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parte seconda 23


schiuma di mare, mescolar’il seme celeste del suo ingegno, sì che quella, ch’era inutile e vile materia, divenga non meno d’una Venere, formandosene compouìmento di più che ordinaria bellezza.

Quel famoso lavorio di Fidia, Giove Olimpio, miracolo della scoltura e del mondo, era di candidissimo avorio. Ma non per questo poteano gli Elefanti vantar come loro quel divin magistero, nè accusare lo scultore come ladro di quel bello di che il suo lavorio era famoso. L’aggiustatissima proporzione delle membra, le maestose fattezze della divina sembianza, e quant’altro faceva quella statua unica al mondo di bellezza e di pregio, tutto era ingegno dello scultore, non merito dell’Elefante. Phidiæ manus (disse Tertulliano1) Jovem Olympium ex ebore molitur, et adoratur. Nec jam bestice, et quidem insulsissimæ, dens est; sed summum sæculi Numen. Non quia Elephantus, sed quia Phidias tantus. Chi premde a questa maniera rozzi tronchi e informi per lavorarne statue, vetri vilissimi per mutargli in diamanti, stile di semplice rugiada per farne perle, non è ladro, ma artefice. Non dee altrui la materia; ma la materia a lui è obligata dell’onore d’un così nobile lavorio.

Ma ne lo spieghino ancor più vivamente gli artificj delle famose fontane di Roma, di Tivoli, di Frascati; dove l’acque fatte giuchevoli ne’ tormenti, e nell’obedienza ingegnose, in più forme si cambiano, che non il Proteo de’ Poeti.

Veggonsi giù dalle gromme, e da’ tartari d’ampissime nicchie stillare a goccia a goccia in minutissima pioggia, si che meglio non sanno ripartirla le nuvole su la terra. Imitare, quasi uscissero della caverna d’Eolo, i venti, e quasi col soffio umido gli Austri, col piacevole i Zeffiri, coll’impetuoso e freddo le Boree. Stendersi sì sottili, e ispianarsi si eguali, che sembrano limpidissimi veli spiegati in aria. Sminuzzarsi in piccolissime stille, e formar di sè quasi una nuvola rugiadosa; che opposta all’incontro del Sole, un’Iride d’arco e di colori perfetta dipinge.

  1. De resur. carn. c. 6,