Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/27

Parte seconda - 27. Dello Stile, che chiamano moderno Concettoso .

../26 ../28 IncludiIntestazione 23 giugno 2024 75% Da definire

Parte seconda - 26 Parte seconda - 28
[p. 141 modifica]

27.

Dello Stile, che chiamano moderno Concettoso.

Ma io indovino, che vi sarà, a cui paja, ch’io, favellando delle migliori Idee del dire, mi sia dimenticato del meglio, avendo fin’ora taciuto di quello, che chiamano Stile Concettoso, usato oggi da molti con lode non ordinaria d’ingegno. [p. 142 modifica]

Questo è (dicono) quello stile, dono solamente d’ingegni ricchi d’alti pensieri; poichè tutto è perla strutta e oro macinato: parto d’anime sublimi; poichè, a guisa di quell’uccello dell’Indie detto Del Paradiso, mai non mette piè a terra, mai non si abbassa, ma sempre l’aria più pura, sempre il cielo più limpido e più sublime passeggia. Egli con un prezioso musaico di mille ingegnosi pensieri compone i ritratti delle cose che rappresenta; emulo di quel gran Pompeo, che trionfante (ancorchè veriore luxuria quam triumpho1) portò l’imagine del suo volto, solo di diamanti, di rubini, di zaffiri, di carbonchi, e di perle composta; con sì bel contrasto fra ’l disegno ei colori, che non si sapeva qual più ammirare, o la materia, o il lavorio. Quella Venere (quam Græci Charita vocant2, che Apelle diceva mancare ad ogni altro pennello fuorchè solo al suo, manca ad ogni altra penna fuorchè a quella dello stil concettoso, che tanto espresse e vive vi ritrà le figure, quanto sono sue proprie le vivezze. Non è ora il mondo qual’era, quando gli uomini nati dalle querce mangiavano le ghiande per confetti. Nel sapor delle Lettere egli ha oggidì il gusto sì dilicato, che vuole non solo che il licore che bee per gli orecchi (che sono le bocche dell’anima ) sia prezioso, ma che lo sia nientemeno la tazza che lo porge, sì che e la materia e la maniera di porgerla sia degna di lui. E questo stile ingegnoso appunto è quel solo, in cui turba gemmarum polumus et smaragdis teximus calices3. Quell’antica oziosa maniera di dire, che in un discorso di molte ore v’imbandisce una gran tavola, par che vi pasca, perchè vi trattiene: ma vi lascia in fine, come prima, famelico: nella maniera, che Tantalo,

          In amne medio faucibus siccis senex
          Sectatur undas. Abluit mentum latex,
          Fidemque cum jam sæpe decepto dedit,
          Fugit unda; in ore poma destituunt famem4.

Mercè che vi promettono frutti, è vi danno foglie di sole parole; e vi lasciano quanto sazj gli orecchi, tanto digiuna la mente. Ma il dir moderno, tanta varietà, tanta copia [p. 143 modifica]di soavissimi cibi vi mette inanzi, che togliendoveli al primo assaporarli che fate, e mettendone altri nuovi, vi tiene sempre sazio e sempre con fame: conforme all’antica legge delle cene più nobili, in cui dum libentissime edis, tunc aufertur, et alla esca melior atque amplior succentu riatur; isque Flos Cœnæ habetur5. Nè perchè sia bello e vago lo stile, è egli perciò o mollemente donnesco, o poco robusto alle imprese del persuadere. La grazia non gli toglie la forza. Egli ha lo stesso vanto de soldati di Giulio Cesare, che sapevano etiam unguentati bene pugnare6. Porti Ajace lo scudo di cuojo, senza ornamento, orridamente negletto; Achille, che l’ha coperto d’oro e seminato di diamanti, non è perciò men forte, perch’è più bello7. Imaginatevi un’Alcibiade ugualmente generoso nel cuore e bello nel volto, che gode di comparire in battaglia con la ghirlanda di fiori su l’elmo, e co’ricami sopra la corazza, e di combattere si adorno, come altri adorno trionfa.

Così parlano questi del loro stile, fuor di cui null’altro lor piace. Una composizione senza quel ch’essi chiaman Concetti, quasi una bocca cui gelasinus abest, non degnano nè pur di mirarla. Al loro palato quel solo che punge ha buon sapore; tutto il restante, Melimela fatuæque mariscæ, è cibo da fanciulli. In fine sì idolatrano la sustanza, che molte volte adorano il solo nome di Concetto, ove sospettan che sia; e poco men che non dissi, fanno con essi ciò, che con le perle colei schernita da Marziale8:

          Non per mystica sacra Dindymenes,
          Nec per Niliacæ bovem juvencæ,
          Nullos denique per Deos Deasque,
          Jurat Gellia, sed per Uniones.

All’incontro Stile moderno, dicono altri, non è cotesto. Se ne raffiguri l’imagine viva e vera in quell’antica pittura, che ne lasciò Quintiliano9, che pure non fu il primo che’l ritraesse. Ma siasi come si vuole antico o moderno; abbiasi da chi che sia lode e applausi; vuolsi udire ancora [p. 144 modifica]quel che altri tutto in opposto ne dicono: cioè, ch’egli, o si miri la natura, o l’uso che ha, su le bilance di buon giudicio non pesa nulla, perchè tutto è leggerezza; non ha punto di sodo, perchè tutto è vanità. Fa come gl’Indiani d’Occidente, che più stimavano un vetro che una perla, una campanuccia di rame che un gran pezzo d’oro: di questo va ricco e pomposo, et omne Ludicrum illi in pretio est10. Gli autori suoi fantasticando giorno e notte si struggono e si sviscerano il cervello, come Ragni, per tessere d’ingegnose sottigliezze le tele de’ loro discorsi.

