Della moneta/Libro IV/Capo I

Capo I - Del corso della moneta

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Capo I - Del corso della moneta
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CAPO PRIMO

I

del corso della moneta

Quando sia utile e vero il corso della moneta — Calcolo della quantità di danaro necessario ad un regno, fatto dal Locke — Quanto denaro sia nel Regno di Napoli — Si esamina se basti al commercio suo — Calcolo del valore de’ frutti di tutto il Regno — Conseguenza di questo calcolo — Effetti dannosi del corso cattivo ed interrotto — Danno dell’agricoltura e delle arti — Oppressione de’ poveri — Ruine delle fattorie — Origine delle usure — Donde venga la varietà degl’interessi — Danni che provengono dal ristagnar la moneta — Rimedi del poco corso — I. I pagamenti piccoli e vicini — II. Le fiere e i mercati — III. L’uso de’contratti e de’pagamenti in merci — IV. Buon ordine nell’esazione de’ tributi — Origine della forza degli antichi principati — V. I giudizi pronti e giusti — VI. Le leggi chiare — Danno del fòro cavilloso — Stato nostro presente — VII. È benefizio infinito il principe proprio.

Io chiamo «correre la moneta » quel passare ch’ella fa d’una mano in un’altra come prezzo d’opera o di fatiche, sicché produca in colui, che la dà via, acquisto o consumazione di qualche comodità: perché, quando si trasferisce diversamente, fa un rigiro inutile, di cui non intendo qui favellare. Così, se il principe destinasse mille ducati, i quali ogni mattina dovessero trasportarsi dalla casa d’un suo suddito a quella d’un altro, un tanto giro né gioverebbe allo Stato, né accrescerebbe forze o felicità, ma solo molestia e trapazzo a’ cittadini. È adunque il corso della moneta un effetto, non una causa delle ricchezze; e, se [p. 228 modifica] non si suppongono preesistenti molte merci utili, che possano trafficarsi, la moneta non può far altro che un giro vano ed infruttuoso. Perciò quegli ordini, che conferiscono a moltiplicar le merci venali, sono buoni; gli altri sono tutti cattivi e dannosi. Stieno in una camera chiuse cento persone con una certa somma di denaro a giuocare. Dopo lungo giuoco, avrá il denaro avute certamente innumerabili vicende, ed altrettante la ricchezza e la povertá de’ giuocatori; ma il totale non è né cresciuto né diminuito mai, e nel luogo non si può dire variata la ricchezza. Vero è che il mancare il corso impedisce il proseguimento delle industrie, e perciò genera povertá; come per contrario il corso veloce le fomenta: ma chi ben riguarda, osserverá che il corso della moneta può ingrandire e stabilire le ricchezze giá cominciate ad essere in uno Stato, non generarle ove non sieno. Sicché sempre è vero che s’abbia a pensare prima ad aver merci e poi a dar loro il corso, acciocché, vendute e consumate presto le une, si dia luogo alle altre di succedere. È vero ancora che un rapido giro fa apparire una non reale ricchezza; come è lá dove la nobiltá vive con lusso e spese superiori alle rendite sue, e i debiti, che fa, non gli paga. I nobili non si persuadono d’essere impoveriti; ma il mercante, che numera i suoi crediti come certa ricchezza, si stima ricco, e sulla creduta rendita ingrandisce la spesa; fino a che tutti e due, il nobile ed il mercatante, vanno giu poveri e troppo tardi disingannati. È dunque tanto peggiore un tale rigiro pieno di fantasmi di ricchezze, quanto è peggiore della povertá il credersi ricco e non esserlo. Sono dunque assai riprensibili quegli scrittori, che, lasciatisi ingannare dalle voci del volgo e confondendo gli effetti colle cause, propongono animosamente al principe loro l’accrescere la quantitá della moneta e ne bramano accresciuto il corso; mentre non si ricordano neppure dell’agricoltura, delle manifatture e della popolazione, dalle quali unicamente viene il corso utile e vero. La quantitá del denaro non s’ha da accrescere, se non quando si vede non esser bastante a muovere tutto il commercio senza intoppare e lasciarlo in secco; e come si possa acquistare tale conoscenza, è quello ch’io vengo ora a dichiarare. [p. 229 modifica]

