Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/18
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18
L’infelice fatica di chi studia e scrive materie affatto disutili.
Gli Alchimisti sono uomini di più ventura che senno. Senno per verità non hanno, benchè del grande albero della pazzia il loro ramo forse sia de’ più belli in apparenza, cioè quel ramo d’oro, che mette prima all’Infern o che a’Campi Elisj. Ma sono ben’anche avventurati; perchè cercando, com’essi dicono, la Pietra de’Filosofi, col favore dell’arte finalmente la truovano, ed è quell’aurea antica Povertà, vero Lapis Philosophorum, che non lasciando loro al mondo nulla, gli toglie dal fastidio di conservare e dal pericolo di perdere, privilegj amendue: della vera età dell’oro. Pretendono i poco avveduti, di fissare il Mercurio in argento; e non s’accorgono, che il Dio de’ Ladri sa meglio torre l’altrui, che dare il suo. Voglion tramutare la Luna in Sole: la Luna, che mai non si perde più, che quando più al Sole s’avvicina1. Ma sopra ogni altra cosa, degna di maraviglia è la forza di quel dolcissimo incanto della speranza, che togliendo a questi miseri pazzerelli di capo il senno, di mano i danari, da gli occhi il sonno, e dal cuore l’amore di tutto il mondo, gli accieca sì, che non veggono quello che pruovano; e tormentando loro la vita niente meno ch’essi i minerali intorno a’quali lavorano, gli rende stupidi alla pena e insensibili al tormento. Così li vedete come Farfalle aggirarsi ogni momento intorno a una piccola lucernetta, che dà calore ad un’ermetico fornello; e in uno stesso tempo ridere a quel lume, e piangere a quel fumo. Fia tanto che, compiuto il magistero, venendosi alla raccolta del seme vivo che cercano, truovano un bello ex nihilo nihil. S’è fatta volatile tutta la speranza, e son rimase fisse sole le fecce. La Fortuna, che stava su un pallone di vetro, rotto quello, è caduta. E da tutto per ultimo si conchiude, che l’oro non germoglia senon ne’ traffichi, e non fa vena o miniera senon ne’ Banchi.
Io v’ho disegnato alla rozza la stolta ugualmente e infelice fatica de’miseri Alchimisti, che, con non altro guadagno che d’un fumo che li fa piangere, spendono ciò che hanno e ciò che sono; affinchè nella loro intendiate meglio la pazzia di tanti, che, forniti di qualche talento d’ingegno, e quello e il tempo e la fatica, con che si limano la sanità e distillano il cervello, spendono nell’inutile lavorio di certi libri, le cui materie servano solo a consumare il tempo di chi le legge, sì come consumaron la vita a chi le scrisse.
So che Favorino avvisa2, che per aguzzare l’ingegno, quando dall’ozio di molto tempo ci paja rintuzzato e ottuso, ottimo mezzo sia prendere a trattare materie inutili e allegre. Così fece egli, che lodò Tersite e la Quartana, come Dione la Zazzera, Sinesio la Calvezza, Luciano la Mosca, e cento altri intorno a simili suggetti s’occuparono. Ma altro è risvegliare o ricreare l’ingegno con materie, benchè inutili, almeno allegre; altro stancarvelo attoruo con gli sforzi, e consumarvelo col lungo tempo, aspettando da esse tutta la gloria de’ lunghi suoi studj, come quell’altro, che diceva:
Ille ego sum nulli nugarum laude secundus3.
Che vi par’egli d’Aristomaco, che con esattissime osservazioni d’ogni tempo, poco meno che non dissi d’ogni ora, per sessanta due anni continovi, spiò la natura dell’Api? Tanti anni, tanta diligenza, a me non pare che fossero per minor guadagno, che di scoprire tutti i segreti del cielo, di stabilire tutti i periodi de’ pianeti.
Seneca s’impazienta con certi Filosofi del suo tempo, che le lunghe veglie della notte e l’implacabili dispute del giorno, consumavano intorno a certe fanciullaggini, meritevoli non so se più di riso o di sferza4. Mus syllaba est; syllaba caseum non rodit; Mus ergo caseum non rodit. O pueriles ineptias! In hoc supercilia subduximus? In hoc barbam demisimus? Hoc est, quod tristes docemus, et pallidi? Gli uomini si suol dire che sono due volte fanciulli, una quando escono dalle fasce, l’altra quando nell’ultima vecchiaja rimbambiscono: ma chi in queste inettissime vanità occupa, per non dire consuma, la vita, non bis puer est, ut vulgo dicitur, sed semper: verum hoc interest, quod majora ludit; disse vero Lattanzio5.
A che pro sviscerarsi studiando, per tessere una tela cacciatrice di Mosche? adoperare, come Nerone reti di porpora e d’oro, pensieri e discorsi d’un prezioso ingegno alla pesca di Scardove e di Lasche? Quis non miretur (disse Plinio parlando de’platani, alberi che non fruttano altro che ombra) arborem umbræ gratia tantum ex alieno petitam orbe? Sono forse sì rare in Europa le ombre; o coteste de’platani, perchè son barbare, sono più belle, sì che per mezzo a’naufragi debba irsi a’confini del mondo, per avere la pianta che le produce? V’è sì gran carestia d’inutili ciance al mondo, o si vendon sì care, che l’empirne mille infelici fogli v’abbia a costare studio, veglie, fatica, e una non piccola parte di vostra vita? S’io posso aver pensieri di sublime ingegno, che volino in alto come l’Aquile o gli Sparvieri, per far nuovi acquisti di caccia; perchè vorrò io, che siano come le Allodole, che altra mercede d’una faticosa salita e d’uno stentato volo non cercano, che quell’inutile canticchiar che fanno, dopo il quale si lasciano d’alto cadere a piombo a terra, allegre e contente, come se avessero insegnato una lezione di musica alle Sirene del cielo?
