Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/3
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3.
Come si possa rubare da gli scritti altrui
con buona coscienza, e con lode.
Ma troppo difficile impresa io m’avveggo d’avermi proposta, mentre ho preteso di traviare i nostri pensieri dad torre furtivamente l’altrui, con metter loro inanzi e l’obligo d’arricchire con nuovi ritrovamenti le Lettere, e la mercede che facendolo se ne acquista. Meglio era ch’io insegnassi, che si può rubare a tutta coscienza, e non solo senza obligo di restituzione, ma con guadagno di merito.
Non tutti i furti di luce, che si fanno alle ruote del carro del Sole, che sono (s’io mal non indovino) i libri de’ più famosi Ingegni su i quali splende e trionfa la Verità, condannano alle rupi del Caucaso e all’Aquila di Prometeo. V’è impunità di torre, pur che si tolga, non come la Luna dal Sole, che, quando più gli s’accosta e più si riempie della sua luce ne’ perfetti Novilunj, ingratamente l’eclissa; ma come chi in uno specchio di puro cristallo riceve un raggio di Sole, e con ciò non solo _ non lo scema di luce, ma anzi, rendendoglielo col riflesso, maggiormente l’illustra. Così l’Api, ingegnose ugualmente e discrete,
Candida circum Lilia funduntur:
Ma sì innocente è la loro rapina, che senza scemar l’odoroso, senza violare il bello, senza romper l’intero de’ fiori, cera e mele per sè e per altrui abbondevolmente raccolgono.
La prima maniera di rubar con lode, è imitar con giudicio. Chi non è un gigante d’alta statura, saglia, su le cime d’una gran torre, e di colà impari le diritte vie e’l càmin più sicuro. Chi non ha in capo un teatro di proprie idee, e idee di buon disegno, prenda, conforme all’antico costume della prima e rozza pittura, i contorni dall’ombre di figure perfette, e compisca su que’ modelli il suo lavorio.
Frine mentre vivea (Frine Venere Ateniese, già che era non meno impudica che bella1) era l’esemplare de’ Pittori, da cui prendevano il disegno e le fattezze del volto, per ritrarre quanto potean più belle, e con ciò più divine, le Veneri che dipingevano. Il solo vederla era imparare, servendo non tanto per esemplare alle copie che ne facevano, quanto per forma di perfezione all’idea che avevano in mente, d’un’aggiustatissima proporzione di parti, tempera di colori, e atteggiamenti di vita. Tali all’ingegno sono i componimenti de’ bravi maestri di Lettere, che, mirati con applicazione, improntano nella mente a poco a poco una nobile idea d’un simil dire; e si ha per isperienza, che chi s’avvezza a leggere con attenzione componimenti di nobili sensi e d’alte maniere, quasi ubbriaco de’ medesimi spiriti, pare che non sappia più dire in altra maniera che nobilmente. Così avveniva a’ Rosignuoli, che facevano i loro nidi nel sepolcro d’Or feo, che, come se dalle ceneri di quel gran Musico e Poeta avessero preso anche il suo spirito, erano a gran vantaggio più ingegnosi e più dotti cantori degli altri: sì che gli altri, musici boscherecci; essi, Sirene celesti parevano.
E in questo del leggere attentamente le altrui dotte fatiche per istamparsene in mente una somigliante imagine, pare che avvengano quegli occulti miracoli dell’imaginatrice potenza, che ha fatto tal volta vedere, madri rustiche di volti sformati e di membra contadinesche partorire figliuoli di sembianze e di fattezze angeliche (quasi bellissimi Narcisi, nati da una brutta e vile cipolla); mercè della forma, che diede a’ teneri bambini prima che fossero partoriti il mirare le lor madri sovente pitture di bellissimi volti e isquisitamente ritratti.
Nè perchè eccellenti sieno gli Autori, e noi bassi d’ingegno, perciò è senza giovamento il mirarli, per farsi loro coll’imitazione somiglianti. Le Aquile, prima che cavino i piccoli pulciui dal nido, con grandi cerchj e raggiri si ruotano loro e sopra e d’intorno, sferzandok tal volta coll’ali, e provocandoli al volo: con che gli Aquilotti, se non dà loro il cuore di seguitar le madri fin sopra le nuvole dove a una battuta d’ala si portano, almeno s’invogliano d’abbandonare il nido, arrischiarsi al volo, provarsi ancor’essi su l’ala. Perciochè naturalmente fesce seguitar ciò che piace; massimamente se il genio della natura s’accordi coll’elezione della volontà: e gli sforzi che in ciò si fanno, o non sono di fatica, o, perdendosi l’amaro della fatica nel dolce dell’operazione, non si scutono faticosi.
