Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/28
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28.
Dove sia colpa di mal giudicio usare Stile fiorito
e troppo ingegnoso.
Ma de’Concetti, e della maniera d’usarli, giudichi ognuno conforme alle ragioni e’l gusto che ne ha. Io, se ho a dirne alcuna cosa per necessità dell’argomento, gli stimo come le gioje, e ne prendo il pregio dalla Natura e dall’Uso: sì che non sieno falsi, ma reali; e non disordinati a tuttą baldanza, ma posti a lor luogo. L’uno è ufficio dell’ingegno che ha a trovarli, e l’altro del Giudicio che dee disporli.
L’ingegno non ha a prendere cristalli per diamanti, il giudicio non ha a volerli cacciare ove non entrano, facendo come i Barbari d’Occidente, che si tagliano la pelle del volto per incassarvi dentro le gioje, senza avvedersi d’essere più deformi col taglio che belli coll’ornamento. Il volto altro ornamento non cerca, che la sua natural bellezza; e più la guasta e disforma una ancorchè sceltissima perla che gli s’incastri in una guancia, che non la nera macchia d’un neo che per natura vi nasca. Parimenti nell’arte del dire, alcune cose compajono tanto più belle, quanto più schiette; e sono a guisa de’ ritratti, ne’ quali ben giudicò Plinio il minore, dicendo, che il Pittore ne errare quidem debet in melius.
Lisippo formò di getto una statua d’Alessandro, sì viva, che parve che nel bronzo fuso egli avesse trasfusa l’anima stessa di quel gran Monarca. Nerone, che fu crudele anche ne’ beneficj, e danneggiò infin quando pensò di giovare, avutala in suo potere con altre spoglie di Grecia, volle indorarla; giudicando, che una statua di sì prezioso lavorio non istesse degnamente sotto altro metallo, che d’oro. Non sapeva lo sciocco, che i volti guerrieri meglio con la crudezza de’ bronzi, che con la dolcezza di quel feminile e lascivo metallo s’esprimono. Dunque la statua nell’oro di Nerone perdè tutto il nobile d’Alessandro, tutto il maestrevole di Lisippo; e indorata, cominciò a parere una statua morta quella, che prima sembrava una imagine viva. Così bisognò corregger l’errore, e per colpa di Nerone scorticare Alessandro, togliendogli di dosso con la lima quella pelle d’oro che vi aveano attaccata col fuoco: e pure così lacero, così mal concio, riusciva più bello, che non prima quando era indorato. Cum pretio periisset gratia artis (disse l’Istorico1), detractum est aurum; pretiosiorque talis æstimatur, etiam cicatricibus operis atque conscissuris, in quibus aurum hæserat, remanentibus. Non sono dunque gli abbellimenti sempre abbellimenti, ma tal volta si trasformano in deformità: e dove
Ornari res ipsa negat, contenta doceri2,
l’essere soverchiamente e talvolta affettatamente (molto più se nelle prediche) concettoso, mostra in una gran dovizia d’ingegno una gran povertà di giudicio.
Negli affetti poi, o si prenda ad imitarli, o ad eccitarli, o ad acquetarli (ch’è la parte più difficile della professione del dire, perchè un’esquisita, arte di finissimo giudicio conviene nascondere sotto tanta naturalezza, che quanto si dice non paja dettatura dell’ingegno ma sfogamento del cuore, non lavorato ma nato da sè, non portato dallo studio ma trovato nell’atto stesso del dire), qual’uso può avere uno stile, che sia lambiccato a goccia a goccia allo stentatissimo lume d’una lucerna? con parole tormentate ne’traslati, doppie nelle allusioni, con sensi spiritosi e vivi, più abili a pizzicare il cervello che a muovere il cuore? Mortuum non artifex fistula (disse il Crisologo), sed simplex plangit affectio.
Io per me tanto, quando m’avviene udir maneggiare gli affetti con simili maniere sì disadatte, sento più nausea che chi patisce in mare, e mi pizzica la lingua quel detto d’un savio Imperadore, che ad un suo Ministro, che tutto putiva di muschio, nel cacciarselo di camera e di Corte disse: Mallem, allium oleres.