Faticano in lavorare concetti, che il più delle volte riescono sconciature o sconcerti; fatture di vetro lavorate alla punta d’una lucerna, che solo toccate, per non dir vedute, si spezzano: e pure quanto più fragili, tanto più belle, imo quibus pretium faciat ipsa fragilitas11.

Materia di dolcissimo trattenimento è vedere i loro componimenti, quasi sogni d’infermi, passare ad ogni periodo de genere in genus, provando veramente in fatti quello stesso, che dicono, i loro concetti esser baleni e lampi d’ingegno; poichè oltre l’essere in essi il comparire e lo sparire tutto uno, nello stesso momento balzano da Oriente in Occidente, e molte volte sine medio. Ogni lor carta rassembra una coda di Pavone, da Tertulliano spiegata in faccia al Sole, tanto varia ne’colori, quanto incostante nel moto12: Numquam ipsa, semper alia, etsi semper ipsa quando alia. Toties mutanda, quoties movenda. E perchè hanno per massima, che questa maniera di comporre sia un tesser ghirlande di fiori, quæ varietate sola placent13, perciò vi caccian dentro ciò che può e ciò che non vuole entrarci: onde, în vederne le parti, vi verrà non tanto il detto quanto lo sdegno di Plinio, chè maladisse la superstiziosa cura dell’inventore d’un certo contraveleno, che con più di cinquanta diversissimi ingredienti, e alcuni di loro con particelle insensibili, si compone. Mitridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur, interim nullo pondere æquali, et quarumdam rerum [p. 145 modifica]sexagesima denarii unius imperata. Quo Deorum perfidiam islam monstrante? Hominum enim subtilitas tanta esse non potuit. Ostentatio artis, et portentosa scientiæ venditatio manifesta est, ac ne ipsi quidem illam noverant.

Da questo nasce lo sminuzzamento de’periodi trinciati in piccolissimi concisi, effetto della moltitudine di tante coserelle minute, ciascuna delle quali finisce il senso e muta pensiero, et tam subito desinunt, ut non brevia sint, sed abrupta14. Anzi, come l’altro Seneca disse15, non desinunt, sed cadunt, ubi minime expectes relictura.

Finalmente dal non dir mai quello che dicono, nasce il dirlo cento volte: sì che come di quegli che, cominciando sempre con nuovi disegni la vita, non sanno viver vivendo, disse Manilio, Victuros agimus semper, neque vivimus umquam; così questi che hanno tal maniera di dire, che tanto posson finir sul principio quanto cominciar sul fine, di sè stessi potrebbon dire assai acconciamente,

          Dicturos agimus semper, neque dicimus umquam.

Perciò il loro discorso rassembra appunto l’infelice maniera di giucare, che Seneca diede per pena degna dell’Inferno a Claudio Imperadore; e fu, che sempre egli stesse sul gittar de’dadi, e mai non facesse colpo16:

          Nam quoties missurus erat, resonante fritillo,
          Utraque subducto fugiebat tessera fundo;
          Cumque recollectos auderet mittere talos,
          Lusuro similis semper, semperque petenti,
          Decepere fidem.

Quello poi, in che questi ingegnosi trionfano, è nelle descrizioni; dove quando son giunti, dicono a sè stessi: Hic Rhodus, hic salta. E pure in tanto sforzo d’arte e d’ingegno, e con maniere per lo più iperboliche e gigantesche, avvien loro per ordinario, che quanto voglion dir più, tanto meno dicano, dilungandosi ugualmente dal naturale e dal simile. Onde di molte loro fanciullesche descrizioni si potrebbe proporzionatamente dire quello, che Dorione d’una fiera tempesta di mare descritta da Timoteo: Majorem se in ferventi olla vidisse17. [p. 146 modifica]

Che direbbe oggi quel sottil Favorino, che leggendo in Virgilio colà dove descrive Encelado fulminante sotto il Mongibello, e dice,

                    Liquefactaque saxa sub auras
          Cum gemitu glomerat,

giudicò questo detto, in un Poeta, e che favellava d’un gigante, e d’un’Etna, omnium, quæ monstra dicuntur, monstrosissimum18 che direbbe, dico, se udisse: Svenar le rose su le guance, fabricare nelle ciglia archi di maraviglia al trionfo dell’altrui virtù, correre i campi dell’eternità co’passi del merito, e che so io? forme di dire usate eziandio in suggetti d’argomento familiare, e di cose che nou grandeggiano un palmo.

Note

  1. Plin. l. 37. c. 3.
  2. Plin. l. 15. c. 10.
  3. Plin, prooem. l. 43.
  4. Sen. Herc.
  5. A. Gell. l. 14. c. 8.
  6. Sueton. in Cæs. c. 6.
  7. Max. Tyr. Serm. 19.
  8. L. 7. Epigr. 81.
  9. L. 12. c. 10.
  10. Sen. Ep. 115.
  11. Plin. prooem. lib. 35.
  12. Tertull. de pall. c. 13.
  13. Plin. l. 21. c. 9.
  14. Sen. præf. l. a. Controv.
  15. Ep. 100.
  16. In Apocol.
  17. Athen. lib. 8.
  18. A. Gell. l. 17. c. 10.