Giovanni Locke1, volendo dimostrare quanto danno arrecava all’Inghilterra lo scemare il frutto del denaro, per la diminuzione della quantitá necessaria al corso, che ne potea seguire, entra a ricercare quanto denaro si richiedesse a’ bisogni dell’Inghilterra ed a mostrare come essa n’era assai mal provveduta. Vero è ch’egli non siegue un esatto computo, contentandosi di scoprire la veritá, che cerca, quasi in un barlume. Divide il popolo tutto in quattro classi. La prima de’ lavoratori, che noi diciamo «bracciali», quali sono i contadini e tutti i bassi artigiani. L’altra degli affittuari di terre e de’ capi artigiani, cioè di coloro che diriggono e pagano que’ della prima, e del frutto delle fatiche di quelli, promosse, dirette e raccolte da essi, fanno un corpo di commercio, che si dá a spacciare a’ mercatanti e bottegai, che sono nella terza classe. Questi, che in inglese egli chiama «brukers», sono coloro che non applicano alla cultura delle terre o all’arti; ma raccolgono mediante il denaro, che è l’unico loro fondo, le manifatture e i viveri, e poi o gli trasportano o gli serbano o gli adunano o gli scompartono, e cosí guadagnano, vendendogli piú cari a’ consumatori. La quarta è di coloro che consumano le merci che sono per mano dell’altre tre classi passate.

I primi non sogliono ritenere molto denaro, vivendo dalla mano alla bocca; e, poiché sono pagati ogni sabato, si può accertare che in mano loro non v’è altro denaro che il prezzo d’una settimana di fatiche, o sia la cinquantaduesima parte di quanto in un anno guadagnano.

Gli affittuari non possono aver meno d’una quarta parte dell’affitto, o in mano loro o in quella de’ loro principali, di denaro non circolante; pagandosi in Inghilterra gli affitti in due semestri, che maturano il dì dell’Annunziazione a marzo e dì san Michele a settembre.

De’ mercanti non si può tener conto esatto; giacché v’è disparitá grandissima tra la velocitá, con cui i grossi negozianti [p. 230 modifica] e i piccoli bottegai rigirano il loro denaro. Pure egli dá a tutti compartitamente la ventesima parte del profitto annuo in denaro contante, che sempre resti loro in mano.

De’ consumatori, il numero de’ quali è il maggiore, non fa computo nessuno, essendo impossibile farlo e non abbagliare. Per altro, nemmeno il fin qui fatto è molto sicuro, essendovi moltissimi che riuniscono in loro stessi piú d’una classe, trovandosi insieme padroni di terre, negozianti e consumatori. Delle donne poi, degli ecclesiastici, de’ ministri e d’infiniti altri stati non si può far calcolo dietro a queste tracce, come nemmeno de’ dazi pubblici e del corso che vi fa la moneta. Ma le riflessioni, che Giovanni Locke fa sullo stato dell’Inghilterra d’allora, sono utili e giudiziose assai, e saranno da me appresso rapportate.

Voglio io intanto mostrar la maniera con cui mi pare si possa conoscere quando un regno ha bastante moneta e quando no, esaminando questo di Napoli. In esso si può credere, per quella notizia migliore che se n’ha, esservi poco meno d’un milione e mezzo di ducati in moneta di rame, quasi sei milioni d’argento e dieci, al piú, d’oro, compreso anche quel denaro che è ne’ banchi e che non eccede tre milioni di ducati.

Dovendo tal denaro servire al commercio di tutte le merci che vi si consumano, conviene ora tentare di sapere quante queste sieno, per vedere se possano esser mosse da soli diciotto milioni di ducati. Il cavalier Petty, inglese, ha calcolata quasi la medesima cosa appunto; e poi un altro scrittore dell’istessa nazione, poco tempo fa, volendo dimostrare che i debiti dello Stato non erano cosí grandi come parevano, ha sommato il valore dell’Inghilterra assai ingegnosamente, sebbene con operazione lunghissima. Il di lui metodo io non m’arrischio a seguire, ancorché io conosca esserne vera la conseguenza; mentre di questa nazione, siccome il valore nell’operare trabocca in temeritá, cosí l’acutezza del pensare si distacca spesso dalla veritá, tenendo dietro all’astruso ed allo strano. A me pare esservi una via accorciatoia, che, quando anche non mi guidasse all’esatto vero, il che sempre sarebbe diffícile, mi guida dentro [p. 231 modifica] certi confini di veritá, ne’ quali bastantemente sono in istato di tirar quelle conseguenze che m’importa ricavare.