Come soffrirebbe nell’esprimer gli affetti l’affettazione d’uno stile fanciullesco quel Polo, gran maestro di scena; che per rappresentar più vivamente il personaggio d’Ecuba piangente la perdita del valoroso suo figliuolo Ettore ucciso, di cui portava le ceneri in un’urna, disotterrò le ossa del proprio figliuolo poco prima sepolto, ed empiutane l’urna, con quella fra le braccia comparve in iscena, lasciando l’arte del lamentarsi alla natura, ed esprimendo l’imitazione con la verità, mentre sotto maschera d’Ecuba rappresentava sè padre orbo, e sotto nome d’Ettore piangea la perdita del suo figliuolo? Così tanto è più vero quanto è più naturale lo stile degli affetti; nè è possibile, che mentre corrono tutti i pensieri a’movimenti dell’animo, l’ingegno abbia ozio d’essere studiosamente ingegnoso; nè che mentre è portata dal cuore alla lingua un’impetuosa e torbida piena di mille sensi, s’abbia tempo di scegliere le parole, di travestirle, portandole dal naturale al traslato, e d’infiorarle con abbellimenti e concetti. Anzi, chi ba giudicio di buon peso, se nel trattare qualunque materia d’affetti si vede dall’ingegno, troppo importunamente fecondo, offerire e metterè inanzi a fasci le sottigliezze e gli acuti pensieri, li ributta con la mano, e dice loro; Non est hic locus. Fa coll’occhio della sua mente quel medesimo, che fanno gli occhi del corpo quando veggono troppa luce. Gli stringe la pupilla, e n’esclude una parte. E saggiamente; così come quel celebre Aristonida3, che avendo ad esprimere in una statua di bronzo i furori, la vergogna, e’l dolore d’Atamanta, mescolò ferro con bronzo, e rintuzzò gli splendori di questo con la ruggine di quello. Lavorio maraviglioso, quanto men ricco di materia, tanto d’arte più preziosa, in cui la ruggine, che è vizio del ferro, divenuta virtù del bronzo, meritò d’esser pagata a peso d’oro.
Finalmente, dove abbia a favellarsi seriamente per convincere, per riprendere, per condannare azione, vizio, o persona, uno stile che canti in vece di tonare, che i vece di fulminare baleni, gittando a salterelli come schizzi d’una fonte i periodi che dovrebbero correre come un torrente, ognun vede quanto sia lontano dall’ottenere ciò che pretende. Non enim amputata oratio et abscissa, sed lata et magnifica et excelsa tonat, fulgurat, omnia denique perturbat ac miscet; scrisse Plinio il Consolo al suo amico Cornelio Tacito4. Nervosa ella vuol’essere e maschile; non donnesca, mollemente acconcia, e tutta cascante per vezzi. Il suo sembiante non giuchevole e ridente, ma maestoso e severo; di cui possa dirsi come di Plutone il Poeta5:
Vultus est illi Jovis; sed fulminantis.
Che vanità, dice Ippocrate6, occuparsi più in ricamare le fasce, che in saldar le ferite? quasi che la bellezza delle bende sia il balsamo delle piaghe. Certe lime logore e sdentate servono ad imbrunire il ferro, e dargli il liscio e’l lustro. Ma dove è ruggine, altro ci vuole. Che graffj, che morda, che scortichi. Quanto più intacca nel vivo, tanto fa meglio. Quid aures meas scalpis? quid oblectas? Aliud agitur. Urendus, secandus, abstinendus sum. Ad hæc adhibitus es. Tantum negotii habes, quantum in pestilentia Medicus; circa verba occupatus es7?
Lo stile con che si combatte co’vizj è così guerriero come la spada; la cui bontà e finezza non è posta negli ori dell’elsa, non ne’ diamanti del pomo, ma nella tenfpera dell’acciajo. Anzi, quanto ella è più ingiojellata e più ricca d’intagli e d’ornamenti, tanto peggio s’impugna e meno · speditamente si maneggia. E ben disse quel bravo guerrier Tebano, Epaminonda, ad un profumato giovane Ateniese, che si ridea del rozzo manico di legno della sua spada8: Quando noi combatteremo, tu non proverai il manico ma il ferro e il ferro ti farà piagnere, se ora il manico ti fa ridere. Auri enim fulgor atque argenti (dice Tacito) neque tegit neque vulnerat.
Sia dunque lo stile, dove s’ha a combattere, non uno sposo, ma un guerriero. Dove le parole hanno ad esser saette, non si empia la bocca di fiori per mandarne ad ogni periodo un nembo; come se i vizj fossero Scarafaggi, a’ quali l’odor de’ fiori è veleno mortale; o si volessero uccidere i suoi avversarj come Eliogabalo i suoi amici, affogandoli nelle rose. È una non ancor’intesa pazzia, far duello ballando, e mescolare gli assalti con le capriole e i fioretti con le passate. Arma nuda non vuole scherzi. Colpi, che hanno a far piaga nel cuore, non si tirano incontrando il petto nemico con maniere vezzose più di chi abbraccia che di chi ferisce.
E con ciò non vi sia chi creda, che allo stile serio e severo manchi la bellezza col mancargli gli abbellimenti delle arguzie e de’soverchj concetti. I Lioni per esser belli non vogliono aver pettinata la giubba, indorate le ugne, • co’pendenti a gli orecchi, e vezzi di perle al collo, lascivamente acconci. Quanto più orridi, tanto sono più belli; quanto più ispidi e rabbuffati, tanto più vagamente acconci. Hic spiritu acer (disse Seneca9), qualem illum esse natura voluit, speciosus ex horrido, cujus hic decor est non sine timore aspici, præfertur illi languido et bracteato.