che a loro non accade cosi: quale è la ragione che non abbiamo anche a sentire del bene? Se per essere cittadini, siamo cittadini e membri del consiglio come loro, e l’avere piú roba, piú parenti e migliore fortuna, non fa che siano cittadini piú che siamo noi; se s’ha a attendere chi sia piú atto al governo, cosí abbiamo spirito, cosí sentimento, cosí lingua come loro, e forse manco voglie e manco passione, dalle quali si corrompe el giudicio, che non hanno loro.

Dicono che a Roma, a Vinegia fu sempre in uso le piú fave. Di Vinegia è vero, ma sono diverse ragione; perché quella cittá non ha governo popolare ma è fondata in su’ gentiluomini, e’ quali hanno piú facilitá di tenere el popolo sotto, e manco paura de’ tiranni, perché la è posta in luogo che non vi possono correre e’ cavalli. Di Roma non dicono come la sta, perché fu uno tempo che lo stato era ne’ grandi, in modo che el popolo si levò su; e vedendo e’ nostri pari che con le piú fave non potevano vincere nulla, presono uno rimedio piú gagliardo e non costumato come el nostro, perché feciono come due parti della cittá, cioè el sei, cinque e quattro, ed el tre, dua, asso; ed ordinorono per legge che gli ufíci si dividessino, cioè che ognuna delle parte n’avessi la metá. Il che se noi proponessimo, costoro dimenticatisi de’ romani, che gli allegano in quello che gli viene bene, esclamerebbono che la fussi una pazzia, una disonestá, uno volere dividere la cittá; e non considerano che molto sono piú disoneste le piú fave che tolgono a chi merita, ché molto piú si divide la cittá; perché una parte posta si può dire fuora del cerchio, bisogna che si disperi molto piú che a tempo [p. 194 modifica] de’ tiranni, perché allora, sendo oppressa dalla forza, aveva causa di lamentarsi ma non di vergognarsi, ora ributtata ogni di sotto titolo che la non meriti, ha el danno grandissimo ma el vituperio maggiore.

Non veggono che continuandosi le piú fave, si faranno e nutriranno le intelligenzie; perché poi che poche fave danno lo scacco matto, centocinquanta o dugento fave che si intendine insieme, sono atte a spignersi l’un l’altro molto innanzi, né a questo medicheranno le legge della cittá, perché uno numero si grosso non si manomette facilmente; perché se e’ magistrati sono in mano di questi tali, come puniranno lo errore col quale si esaltano? E quando pure si potessi provedere, non è molto piú lodata e piú santa una republica ordinata in modo che gli errori non vi possino nascere, che quella che gli aiuta nascere per gastigargli poi? Ma che dico io che le intelligenzie si faranno? Non è ella giá fatta di tutte queste qualitá di uomini che io ho detto di sopra, che non rendono le fave se non a loro medesimi ed a’ loro simili, e con questa concordia che gli è naturale, tengono suffocati noi altri? Alla quale bisogna provedere o co’ modi violenti e scandalosi, il che potremo fare facilmente perché siamo molti piú, o con questo modo temperato e piacevole, che dolcemente, sanza danno publico, provede a metterci tutti in vera libertá. Dico in vera libertá, perché se noi consideriamo bene, ci hanno mostro insino a qui la libertá, ma non data, avendoci posto le fave in mano, e persuaso che noi abbiamo tutti a participare gli onori ed utili; e da altro canto acconciala in modo, che con la voluntá di noi medesimi, sanza arine, sanza alterazione godono tutto el grasso, e noi siamo restati famigli loro, e stiamo continuamente a bottega per loro. Corriamo a questo consiglio furiosi come fa l’orso al mèle, e non ci accorgiamo che è fatica e servitú sanza profitto, e che in capo dello anno se facciamo bene e’ conti nostri, non torniamo a casa carichi di altro che di appuntature.

Adunche, prestantissimi cittadini, sendo le condizione vostre cattive se non si provede, e la provisione onesta, giusta, [p. 195 modifica] facile ed in mano vostra, se la rifiutate, torrete lo animo a tutti quegli che si affaticano volentieri per e’ commodi vostri, né arete causa di lamentarvi di altro che del vostro poco animo e della vostra dapocaggine, che essendo cittadini di questa cittá come loro, vi riputiate da voi medesimi si dapochi, o loro tanto da piú che non sono, e vi lasciate persuadere in modo quello che è falso, cioè di non essere atti al governo della cittá, che potendo pareggiarvi a loro e conseguire la parte vostra degli onori e degli utili, cediate vilmente a quello grado, per el quale gli uomini generosi sogliono mettere in pericolo la roba e la vita. Il che non solo vi sará danno ma vergogna grandissima; ed augumenterete in modo la arroganzia di costoro che vi terranno per loro famigli e vi tratteranno, che vi costrigneranno a desiderare di provedervi a qualche tempo, ma sará forse tardi. Però vi conforto, mentre che el bene ed el male vostro è in mano vostra, e che a voi sta o ridurvi e col nome e con gli effetti in una vera libertá, e godere e’ frutti di quella, overo confinarvi sotto nome di falsa libertá in una vera servitú, e privarvi vilmente di tutti gli utili ed onori, a volere fare da voi medesimi giudicio di essere uomini e cittadini di questa patria, e condannarvi da voi di insufficienzia e dapocaggine; il che faccendo, sarete veramente liberi, veramente cittadini di questa cittá e pari a questi che a torto si reputano da piú di voi, e lascierete a’ figliuoli vostri gradi di ricchezza, di onori e di nobilita. Ma se da voi medesimi rifiutate el commodo vostro, resterete sanza tutti questi beni, veramente servi, veramente dapochi, ed alla fine cognoscerete che costoro vi hanno dato ad intendere di avervi scritto per compagni in su’ libri di questa bottega, ma che in fatto siate garzoni, e che al saldare de’ conti a voi resterá la fatica, e loro saranno tutti gli utili.


Note

  1. Il ms. ha a, ma data la somiglianza con la sigla et, abbiamo creduto di poter correggere.