Imprima è certo che il consumo totale del nostro Regno è incirca uguale al pieno de’ suoi prodotti. Perocché, sebbene moltissimi generi vengano di fuori a consumarvisi, molti de’ natii ne vanno. E, senza curar di sapere a quanto ascendano, è certo dagli effetti che le due valute sono incirca eguali, giacché il Regno non s’arricchisce né s’impoverisce strabocchevolmente; de’ quali effetti l’uno o l’altro è inevitabile, quando v’è gran disequilibrio tra l’ingresso e l’emissione. Bastaci dunque sapere quanto noi consumiamo in un anno. Un uomo, per povero che sia, non può in alcuna parte del Regno vivere con meno di venti carlini il mese, quando si dovessero ridurre a prezzo e la pigione della casa, in cui vive, e tutto quel, che, vestendosi o nutrendosi colle proprie mani, si risparmia, e tutto quello ancora che senza denaro ei ricoglie, come sono le piccole industrie de’ contadini, di galline, uova, cacciagione, legna, viveri, frutti freschi ed altro. Ognuno vede che io mi metto di sotto al vero. In Napoli non si può vivere con meno di sei ducati; e chi vive con meno, o ha il vitto o le vesti o l’abitazione da altri pagata. È noto intanto che molti per se soli spendono fino a quindici e venti ducati il mese, ed èvvene chi ne consuma a vivere cinquanta o sessanta. Né questo, ch’io dico ora, sembri poco: perché i gran signori il piú lo spendono a dar da vivere a chi serve loro, e questo denaro io giá lo vengo a computare nella spesa di costoro; e perciò nemmeno de’ dazi pubblici parlo, mentre è tutto compreso nella spesa di coloro che vivono di soldi e mercedi del sovrano. Sicché un termine mezzo, stante l’assai maggior numero de’ poveri che de’ ricchi, sarebbe di un sette o al piú di un otto ducati per uomo il mese. Ma, riguardando che le donne vivono con meno che gli uomini; i fanciulli consumano pochissimo, e pur sono la quarta parte del genere umano; e finalmente avvertendo che io parlo qui della spesa che produce consumo, e non di quella che arricchisce un altro, quale è il giuoco, il dono, i salari; credo poter fissare la spesa d’ogni uomo ragguagliata a quattro ducati il [p. 232 modifica] mese, o, per meglio dire, che quello, che ogni uomo consuma, vale, compreso tutto, quattro ducati. Il Regno ha poco più di tre milioni d’abitatori: sono dunque dodici milioni il mese, e centoquarantaquattro milioni l’anno il valore delle merci consumate.

Or, siccome ne’ calcoli, per non fallarne la conseguenza, bisogna proccurar che l’errore cada sempre nella parte opposta a quel che si bramerebbe, io voglio supporre che avessi nel mio computo sbagliato del doppio, e che i frutti e le fatiche consumate in un anno nel Regno valessero duecentottantotto milioni: pure si può mostrare che diciotto milioni di moneta ci bastano. In primo bisogna dedurre tutto quel consumo, che si fa dallo stesso raccoglitore, onde è che non vi si richiede denaro. Così chi abita alle case proprie (come è in quasi tutto il Regno, eccetto Napoli), chi mangia il suo grano, beve il suo vino, e così d’ogni altra cosa, non ha bisogno di moneta; e quanto ciò importi, principalmente a’ poveri, lo può ognuno riflettere da sé. In secondo s’ha da togliere tutto il commercio che si fa con le merci stesse. Così a’ lavoratori quasi da per tutto si dá grano, vino, sale, lardo per mercede; e questo non l’ha comprato il padrone. Bisogna dedurne tutte le permute e baratti che si fanno, regolate su’ prezzi futuri delle voci. E infine, riguardando che i contadini, i quali sono i tre quarti del popolo nostro, appena adoprano di denaro la decima parte del prezzo del loro consumo, si dovrá confessare che io m’appongo assai assai di sotto al vero, contentandomi di dire che la sola metá de’ frutti del Regno abbiasi a dedurre come consumati senza moneta. Restano centoquarantaquattro milioni, i quali sono l’ottuplo di diciotto milioni: sicché basta che la moneta tutta ragguagliatamente passi per otto diverse mani in un anno in forma di pagamento, per raggirare tanto commercio. Un moto tale non mi pare cosí veloce, che possa dirsi impossibile o difficoltoso. E perciò sono persuaso che la moneta nostra sia bastante; ed, essendo non solo inutile ma pernicioso l’accrescerla, secondo si dimostrerá al capo che siegue, sono cattivi consiglieri coloro che ci animano ad accumularne piú. [p. 233 modifica]

