Della moneta/Libro IV/Capo II

Capo II - Dell'accrescere la quantità della moneta

../Capo I ../Capo III IncludiIntestazione 21 maggio 2018 75% Da definire

Capo II - Dell'accrescere la quantità della moneta
Libro IV - Capo I Libro IV - Capo III
[p. 243 modifica]

CAPO SECONDO

dell’accrescere la quantitá della moneta

Errore de’ politici simile a quello de’ medici — Sentimento falso del Muratori — Inutilitá dell’accrescimento del denaro — È dannoso il far compra di soverchio metallo ricco — Il denaro soverchio scema la popolazione — Vera massima di governo — Non conviene liquefare i vasellami preziosi — Nemmeno scavar le miniere proprie — È dannoso guerreggiare per conquistar miniere — Inutile cura è quella di tenere esercitata la zecca — La zecca non produce abbondanza di danaro — La ragione è perchè non sempre resta lá il denaro dove è stato coniato — Perchè le guerre impoveriscono un paese — Donde venga che si consulti l’accumular denaro — Diversitá di principati cagione di diversitá di massime — Del corso da darsi alle monete straniere — La moneta d’oro si può lasciar correre a peso da per tutto.

Egli è cosa verissima ed assai conosciuta essere tra ’l corpo umano e i corpi misti delle societá grande e mirabile somiglianza. Ma da tale cognizione non so perché non si è ritratto finora tutto quell’utile che si poteva: poiché, essendosi la medicina in molte sue parti migliorata e ridotta al vero, era naturale che la politica, sorella sua, fosse rischiarata dal riverbero di quel lume. Lungo tempo ha prevaluto tra i medici una setta che abborriva dal salasso, replicando sempre essere il sangue il nutrimento piú puro e piú nobile, costare grandissimo tempo e fatica il formarsi, starsi in lui la principal sede della vita, e perciò ripugnare alla natura il buttar via ciò ch’ella tanto ama e moltiplica e conserva. L’esperienza però, vincendo i sillogismi, alla fine ha dileguate queste larve, facendo palese l’utilitá e la necessitá del salasso, e che non l’acquisto o la custodia [p. 244 modifica] del molto sangue, ma la perfetta costituzione di esso e la quantitá proporzionata al corpo ed al moto nelle vene sosteneva la vita. Cosí, discacciato un errore tanto pernicioso, molti mali, prima incurabili, sono divenuti non perigliosi. Ha la scienza del governo i suoi galenici ancora, i quali risolutamente insegnano che il danaro è il sangue d’uno Stato, il succo nutritizio e vitale; che conviene aumentarlo sempre, né lasciarlo mai posare ne’ vasellami preziosi; dicono doversi mandar fuori tutto ciò che avanza, a prender oro ed argento; tenere esercitata la zecca, e cosí nuotare e tuffarsi nell’oro; propongono lo scavamento delle miniere proprie, la conquista delle altrui; bramano troncato il commercio coll’Indie antiche, disseccatore de’ metalli ricchi; né finalmente biasimano le leggi che con severe pene vietano l’estrazione del metallo, coniato o non coniato ch’ei sia. La somiglianza de’ principi, degli argomenti e delle conseguenze dovea pur troppo far dubitare che potesse esser comune l’errore: né l’uniforme accordo di tutti i politici in questa sentenza bastava ad assicurarla per vera. Io adunque (forse il primo) mostrerò che per la medesima fallacia si sono abbagliati ed i medici e gli scrittori dell’arte del governo, e che niuno de’ sopraddetti è consiglio buono o fedele.

Ludovico Antonio Muratori1 ha lasciato scritto così:


S’ha dunque sopra ogni altra cosa ad avvertire che tutto il governo economico d’un paese si riduce ad una sola importantissima massima: cioè a fare che esca dallo Stato il men danaro che si può, e che ve ne s’introduca il piú che si può. Ognun sa che buon amico sia questo...