V’è (scrive l’Oviedo) nell’Indie d’Occidente gran copia di cotoni, d’allumi, e d’altre somiglianti ordinarie mercatanzie, di che abbondantissimo è quel paese: ma non v’è chi degni levarle; nè si cercan que’ Porti senon per caricare le navi d’oro, d’argento, di perle, e d’aromati. Un viaggio sì lungo, sì difficile, sì pericoloso (tale era in que primi tempi) non vuol farsi per meno. Ahi sciocchissimi inercatanti! Il viaggio della vita vostra, di cui studiando spendete una gran parte, la felicità dell’ingegno, la fatica del comporre, che vi potrebbero empire i libri d’oro e di perle, voi solo le adoperate per farvi ricchi, di che? favole, questioni da nulla, (quasi m’usci della penna Romanzi,) poesie d’amore, riforme d’antichi testi sformati più volte che riformati, correzioni a capriccio, conghietture, imaginazioni, che so io? Quare appenditis argentum, et non in panibus? disse Isaia, e l’intese San Girolamo delle poco utili Scienze del secolo, quanto più delle affatto vostre inutili sciocchezze? È egli ancor vivo Tiberio6, che vi oblighi a dirgli, Ecuba di chi fosse figliuola? Achille, nascoso fra le Vergini di Licomede, qual nome prendesse? le Sirene di che soglian cantare, quando incantano i passaggeri? da qual mano restasse ferita Venere da Diomede? da qual piè zoppicasse Filippo7? È ancor vivo Domiziano, che v’insegni a spendere ogni giorno molte ore nell’inutile caccia di queste Mosche?
Eliogabalo, per dare al mondo argomento della grandezza di Roma, lo stolto, fece raunare tutte le tele di Ragno che per le case d’essa pendevano; e fattone un montone, quello stimò abile fondamento ad un concetto pari alla grandezza d’una Città reina del mondo. Non v’è niun Savio, che non si rida di questo pazzo. Ma non è egli questa pazzia la medesima di coloro, che, per dare un publico saggio del loro ingegno, raccolgono una massa più di tele di Ragno che di carte in un libro, inutili e vane materie scrivendo? Utinam taceretis, et videremini sapientes8. Vi facciano quanto si voglia grandi gli applausi di stolti amici: questi non sono mai più, che, quali Diogene chiamava le maraviglie che si facevano a gli spettacoli di Bacco, magna miracula stultorum9.
Ma fra le inutili fatiche degl’ingegni (come che gl’interessati sieno per risentirsene) accenno solo doversi riporre ne’primi luoghi quella, che San Basilio acconciamente chiamò negotiosissimam prorsus vanitatem, l’Astrologia non so ben s’io dica giudiciaria, o senza giudicio; degna più del dispetto che degli aspetti delle stelle, da cui ella cava le bugie per rivenderle tanto più care, quanto le fa mercatanzia celeste. L’arte sua è fabricare dodici case in cielo per mezzo d’uomini, che molte volte non hanno un tugurio in terra; e con le loro mani, mendiche del pane per vivere, dispensare a chi ricchezze e dignità, a chi disavventure, e precipizj. Non le diceste (come Diogene a colui, che parlava si francamente del cielo10) Quandonam de coelo venisti? Perch’ella professa di saper leggere in quel gran volume le fortune d’ognuno, scritte con caratteri di stelle, e cifre d’aspetti: di saper rintracciare ne’periodi di quelle sfere i corsi della vita d’ognuno: di potere stringere in trini e quadrati e sestili, quasi magiche figure, le stelle e i pianeti, e sforzarli a dire i futuri avvenimenti delle cose sì publiche come private: in fine, d’esser profetessa del vero. E tutto questo, a forza di simili osservazioni, che mai non ebbero simile figura in cielo: a dipendenza da un legittimo punto del nascere, di cui cerca il peso su le bilance d’Ermete: a virtù di Figure celesti, imaginate a capriccio da altrui, osservate da essa per mistero: a forza di cose, che non son nulla di sussistente o reale, quali sono amendue i Nodi e la Parte della Fortuna: in fine, a dispetto del vero non trovato, ma incontrato; non a forza d’arte, ma solo per caso di mille predizioni in una sola, si vale per travestire il falso da credibile, e persuadere il credibile come vero.
Che dunque merita questa professione, che ha per ufficio d’ingannar gli uomini in terra, e infamar le stelle in cielo? Voi datele il Caucaso e l’Avoltojo di Prometeo; se vi par che sia colpa molto maggiore far menzognero il cielo, bugiardi i pianeti, e maligne le stelle, che torre alla ruota del Sole una scintilla di fuoco, un raggio di luce, per avvivar con esso le morte statue d’Epimeteo, e trasfonder loro nel petto anima e senso. Io, per non entrar giudice a danno altrui, la rimetterei al tribunale dell’Imperadore Alessandro Severo, che castigò Turino suo favorito, perchè con false promesse vendeva la grazia del Padrone. Condannollo a morire annegato dal fumo, gridando a gran voce il Trombetta: Fumo punitur, qui vendidit Fumum.