Meriterebbe essa, si bene, aver corso non solo piú veloce, ma meglio distribuito e piú eguale in tutti i canali suoi, per non voler che sieguano molti effetti nocivi, de’ quali mi conviene ora ragionare, e poi de’ rimedi da apporvi.

I. Il poco corso rovina l’agricoltura e le arti. È del corpo politico come dell’uomo, in cui le vene grandi non servono ad altro che a condurre il sangue nelle vene ultime e picciolissime: in queste si fa la nuova generazione della carne e delle membra e la nutrizione della macchina. Quando si vuota il sangue, le vene capillari e piú utili disseccansi, e il rimanente si raccoglie tutto nelle cavitá maggiori, donde non viene nutrimento veruno. Cosí la scarsezza del denaro costringe i coloni a vendere in erba, co’ prezzi della futura «voce», i loro frutti: onde si espongono a soffrir tutto il danno delle calamitá, senza gustare il profitto de’ prezzi cari. Perciò s’impoveriscono, e allora restringono la coltivazione in minor terreno, danneggiando cosí all’intiero Stato per salvar se medesimi. Intanto la moneta si congrega tutta in mano de’ negozianti, quanto è a dire de’ tiranni del commercio, de’ quali è il guadagno maggiore, sebbene essi sieno i meno utili allo Stato, come quelli che né coltivano, né lavorano, né producono alcuna vera comoditá.

II. La povertá de’ fattori è ribattuta da costoro con mezzo tale, che la pena ne cade poi tutta sui miserabili contadini e bracciali, che, non potendo esser pagati in contante da’ loro conduttori, sono pagati con grano, vino, olio, cacio, lardo; il quale non solo è valutato loro a prezzo carissimo, ma è spesso dato guasto, puzzolente e mortifero, con quella crudeltá e barbarie, ch’è compagna dell’avarizia. Né da sí grave tirannia può il villano salvarsi, essendo universale. Cosí diviene infelicissima la condizione della piú utile gente dello Stato, che sono i villani.

III. Per altra parte si distruggono anche le fattorie. Poiché, quando i maestri delle arti cominciano a pagare gli operai con viveri, ai mercati ed alle fiere scemano i compratori, non comparendovi altri che pochi a prender grosse partite di merci, per distribuirle in pagamento a’ garzoni. Dove vi sono pochi venditori o pochi compratori, difficilmente v’è libertá ne’ prezzi. [p. 234 modifica] Perciò i contadini trovanvi bassissimi prezzi alle merci loro; onde, non potendo ritrarre le spese delle fattorie, queste vanno subito a male. Disi fatto inconveniente si doleva l’Inghilterra, quando ne scrisse Giovanni Locke, avendo i mercanti di panni, per la mancanza del danaro, fatti fallire il piú degli affittatori per la causa sopraddetta.

IV. La poca quantitá del danaro ha da tenersi per la madre delle usure e di quella spezie di guadagni, che da noi sono stati rivestiti ed abbelliti col nome d’«interessi»; nome meno odioso ed orribile, ma spesso niente piú virtuoso. Que’ guadagni strabocchevoli, che si fanno con comperare le merci e, dopo ritenutele pochi mesi, rivenderle, nascono anche dalla stessa cagione; e si potrebbero benissimo dire interessi e usure esatte sui padroni delle terre, che hanno avuta necessitá di disfarsi troppo sollecitamente delle loro ricolte.