Nel libro secondo ho dimostrato non essere il denaro il migliore amico nelle avversitá d’uno Stato, ma i molti sudditi e fedeli: siccome ad ogni uomo sempre piú gioveranno i veri amici che i grandi averi. Qui dimostrerò come il denaro, quando è soverchio, nonché amico, è nemico. [p. 245 modifica]

Supponiamo imprima che al nostro Regno, giá bastantemente provveduto di moneta, ne fosse donata altrettanta, sicché egli ne avesse trentasei milioni di ducati. Finché un tanto metallo resterá fra noi, non saremo né piú ricchi né meglio agiati. Il corso e la distribuzione della moneta non si correggerá coll’accrescerla, se la nuova si spanderá colla stessa proporzione con cui era distribuita l’antica; e pure cosí seguirá, quando non si diano ordini migliori. Ne ritrarremo adunque solo il dover con sei once di metallo permutare quel che prima si aveva con tre; e ciò sará di molestia per lo maggior peso, non di giovamento alcuno. Sicché, fintanto che resta il nuovo denaro fra noi, il dono è stato inutile e poco desiderabile. Che se noi estrarremo il denaro, è certo che potremo ritrarne molte merci e molti comodi della vita. Ma, siccome il nostro Regno produce abbondantemente tutto quanto a’ primi bisogni si ricerca, altro non possiamo comprare che merci di lusso e di voluttá. Or questo non è altro che promuovere lo spaccio delle industrie altrui, premiare i loro sudori, accrescere le loro ricchezze, e dar loro mezzo di poter venire con quel denaro istesso a comperare il nostro grano, il vino e l’olio, e cosí nutrirsi, popolarsi e rendersi forti e formidabili a noi. Il molto denaro adunque, se si ritiene, è inutile; se si spende, è dannoso; essendo cosa manifesta doversi da chi governa attendere a debilitare sempre i principati altrui con quelle arti e mezzi che non offendano la virtú e la religione, e doversi rendere la vita de’ sudditi piú felice e piú desiderabile che de’ popoli convicini.

Ma, quel ch’è peggio, l’oro e l’argento non ci sono donati. Si comprano, e si comprano caro, con merci nostre o mandate all’America o a que’ popoli che mandanvi le loro. Finché un paese si provvegga di tanto metallo che riempia le vene del commercio, giustissima è la spesa, né per qualunque prezzo è cara la compra di metalli tanto necessari; ma, dacché ne ha la giusta quantitá, non può comprargli con merce che non sia piú utile de’ metalli, che divengono allora inutilissimi. Or perché mai s’ha da accrescere agli stranieri, e talora anche a’ nemici, l’abbondanza de’ comodi, per abbondar noi negli ornamenti [p. 246 modifica] del lusso e della bellezza? È vero ch’io ho dimostrato al libro primo il valore intrinseco de’ metalli essere stabilito sulla natura nostra, né essere chimerico o capriccioso: ma non ho io perciò detto che il grano e il vino non abbiano vero ed intrinseco valore; e, potendosi aver abbondanza o dell’uno o dell’altro, sará sempre meglio averla di questi che di quelli.

