Della moneta/Libro IV/Introduzione
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INTRODUZIONE
A dimostrare l’inutilità dell’oro e dell’argento, e a dar loro quel disprezzo, che al pari dell’eccessiva stima certamente essi non meritano, i poeti hanno inventata la favola del re Mida, di cui dicono che, avendo richiesto a Giove che quel, ch’ei vedea e toccava, si convertisse in oro, ed avendolo ottenuto, peri miserabilmente di stenti e di fame. Donde, giubilando e sghignazzando, della moneta, come di materia inutile e chimericamente pregiata, si fanno beffe, ed agli uomini denarosi, poco di loro curanti, comparandosi, si stimano essere assai superiori. Ma, s’essi avessero voluto conoscere quanto fondamento ha una tal conseguenza, avrebbero potuto prolungare il racconto così. Che Mida, accortosi dell’errore e provando crudelissima fame nel mezzo delle credute ricchezze, pregò di nuovo Giove che tutto si convertisse in pane. Fecesi; ed ecco che, dovendo vestire di pane, dormir e sedere sul pane, di pane solo cibarsi, senza poter estinguere la sete, arrabbiato morì. Chiunque si fosse accostato a tirare la conseguenza di quest’altra parte della favola, avrebbe immantenente veduta la falsità della prima conclusione. Non sono inutili i metalli, come non lo è il pane: solo è vero che nella terra non v’è creato nulla, che naturalmente basti per tutti i bisogni. Nello stato di commercio basta la moneta sola; ma ciò non proviene da lei, ma dagli uomini, i quali, quando per affetto s’unissero a beneficare alcuno, anche senza moneta, non gli farebbero nulla bisognare. La vera conseguenza, dunque, è che l’amore degli uomini era quella ricchezza che potea saziar Mida, e sola meritava esser richiesta da lui. Intanto, perché un errore preso da’ poeti è sempre contagioso, da tutti è oggi la favola di Mida narrata ed applaudita. Sarebbe però tal cosa condonabile, se non si vedessero questi stessi uomini esultare quando conoscono entrare la moneta in un paese, rattristarsi quando esce, non ricordevoli più di quanto l’han disprezzata. Sarà perciò utile ch’io dimostri qui essere la conservazione della società l’unico bene; doversi procacciare e custodire una competente quantità di moneta, perché al bene della società conferisce: ma l’accrescerla sempre, esser dannoso; anzi doversi pazientemente lasciare uscire, quando è per salute o per comodo de’ possessori suoi. Infine convenire al principe l’amare non la molta moneta, ma il suo moto veloce, regolato e ben distribuito.