Né alla grandezza delle usure dá riparo l’accrescimento del denaro, come molti credono, ma solo il migliorarne il corso e distruggerne il monopolio. Tra chi ha cento ducati e chi n’ha mille v’è sempre la stessa disuguaglianza che tra chi ne ha duecento e chi duemila; ma, se chi prende ad annua rendita cento ducati, avrá dieci offerte di gente che non trovi ad impiegare, non soggiacerá a cosí dure condizioni come le avrá da un solo vecchio e dispietato usuraio. Perciò nel Regno gl’interessi sono tra il sette e il nove per cento, e in Napoli tra il tre e il cinque. Ivi per lo piú, in una intera cittá, non v’è che un solo che abbia da poter dare; nella capitale ve ne sono quasi infiniti. Molte volte neppur quest’uno v’è; ma v’è qualche ricca cappella o confraternita, gli amministratori della quale prendono allegramente il denaro di lei anche a grosso interesse, sperando non pagarlo; e, restando poi di tale speranza falliti, aumentano colla loro ruina le rendite di quel luogo pio, che è stato il loro trapezita. Cosí, a tempi nostri i poveri sono divenuti gli usurai de’ ricchi, e i ricchi gli amministratori delle rendite de’ poveri.

Parmi giá luogo di adempiere ciò che nel libro antecedente ho promesso, e dire quanto sia gran male il congregarsi e [p. 235 modifica] colare la moneta in poche mani a ristagnarvi. Ciò proviene sempre da vizio che sia negli ordini fondamentali del governo, e perciò si trae infallantemente dietro la mutazione intera di esso, e cosí solo si sana. Roma antica, dacché si sottrasse dai re fino alla prima guerra punica, non ebbe altri accidenti che le liti originate dalla diseguale ricchezza de’ suoi cittadini, la quale quando, coll’acquisto di nuove terre, colle colonie e colle leggi agrarie fu emendata, mutossi la repubblica, e da aristocratica divenne democratica, tanto che alla fine restò d’un solo, secondo è l’ordine naturale di somiglianti mutazioni. Le crudeli usure, la servitú, i tumulti popolari, l’abolizione de’ debiti nascevano tutti dalle ricchezze disuguali, e queste principalmente traeano origine dalle guerre, sí perché furono continue, sí perché si faceano a spese del soldato, cioè di quel villano, che abbandonava il lavoro de’ campi e la ricolta. Perciò al senato, composto tutto di denarosi e d’usurai, era a cuore il guerreggiare. E siccome, combattendo, il popolo divenne forte e spesso vittorioso, i frutti delle rapine gli furono di sollievo, e la virtú acquistata gli dette infine coraggio a mutar la forma del governo da aristocratica in popolare. Sono adunque le guerre cagione primaria dello stravasamento delle ricchezze: le quali, anche a giorni nostri, ne’ tempi di guerra si veggono ragunarsi tutte in mano de’ provveditori, de’ negozianti e degli affittatori de’ tributi; e perciò l’alzamento, con cui il principe si disobbliga da costoro, non è nocivo al popolo, ma salutare.

Giacché ho enumerati i danni del poco corso, è giusto dire anche de’ rimedi.

I. Il primo è la picciolezza de’ pagamenti, divisi in intervalli brevi. Se mille uomini in uno stesso di hanno a pagare un milione di ducati, è certo che si richiede un milione nelle loro mani, non potendo due pagar colla stessa moneta. Ma, se pagheranno in due semestri mezzo milione per volta, molto del denaro pagato può tornare nelle loro mani a far nuova comparsa, e cosí con sei o settecentomila scudi si rappresenterá un milione. Quanto saranno i pagamenti minori e piú suddivisi, tanto minor denaro gli raggirerá, e meno ne resterá neghittoso [p. 236 modifica] ed ammucchiato. Di ciò ha sapientemente ragionato il Locke; ma di somigliante difetto mi pare non potersi il nostro Regno dolere.

II. Le fiere e i mercati grandi. In essi si fa gran giro in un punto, e spesso senza denaro nessuno, stante la presenza di tutti i contraenti. Per favorir le fiere, conviene dar qualche esenzione di dogane, essendo sempre maggiore la valuta d’una mercanzia in fiera che non portata a dirittura a’ luoghi dello smaltimento; e principalmente nel Regno di Napoli, che, essendo quasi un promontorio in mare ripieno di porti, è per ogni parte accessibile con piccola spesa.

III. I contratti «alla voce» sono salutevoli ad un paese per promuovere la coltivazione, quando la «voce» è ben messa; e il pagar gli operai piú con merci che col contante sará preggevolissimo, quando non sieno oppressi e maltrattati.