S’aggiunge a ciò l’impedimento che il soverchio danaro arreca alla popolazione. Dove è molto denaro, non può esser a meno ch’ei non sia vile, e che le merci e le opere perciò non sieno care. Hanno dunque a valere assai care le manifatture; e per conseguenza, estraendosi, avranno poco spaccio lá dove, per la scarsezza della moneta, rincresce assai ed è molesto un prezzo grande. Oltracciò, gli stranieri eviteranno di stabilirsi in un regno denaroso, eccetto coloro che non vi recano altro che la nuda e squallida loro persona, e sono perciò ospiti non desiderabili; dolendo molto a chi ha qualche rendita venire in luogo, ove per la grandezza de’ prezzi si trova in un istante privo della miglior parte degli agi della vita. Gli stessi cittadini s’invogliano di lasciar una patria che gli costringe a vita cosí frugale, ed andarsene a divenir, senza nuovi sudori, piú ricchi. Lo stato presente dell’Inghilterra e dell’Olanda sono un chiaro esempio del sopraddetto. Gli ordini del governo inglese sono attissimi a far entrare in Inghilterra immense somme di denaro, non curando essi l’alto prezzo de’ viveri e del grano istesso, purché se ne estragga sempre e se ne venda a’ popoli convicini. Gli effetti di sì fatti ordini sono stati che la popolazione non è cresciuta in Inghilterra quanto poteva, stante la venuta di pochissimi forastieri. Il piú degli ugonotti discacciati di Francia, dopo riempiuta l’Olanda, hanno inondata la Germania, evitando la piú vicina Inghilterra, ove non si assicuravano poter vivere. Moltissime arti, come è la stampa, hanno diminuito, non potendo per una parte gl’inglesi vender i libri a basso prezzo, non volendo gli stranieri per l’altra comperargli sì cari; e, se non fosse l’eccellenza delle manifatture, niente di quanto dall’Inghilterra viene sarebbe comperato. Da tutto ciò è venuto che l’Olanda, gli ordini della quale sono piú atti a richiamar [p. 247 modifica] gente che metalli, s’è popolata incomparabilmente piú dell’Inghilterra ed ha mostrate forze proporzionatamente assai maggiori. Finalmente gli stessi inglesi, provando maggior piacere a viaggiar da ricchi che a vivere in patria da poveri, co’ viaggi che fanno, hanno irreparabilmente aperta una porta allo scolo di tante loro ricchezze.

Dunque, conchiudendo, la base d’ogni buon governo non è quella del Muratori, ma questa: che s’ha da nuotar nell’abbondanza de’ viveri, e non dell’oro; che s’ha da lasciar uscire il meno di gente che si può, farne venire il piú che si può, e godere in vedersi stretto dalla calca de’ compagni e de’ concittadini. — Dunque tu vorresti — mi chiederanno molti — non mandar fuori vettovaglie a vendere? — Rispondo ch’io vorrei che se ne raccogliessero quante piú ne può il terreno produrre; vorrei, poi, che noi fossimo tanti, che non ne restasse neppure una libbra da mandar fuori. Felice quel governo, ove il nutrir la prole non è dispendioso, venirvi ad abitare è desiderabile, trovarvi a vivere facile, partirne doloroso!

Che dirò ora del rammarico di tanti in veder non liquefatti i ricchi metalli de’ nostri utensili e de’ sacri arredi? Dirò ch’ella è una vile e mal consigliata avarizia, mista con poca religione. Vero è che, siccome io biasimo l’accrescimento della moneta nostra, con infinitamente maggior ragione biasimerei l’accrescimento di tanto metallo stagnante; ma il tenerne molto consegrato al sagro culto e molto all’ornamento ed alla magnificenza non è sempre biasimevole.

Intorno allo scavare le proprie miniere, sono da aversi presenti all’animo queste savie parole di Giovanni Locke.


È osservabile che quasi tutti i paesi ripieni dalla natura di miniere sono poveri; impiegandosi tutta la fatica, e distruggendosi gli abitatori nello scavamento e nel purgamento de’ metalli. Quindi la savia politica cinese ha vietato il lavorarsi le proprie miniere. Ed infatti l’oro e l’argento scavati non ci arricchiscono tanto quanto gli acquistati col traffico. Non altrimenti che chi vuol far traboccar il bacino piú leggiero delle bilance, se, invece d’aggiunger nuovi pesi alla parte piú vota, ve gli trasporterá dalla piú carica, [p. 248 modifica] colla metá della differenza ei l’otterrá. La ricchezza non è l’aver piú oro, ma l’averne piú in comparazione al resto del mondo. Né sarebbe un uomo piú ricco d’un soldo, se, raddoppiatasi, colla scoverta di miniere nuove, la quantitá della moneta del mondo, anche la sua si raddoppiasse.