Vedersi dunque avanti gli altissimi volt d’un felice Ingegno, non solo risveglia e provoca i desideri per imitarli, ma aggiugne lena a’ pensieri e forza alla mente; si che ella pruova di poter più di quello, che senza cotał vista potrebbe. Con che se non si giugne a toccare il cielo e volar sopra le stelle, almeno si sollieva da terra e s’abbandona il nido. Se non riesce d’esprimere con adeguati periodi gli altissimi giri dell’esemplare che si prese ac imitare, si fa almeno come i Girasoli, che fissi con la radice e mobili col fiore, dal mirare continuamente il Sole, imparano a disegnare in un piccol giro quell’amplissimo cerchio, ch’egli dall’uno all’altro Orizzonte descrive.
Ma degli scritti altrui approfittarsi con sola l’imitazione, a giudicio di Quintiliano2 che lungamente me parla, è troppo poco guadagno. Sia dunque la seconda maniera di furto, non che lecito ma lodevolissimo, torre da altrui ciò che si vuole, ma del suo migliorarlo si, che non sia più desso. Nella maniera che i diamanti, ricevendo un semplice raggio di luce che foro penetra al fondo, sì l’abbelliscono, e la dipingono di tanti e così be’ colori, che il Sole non è sì bello e le stelle ire perdono. Non è rubare, sapere, quasi con un po’ di leggiere schiuma di mare, mescolar’il seme celeste del suo ingegno, sì che quella, ch’era inutile e vile materia, divenga non meno d’una Venere, formandosene compouìmento di più che ordinaria bellezza.
Quel famoso lavorio di Fidia, Giove Olimpio, miracolo della scoltura e del mondo, era di candidissimo avorio. Ma non per questo poteano gli Elefanti vantar come loro quel divin magistero, nè accusare lo scultore come ladro di quel bello di che il suo lavorio era famoso. L’aggiustatissima proporzione delle membra, le maestose fattezze della divina sembianza, e quant’altro faceva quella statua unica al mondo di bellezza e di pregio, tutto era ingegno dello scultore, non merito dell’Elefante. Phidiæ manus (disse Tertulliano3) Jovem Olympium ex ebore molitur, et adoratur. Nec jam bestice, et quidem insulsissimæ, dens est; sed summum sæculi Numen. Non quia Elephantus, sed quia Phidias tantus. Chi premde a questa maniera rozzi tronchi e informi per lavorarne statue, vetri vilissimi per mutargli in diamanti, stile di semplice rugiada per farne perle, non è ladro, ma artefice. Non dee altrui la materia; ma la materia a lui è obligata dell’onore d’un così nobile lavorio.
Ma ne lo spieghino ancor più vivamente gli artificj delle famose fontane di Roma, di Tivoli, di Frascati; dove l’acque fatte giuchevoli ne’ tormenti, e nell’obedienza ingegnose, in più forme si cambiano, che non il Proteo de’ Poeti.
Veggonsi giù dalle gromme, e da’ tartari d’ampissime nicchie stillare a goccia a goccia in minutissima pioggia, si che meglio non sanno ripartirla le nuvole su la terra. Imitare, quasi uscissero della caverna d’Eolo, i venti, e quasi col soffio umido gli Austri, col piacevole i Zeffiri, coll’impetuoso e freddo le Boree. Stendersi sì sottili, e ispianarsi si eguali, che sembrano limpidissimi veli spiegati in aria. Sminuzzarsi in piccolissime stille, e formar di sè quasi una nuvola rugiadosa; che opposta all’incontro del Sole, un’Iride d’arco e di colori perfetta dipinge. Avvivare col moto statue morte, e variamente atteggiarle. Spicciar furtivamente di sotterra, e lanciarsi, e sospendersi în aria con altissimi pispini. Gemer come dogliose, mugghiar come infuriate, cantar come allegre: nè solo rinnovare al mondo quella, che Tertulliano chiamò portentosissimam Archimedis munificentiam4, gli Organi idraulici; ma nelle gorghe, ne’ trilli, ne’ spessi e artificiosi passaggi, ne’ ripartimenti e nelle mutauze di soavissime voci imitare al vivo i Rosignuoli, come se per bocca loro cantasse non spiritus qui illic de tormento aquie anhelat5, ma le Sirene stesse abitatrici dell’acque. Per opere di così ingegnoso e ammirabile lavorio si prendono l’acque da una fonte ordinaria; che se l’arte con più nobile uso non le sollevasse dalla natia loro bassezza trasfondendo in esse quasi mente e ingegno, andrebbono strisciandosi vilmente su la terra fra rive fangose, degnate appena da gli auimali per bere, dove ora sono le delicie de’ Principi e la gloria de’ giardini. Questo non è superar la materia col lavoro? obligarsela, e farsela sua? Altrettanto faccia chi ruba. Sepellisca il furto della materia nel magistero dell’arte; si che, nell’aggiunta che vi fa del suo, affatto si perda quello ch’era d’altrui.