IV. Il buon regolamento de’ dazi è manifesto essere utilissimo al regolato corso del denaro. Così, se i pagamenti, che si fanno finita la fiera alla dogana di Puglia nel maggio, quando per lo caldo è abbandonata, si facessero il novembre, si ruinerebbero i padroni delle gregge. S’hanno dunque a mettere i dazi in modo, che chi gli ha da pagare si trovi sempre col denaro alla mano. Né sarebbe indegno della cura del principe il fare che i tributi fossero in parte esatti in quelle merci che egli ha necessitá di comprare. Un principe, che dá centomila tumoli di grano alle sue truppe, quando gli compra col contante raccolto da’ tributi, aggrava i padroni de’ terreni come se n’esigesse centotrentamila; e il valore de’ trentamila è il guadagno degli uomini denarosi, cioè de’ negozianti e de’ finanzieri: gente, che, essendo meno utile de’ primi, non meritava guadagnarli. Oltracciò, il denaro soffre un ravvolgimento piú lungo; e il far piú tortuoso il letto al fiume è sempre lo stesso che rallentarne il corso.

Da tale regolamento di prendere i tributi in opere, non in moneta, usato ne’ secoli barbari, non per prudenza ed amore al ben pubblico, ma per necessitá, venne la forza grande e meravigliosa, che vediamo essere stata ne’ popoli e ne’ principi [p. 237 modifica] di quelle etá, le fabbriche de’ quali e le altre opere magnifiche e stupende mostrano quanto potessero piú di noi. E sará sempre piú ricco il principe, che non riduce tutto in denaro il suo avere, come è piú ricco quel privato, che, vivendo in mezzo alle sue fattorie, non compra tutto, di quel ch’ei sarebbe, se, vivendone lontano, ne traesse solo denaro, e ciò, che gli bisogna, l’avesse poi a comprar col contante.

V. La brevitá delle liti e la sicurezza delle convenzioni scritte. Forse meritava questa d’essere numerata come prima.

VI. La libertá del denaro e i pochi vincoli di legge. Quel terreno, su cui sono inestricabili inviluppi di censi, di fedecommessi, di doti, di legittime, d’ipoteche e di debiti anteriori, è impossibile che sia ben coltivato. Né può esser venduto, non essendo sicuro il denaro al compratore. E quanto sia gran danno esser le terre inculte, l’ho replicato bastantemente.

È errore adunque credere che i torbidi d’un fòro cavilloso e disordinato possano conferire al bene d’uno Stato, dando movimento alle ricchezze e facendo sorgere ogni di nuove famiglie. Non nego esser vero che i litigi non solo non generano ristagnamento, ma danno moto impetuosissimo agli averi, come quelli che, invece di far passar le ricchezze da’ possedenti a’ pretensori, le trasportano da tutti e due agli avvocati; i quali, stanchi per non trovare ove impiegarle sicuramente, le spendono tutte prodigamente, dissipandole tra ’l minuto popolo; da cui appena raccolte, sono di nuovo dagli avvocati ingoiate, e cosí perpetuamente raggirate da capo. Né le liti cagionano universale povertá. Ma è da confessarsi, nel tempo stesso, ch’esse rendono amarissima e crucciosa la vita, e consumano un tempo ed una applicazione, che potrebbe esser lucrosissima, se tutta si consecrasse a moltiplicare la vera quantitá delle ricchezze, non a cambiar la mano del possessore.

E, per quanto s’appartiene al corso della moneta nel Regno di Napoli, sebbene io abbia destinato altrove scriverne, pure voglio qui dire come in esso sono due creduti gravissimi mali: la sproporzionata grandezza della capitale e la sproporzionata grandezza del tribunale. Le quali due cose meglio si direbbe [p. 238 modifica] che furono mali una volta; ma, siccome ogni morbo, col tempo, o si sana, o si muta la complessione del corpo in modo che, abituatasi al male, lo converte in natura sua, questi oggi non sono piú mali. Vero è che la venuta d’un principe proprio, inevitabilmente e per legge intrinseca, fa crescere vieppiú la capitale, ove ei risiede, e richiama piú liti al fòro; ma l’una e l’altro, dopo breve tempo, vanno a migliorarsi. La capitale giunge a tanta grandezza, che alla fine discaccia da sé i nuovi ospiti: nel tempo stesso che le province, per l’acquisto della libertá e del commercio, si popolano. Il tribunale, oppresso dalla sterminata folla delle liti, si corrompe e si disordina in guisa tale, che, non potendo piú peggiorare, né essendo alle cose umane concesso il fermarsi mai, conviene che si riordini e si migliori. Ed a tutti questi accidenti, perché provengono da cause naturali, non han colpa né merito i cittadini.