Che s’egli è inutile scavar le proprie miniere, non potrá non essere dannoso combattere per occupare e togliere violentemente ad altri quelle, che non converrebbe scavare nemmeno a coloro cui la natura l’ha benignamente donate. Se si conoscesse il vero e grandissimo valore d’un uomo, si vedrebbe quanto è gran pazzia e grave perdita distrugger uomini per conquistar metalli. Secondo il calcolo da me fatto di sopra, un uomo si può valutare per un capitale di milleduecento ducati almeno: un soldato poi, che è un uomo giovane ed in una etá la piú propria ad esser utile altrui, può valutarsi almeno duemila. Veggasi ora se una vena di metallo, che costi la perdita d’una battaglia, è a buon mercato o a prezzo caro comprata. Ma io fo male a voler ragionar di sí fatte cose. È ordine della natura che vi sieno le guerre, dovendo esservi il principio dí distruzione per potervi esser quello della nuova produzione; e, quando gli uomini non si disputeranno l’acquisto de’ corpi piú belli e luminosi, si contrasteranno i titoli, le preeminenze, i colori delle imprese, la forma de’ vestimenti e quanto nelle voci o nelle idee v’è di meno reale ed importante in natura. Meglio è dunque che io mi rivolga a dimostrare quanto sia piccolo utile tenere in esercizio la zecca, contro al consiglio di molti, che forse a darlo sono stati spinti da privato occulto interesse.

Per due fini suole esser consigliato che si zecchi nuova moneta: o per guadagnarvi il principe, o per riempier di moneta lo Stato. De’ quali sentimenti l’uno è vile e l’altro è falso. E, volendo discorrer prima di quello, dico che ne’ secoli barbari, quando i sovrani, tralle loro piccole e disputate rendite, niuna ne aveano migliore della zecca, fosse questa per guadagno esercitata, era lodevole o almeno perdonabile; ma che a’ di nostri si siegua a pensare cosí, non può essere attribuito ad altro se non che a un moto, che, per una antica impressione datavi, [p. 249 modifica] meccanicamente ancor dura. Il dritto della zecca conviene che sia il men che si possa grande; e, quando egli è del due per cento, è giusto assai. Con esso, dunque, in un milione di ducati n’acquista un principe ventimila: acquisto a’ nostri di poco considerabile per un principe che non sia povero assai. Che se da tal guadagno si toglie la spesa del trasporto de’ metalli e il guadagno che v’hanno a fare i provveditori di esso, egli resta anche di molto minore. La zecca non può dare impiego e nutrimento a piú di duecento persone. Adunque non è degna della cura del principe una manifattura che a lui rende sì poco, a’ suoi popoli niente; essendo duecento uomini, riguardo a tutto uno Stato, un vero niente. Né l’esempio della sapienza veneta merita opporsi a ciò ch’io dico; avendo i veneziani il maggior guadagno dalla ignota tempra che danno all’oro, non dalla zecca; ed io son persuaso che, s’essi temprassero l’oro e poi come mercanzia lo rivendessero in verghe, n’avrebbero frutto maggiore. Degli altri Stati poi l’esempio non mi fa forza nessuna; poiché gli uomini piuttosto imiteranno servilmente un’operazione altrui, inutile ad essi e talor anche dannosa, che non pensarne e suscitarne una buona. E che ciò, ch’io dico, sia vero, si può conoscere facendo questa considerazione. La spesa di trebbiare il grano col calpestio delle cavalle, come in gran parte del nostro Regno e di Sicilia si costuma, quando si computi il danno della morte e dell’aborto delle giumente, il danno de’ poliedri, l’erba che da loro inutilmente si pasce ed ogni altro, si può valutare la quarta parte della spesa totale d’una raccolta; che è quanto dire, nel nostro Regno, due carlini il tumulo. Negli anni propizi sono fra noi dalle cavalle pestati almeno cinque milioni di tumuli: dunque una macchina, che senza animali trebbiasse, sarebbe, se questa si trovasse, un acquisto d’un milione di ducati l’anno; e a piú di ventimila persone si renderebbe un mese di tempo libero ad occuparsi in travaglio meno penoso, oltre all’immensa quantitá di terreno, che avanzerebbe, non pasciuto da animali, che hanno da essere consecrati ad un’opera tanto per loro mortifera e fatale. Ora io disfido tutti che mi si mostri alcuno scrittore, di quanti al [p. 250 modifica] pubblico bene si dicono applicati, il quale, invece di consigliare un guadagno cosí piccolo come è la zecca, n’abbia mostrato uno cosí grande quale è il sopraddetto, ed altri di lui non minori, che vi sarebbero in gran copia da poter additare. Felici gli uomini, s’e’ conoscessero essere stati tutti dalla natura creati agricoltori, ed essere stata ogni loro ricchezza e comoditá sotto le zolle della terra appiattata! ché non cercherebbero, con metalli, con voci, con carte e con altri ordigni misteriosi, dar corpo reale a quel niente, che non gli può saziare.

