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parte seconda | 145 |
sexagesima denarii unius imperata. Quo Deorum perfidiam islam monstrante? Hominum enim subtilitas tanta esse non potuit. Ostentatio artis, et portentosa scientiæ venditatio manifesta est, ac ne ipsi quidem illam noverant.
Da questo nasce lo sminuzzamento de’periodi trinciati in piccolissimi concisi, effetto della moltitudine di tante coserelle minute, ciascuna delle quali finisce il senso e muta pensiero, et tam subito desinunt, ut non brevia sint, sed abrupta1. Anzi, come l’altro Seneca disse2, non desinunt, sed cadunt, ubi minime expectes relictura.
Finalmente dal non dir mai quello che dicono, nasce il dirlo cento volte: sì che come di quegli che, cominciando sempre con nuovi disegni la vita, non sanno viver vivendo, disse Manilio, Victuros agimus semper, neque vivimus umquam; così questi che hanno tal maniera di dire, che tanto posson finir sul principio quanto cominciar sul fine, di sè stessi potrebbon dire assai acconciamente,
Dicturos agimus semper, neque dicimus umquam.
Perciò il loro discorso rassembra appunto l’infelice maniera di giucare, che Seneca diede per pena degna dell’Inferno a Claudio Imperadore; e fu, che sempre egli stesse sul gittar de’dadi, e mai non facesse colpo3:
Nam quoties missurus erat, resonante fritillo,
Utraque subducto fugiebat tessera fundo;
Cumque recollectos auderet mittere talos,
Lusuro similis semper, semperque petenti,
Decepere fidem.
Quello poi, in che questi ingegnosi trionfano, è nelle descrizioni; dove quando son giunti, dicono a sè stessi: Hic Rhodus, hic salta. E pure in tanto sforzo d’arte e d’ingegno, e con maniere per lo più iperboliche e gigantesche, avvien loro per ordinario, che quanto voglion dir più, tanto meno dicano, dilungandosi ugualmente dal naturale e dal simile. Onde di molte loro fanciullesche descrizioni si potrebbe proporzionatamente dire quello, che Dorione d’una fiera tempesta di mare descritta da Timoteo: Majorem se in ferventi olla vidisse4.