La sola presenza del principe dunque basta quasi a sanare uno Stato da ogni infermitá. Che se poi egli sará d’ottime e virtuose volontá e d’animo saggio e grande, come è quello che la Provvidenza ha donato al Regno di Napoli, mossa forse a compassione delle sue tante e sí lunghe avversitá, si anticipa di molto il tempo della guarigione. Ma ogni principe, quando non sia un tiranno, sempre ravviva uno Stato. E perciò la presenza del principe sará da me numerata in settimo luogo come una cagione principalissima a perfezionare il corso della moneta. Da lui è dato impiego e stimolo a faticare a tutti. Di qui nasce il lusso, e dal lusso la magnificenza e la letizia e i dolci costumi e le arti e i nobili studi e la felicitá. E, poiché io ho tanto spesso nominato questo lusso, non è fuori del mio proposito ragionarne una volta posatamente. [p. 239 modifica]

II

digressione intorno al lusso considerato
generalmente

Orrore contro al lusso — Sua vera idea — Danni veri del lusso — Sono senza rimedio, per essere effetti della prosperitá — Eccezioni alle cose sopraddette.

Hanno tutti gli uomini una avversione contro certe voci, l’idea corrispondente alle quali è cosí oscura e diversa, che pare la parola e non la cosa essere con tanto consentimento universale biasimata. Ma ciò, che fa piú meraviglia a’ savi, è il vedere che queste odiate cose scopronsi essere radicate in tutti o quasi tutti coloro che le abborriscono. Non entrerò qui ad enumerar tutte le voci ch’io credo essere di tal natura, poiché non potrei nominarne alcuna, senza dover dimostrare che tale ella sia, o soggiacere al pericolo d’esserne riputato folle e stravagante. Ne nominerò, ciò nondimeno, una sola; ed è la voce «politica», la quale ognuno nella condotta della sua vita bramerebbe avere, e nell’istesso tempo la biasima come nemica all’innocenza e alla virtú, senza arrischiarsi però a diffinirla mai. Simile a costei è la voce «lusso». Si dice ch’ei sia dannoso e brutto; lo vietano i maestri del costume; lo deplorano gli storici, e piú anche gli oratori e i poeti; lo deridono i comici; l’odiano le leggi; si riprende nelle private conversazioni; e intanto n’è pieno il mondo; tutte le nazioni e tutti i secoli, fuorché i barbari e ferini, lo hanno avuto; né alcuno sa né alcuno s’arrischia a dire che cosa il lusso propriamente sia. Cosí questo spettro, ché tale conviene si dica, erra d’intorno a noi, non mai nel suo vero aspetto veduto, né mai efficacemente, o forse non mai di vero cuore percosso. Ma, chiunque egli sia, certo è ch’egli è il figliuolo della pace, del buon governo e della perfezione delle arti utili alla societá; fratello perciò alla terrena felicitá: poiché il lusso altro esser [p. 240 modifica] non può che l’introduzione di que’ mestieri e lo spaccio di quelle merci, che sono di piacere, non di bisogno assoluto alla vita. Non può perciò nascere il lusso, se non quando le arti necessarie sono a sufficienza giá provedute di operai. E ciò accade in due modi: o quando la popolazione s’aumenta, e la popolazione vien dalla pace e dalle buone leggi; o quando si perfezionano le arti, che non è altro che la scoperta di nuove vie, onde si possa compiere una manifattura con meno gente o (che è lo stesso) in minor tempo di prima. Allora restano disoccupati molti, e costoro, per non morir di fame, si volgono a soddisfare gli uomini con lavorii men necessari; ed ecco il lusso.