L’altra creduta utilitá della zecca è l’abbondanza della moneta, che da essa si aspetta e si spera. Un tale inganno non si può meglio dileguare che con mostrarne il ridicolo col racconto d’una novella.

Un uomo, una volta, vedendosi poverissimo, né piacendogli accagionarne i vizi e la dappocagine sua, credette esserne la colpa l’abitar egli cosí discosto dalla zecca, che non vi era passato mai per vicino. Quindi, repentinamente mutata abitazione, s’appigionò una stanzino pochi passi lontana dal luogo ove era il gran torchio; e volentieri tollerò tutto il dì la molesta scossa e lo strepito de’ colpi di quello, sperando che al far della notte, scolando la moneta, ne venisse il suo pavimento inondato. Ma, avendo la notte inutilmente vegliato in aspettare quel che gli avea apportato tanto fastidio il dì a sentir coniare, cruccioso si levò, e, andato a vedere come la moneta non era piú nella stanza del torchio, seco stesso ammirato, non intendeva come potesse avvenire che la moneta, uscendo di quel luogo e spandendosi fra ’l popolo, sfuggisse la sua casa, che pur era cosí dappresso al fonte, e poi con tanto émpito andasse ad allagare le case de’ ricchi mercanti: del che piangendo e bestemmiando, la sua rea sorte malediceva. Un vecchio uomo, che gli era daccosto, a pietá mossosi e udita la cagione de’ suoi lamenti, persuaselo alla fine essere la moneta, che si zecca, diffusa nel popolo, non versandola e rotolandola nelle strade e nelle piazze, ma per assai diversi canali; de’ quali siccome molti imboccano a’ mercanti, molti a’ ministri del sovrano e molti ad altra gente, cosí sono costoro variamente arricchiti. Allora quel disgraziato, accorto [p. 251 modifica] del suo inganno, si dolse piú amaramente di prima, vedendo che delle monete egli sentiva tutto l’incommodo che danno in coniarsi, niuno de’ diletti che danno nel consumarsi.

Lo stesso si ha da dire delle cittá che hanno zecca: potendo avvenir benissimo che una cittá poverissima abbia la maggiore zecca del mondo; e, se i cittadini non la saccheggiano, potranno talora essere in istato di non avere affatto denari. Bisogna vedere per quali canali viene l’oro alla zecca e per dove scorrono poi le monete ed imboccano; e, sempre quando l’oro non è comprato con merci del paese, la moneta non potrá restarvi giammai.

Per una consimile cagione le guerre, che riempiono di danaro un paese, non l’arricchiscono mai; e indi a pochi anni si trova il denaro essersi raccolto nelle province vicine a quella, che, per essere stata la sede della guerra, sebbene fosse la prima raccoglitrice, pure s’è impoverita e distrutta. La cagione è che un uomo, il quale ha cinquanta botti di vino, cento tumoli di grano e dieci ducati, è piú ricco di chi ha trenta ducati e non ha vino né grano. È impossibile che un esercito paghi tutto il danno ch’ei fa, e perciò sempre piú toglie che non rende. Di quella moneta, che dá, si ricompra una parte di quanto l’esercito ha consumato: ma, a voler riaver tutto il perduto, bisogna spendere anche l’antico denaro, che s’avea in mano.