Ma questa maniera di migliorar le cose tanto, che non sieno ormai più quelle che prima erano, e per ciò divengano nostre, bene intesa e mal praticata da gente abile si a mutare ma non a migliorare, tanto più condannevoli gli ha renduti, quanto è maggior colpa sformare il bello e storpiare il concio d’un’aggiustato componimento, che non semplicemente rubarlo. Per fuggire l’infamia di ladri, diventano micidiali, togliendo l’anima di tutto il bello alle cose che pigliano; mentre smembrano loro l’intero, e disordinan’il ripartito, con una sì infelice felicità nel farlo, che in pochi tratti di penna trasformano l’Elene in Ecube, e gli Achilli in Tersiti. Fanno delle bell’opere altrui, senza volerla, eiò che per isdegno fecero gli Ateniesi delle trecento statue di bronzo del famoso Demetrio. Per onta e infamia del nome, le strussero, e le trasfusero in vasi da ogni sordido e vituperoso servigio. La verga di Circe e la penna di costoro gareggiano insieme di forza; potendo questa coll’ignoranza trasformare bellissimi componimenti in bruttissimi mostri, si come quella con la Magia poteva mutare bravissimi Cavalieri in vilissimi animali. Un simile trattamento fece un rozzo Comediante a’ versi d’un’eccellente Poeta, che imitando con gli atteggiamenti e con quella che Cassiodoro chiamò mutola e loquace favella delle mani, antico mestiere de’ Mimi, sì sconciamente rappresentava con gli atti ciò che la poesia esprimea con le parole, che nelle due favole di Niobe e di Dafni, mutate quella in un sasso e questa in un tronco, in questa un tronco, in quella un sasso parea.
Saltavit Nioben, saltavit Daphnida Memphis;
Ligneus ut Daphnen, saxeus ut Nioben6.
Quando ben’in rapire le cose altrui s’usasse quell’avvedimento e riverenza, con che l’Aquila ghermi e portò in cielo il giovane Ideo, senza intaccarlo con le unghie nè stracciargli le vestimenta, e quale appunto Leorca con non minor giudicio che arte l’espresse di bronzo, sentientem quid rapiat in Ganymede et cui ferat, parcentem unguibus etiam per vestem7; pure tanto non basta: chè la discrezione in rubare mitiga, ma non toglie la colpa di ladro. Quanto peggio è sformare, confondere, storpiare l’altrui, per farlo suo? e farlo in questo modo veramente suo, cioè mal fatto, al modo di quel Fidentino, di cui Marziale8:
Quem recitas meus est, o Fidentine, libellus;
Sed male cum recitas, incipit esse tuus.
All’abellimento che si fa, quasi con alterazione di più nobili qualità onde le cose felicemente si mutano (che ho detto essere una maniera di rubare innocente e lodevole), aggiungo per ultimo l’accrescimento della quantità; quando una gran mole d’un piccol seme, e quasi d’un ramuscello un’albero si produce.
Molte cose escono della penna a’buoni Scrittori dette tal volta solo incidentemente, e quasi accennate col dito, che, a chi non ha occhio ben’avveduto, di leggieri trascorrono: e pur sono cifre gravide or d’alti or d’ampj pensieri; e chi sa disinvolgere quello che in esse s’aggroppa, di nulla fa molto, e tutto per sè, tutto suo.
Il Cielo, di tante stelle che ha, a non più che sette ha date proprie sfere, e licenza e campo da correre vagabonde per quell’aria liquida e sottile, che di qua giù sino al firmamento si diffonde. Che se a tutte avesse voluto assegnare giri e periodi propri; dove ora il mondo per dar luogo a sette sole è si vasto, che sarebbe egli, se a tante migliaja di stelle avesse ripartiti circoli proprį ė sfere proporzionate? La stesso fanno nel comporre de’ loro libri valenti Scrittori. Determinata materia è quella, a cui danno luogo e quasi sfera e giro, trattandola, sì come pretendono, ampiamente. Ma intanto, non lasciano di spargere qua e là, dirolle così, stelle: fisse d’alti pensieri e pellegrine cognizioni, abili a riempir, quasi un gran Cielo, un gran volume, quando truovino Mente e Intelligenza, che sappia raggirarle come richieggono. Chi di questa maniera ruba ad altrui, felicemente ladro, poco toglie, molto aggiunge, tutto fa sua. Senza danno dello Scrittore, a cui tolse una scintilla per farne un Sole. Con utile di quello stesso che prese, che d’un piccol seme negletto ne forma una gran pianta. E con grande onor suo; già che opera di grande ingegno è, su poche note d’alcune nude parole lavorare contrapunti doppj di pellegrini discorsi. Su la semplice orma d’un piè d’Ercole formare, come Pitagora fece, tutta l’intera mole d’un corpo a giusta proporzione d’ogni sua parte composto.