È bensí vero sempre che il lusso è l’infallibile indizio e l’avviso della vicina decadenza d’uno Stato; ma lo è non altrimenti che l’ingiallir delle spighe è segno del loro vicino disseccamento. Indizio di declinazione, ma pur tanto aspettato e bramato, e per cui tanti sudori eransi sparsi, tante cure prese, tanti travagli sofferti: indizio, che nella bella stagione apparisce e colla letizia universale è sempre congiunto. Verde e fresca è la pianta, ma infruttifera in mezzo alle tempeste del verno. Si dissecca quando ci ha de’ suoi frutti arricchiti. Cosí i regni e gl’imperi, nobili piante dell’augusto giardino di Dio, sono ripieni di forza e di feroce vigore nel crescere tra le guerre e le interne discordie. Ma, quando col valore dell’armi e colla prudenza delle leggi sono ridotti in pace ed opulenza, non essendo concesso loro in un medesimo stato lungamente fermarsi, cominciano le ricchezze e il lusso a corrompergli; e, tornatavi la servitú, tutta la folla de’ mali, che nella schiavitú hanno il loro capo, veggonvisi tornare. E cosí dal disordine all’ordine e dall’ordine al disordine perpetuamente si viene. Tanto è dunque volere impedire il lusso nella prosperitá, quanto il voler che nella state le biade, per tanto tempo culte, non fruttifichino, o che dopo il frutto si serbino verdi ancora.

Non è dunque, come fece il Melun, da applaudire il lusso e lodarlo come origine d’ogni bene. Egli è effetto e non cagione del buon governo: a lui va dietro, ed è spesso il corruttore [p. 241 modifica] e l’inimico suo. Ma neanche è da maledirsi tanto come si fa; poiché può ridursi ad esser tale, che non sia molto nocivo, facendo consumar dal lusso le industrie de’ concittadini, non quelle degli stranieri. Evitato questo male, gli altri tutti, che si declamano tanto, non sono tali. Se dal lusso le famiglie nobili s’impoveriscono e s’estinguono, le popolari si moltiplicano e si sollevano. Una sola differenza v’è: che le antiche famiglie, essendo sorte in tempi feroci, non hanno altra origine che fra l’armi, né altre ricchezze di quelle che la rapacitá, le guerre, e le discordie dettero loro. Le nuove coll’industria, in seno alla pace, ne’ secoli di lusso, si sono ingrandite. Delle quali maniere di crescere, quale sia migliore, è facile a definire. Ma, essendo a’ poeti ed agli oratori piaciuto render gloriosa la militare barbarie, chiamandola «virtú», e dichiarare ignobile l’industria mercantile, gli uomini prezzano piú quella via d’arricchire che questa: di che non mi meraviglio. Mi meraviglio bene che molti maestri del costume, non avvertendo che si lasciano dall’error comune trasportare, gridino sí forte contro al lusso, prendendo tanta cura della conservazione di quelle famiglie, che spesso ad altro non servono che come monumenti illustri della infelicitá de’ secoli passati. Il principe, essendo padre comune, non ha da nutrir simiglianti riguardi; e, fuorché a far che le ricchezze dentro allo Stato restino e pacificamente da uno ad un altro trapassino, di piú non dee curare. È certo che oggi, che il mondo è pieno d’abitatori, uno non può arricchire senza che altri impoverisca; e chi potesse quasi dal cielo sopra tutta la terra guardare, scoprirebbe quel cinese o giapponese, sopra di cui si sará un europeo arricchito. E questa varietá è tra l’arricchir coll’armi o coll’industria: che l’armi spogliano que’ popoli convicini, che poi sudditi ed amici ci saranno. Il commercio succhia il sangue anche a’ piú lontani, meno gloriosamente si, ma con piú comoditá. Avvertano perciò i principi a non lasciar predare i loro sudditi dal lusso delle merci straniere; anzi che, per quanto si può, sui popoli sontuosi ed infingardi o, per meglio dire, mal governati s’arricchiscano, e poi ad altro non si pensi: ché l’industrioso, per [p. 242 modifica] legge di natura, si fará sempre premiare per le sue fatiche, il pigro si lascerá sempre battere e impoverire.

Ciò, che ho detto, s’intende tutto del lusso generalmente riguardato; poiché ve ne son molti particolarmente cattivi. Tale è quello che ritiene molte persone oziose ed inutili, quello che scema a’ poveri l’elemosine, quello che ha con sé congiunta l’impuntualitá de’ debitori; difetti tutti meritamente ripresi e corretti. Ma il parlar d’ognuno di questi mi menerebbe in lungo e fuori dal proposito mio.

  1. Nel trattato Della riduzione degl’interessi dal sei al quattro per cento.