Ora, giacché di tutti i desidèri umani, savi o sciocchi che sieno, v’è sempre la cagione, ed è utile assai il saperla, io voglio ricercare donde sia provvenuta tanta brama di moltiplicare i metalli preziosi negl’italiani e di ragionar tanto di quel commercio, ch’essi hanno quasi tutto perduto. Per intender l’origine di ciò, si ha da avvertire esservi due sorti di principati, cosí come vi sono due classi d’uomini in ogni principato. Altri uomini coltivano, producono, lavorano i viveri e l’altre merci: altri non ne fanno alcuna nuova, ma alle giá fatte dánno moto. Io chiamo i primi «coltivatori», i secondi «mercanti». Quelli hanno poco bisogno di denaro, ma molto de’ materiali e del terreno per produr le ricchezze; questi hanno [p. 252 modifica] per lor materiale il denaro. È loro unica cura richiamarlo tutto nelle mani loro, acciocché, somministrandolo a’ coltivatori, ne traggano lucro e abbiano le mercanzie a prezzo vile in mano. Il non aver bisogno fa poi che le ritengano pazientemente finché rincariscano. Sono perciò essi una poco utile parte dello Stato, e talor anche dannosa.

Lo stesso è delle nazioni. Quelle, che, come è la Francia, la Spagna e il piú dell’Italia, sono abitatrici di vasti e fertili terreni, dalla natura arricchiti d’ogni suo dono, non han bisogno di molto denaro per vivere felicemente; nè il loro commercio ha da esser altro che l’industria della coltivazione e delle manifatture. Altre nazioni sonosi ritrovate ristrette in luoghi o alpestri e sterili, come è Genova e gli Svizzeri, o in siti paludosi, come Venezia e l’Olanda. Quivi l’avara natura niega loro tutto; e quindi è che, divenuti i bottegai ed i mercanti dell’universo, fanno sui regni grandi, che sono loro dappresso, quel che i mercanti usano cogli agricoltori. Hanno perciò prudentemente tali repubbliche cercata ogni via di moltiplicare il denaro, l’acquisto del quale era per esse quasi una conquista di nuovi terreni: ma saranno sciocchi que’ popoli, che, vivendo in mezzo a’ terreni di fertil natura e coltivandoli male, mossi da invidia puerile, cercheranno imitare disadattamente coloro che sono in assai diversa situazione. Il pareggiare altrui non s’ottiene sempre con imitarlo e seguirlo; e perciò sconsigliatamente è proposto agl’italiani accumular denaro, quando, ubbriacati nell’agresto oltramontano, lasciano i loro felici campi privi di piante e di cultori.

Restami solo a dire, prima di terminare, dell’introduzione e corso alle monete d’altro principe, che si suole in molti Stati dare. Intorno a che dico che, quanto alle monete d’argento, o si parla di principati grandi o di principati piccoli, come sono i ducati d’Italia, gli elettorati di Germania ed altri. Ne’ primi è meglio sempre escluderle affatto: ne’ secondi è troppo molesto al commercio de’ cittadini, de’ quali moltissimi sotto diversi principi quasi egualmente vivono. Io stimerei però conveniente che la moneta propria non si facesse mai eguale in [p. 253 modifica] valore alla straniera. Parrá certamente strano ch’io pensi cosí, sembrando anzi conveniente evitare una disparitá sempre fastidiosa. Ma io avverto che una moneta straniera ammessa nello Stato porta sempre con sé rischio che quelle mutazioni e danni, ch’essa soffre nel suo proprio, non le faccia provare ancora al paese ov’è ricevuta. Perciò gioverá sempre non lasciar fare al popolo connessione d’idee e riguardar come eguali in tutto due monete, d’una sola delle quali è il principe mallevadore, dell’altra no. Il consumo, il tosamento, la mutazione del valore potranno indurre disegualitá di monete, quanto irreparabile dal sovrano, tanto calamitosa allo Stato.

Dell’oro poi è bene che da per tutto ei si prenda a peso e, quanto al valore, non ne abbia altro che dal consentimento comune. È la libertá un dono cosí prezioso del cielo, che, senza somma e gravissima causa e necessitá, non l’hanno mai i principi a togliere o a restringere ad alcuno; e perciò l’introdurre oro e valutarlo quanto al padrone più piace, non potendo nuocere, non ha da esser vietato. L’estrarlo, se si convenga o no, sará trattato nel seguente capo.

  1. Felicitá pubblica, c. xvi, sul principio.