Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/19

Parte seconda - 19. Che reo dell'Ignoranza di molti è chi può giovare a molti con le stampe, e lo trascura.

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Parte seconda - 19. Che reo dell'Ignoranza di molti è chi può giovare a molti con le stampe, e lo trascura.
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AVARIZIA

19

Che reo dell’Ignoranza di molti è chi può giovare a molti
con le stampe, e lo trascura.

Uomo non v’è, per cui mantenere più mal volentieri si affatichi il Mondo e s’adoperi la Natura, quanto chi, non curante d’altrui, vuole vivere per sè solo. Questi anche nella sua patria è pellegrino, e in mezzo a’popoli solitario; ha sembiante d’uomo, ma è una fiera fra gli uomini, che così non meritava di nascere d’altrui, come non cura di vivere che per sè stesso.

Fra costoro non vi sia dubbio, se annoverar si debbano certi avarissimi ingegni, che i talenti d’oro delle scienze e dell’arti, di che son doviziosi, vogliono che seco si sotterrino nel sepolcro, prima di lasciarne utile a’posteri con le stampe.

Che se per farlo altro stimolo non vi fosse che la gran mercede di quell’onorata memoria, con che dopo morte immortalmente si vive:

                              An erit qui velle recuset
          Os populi meruisse, et cedro digna locutus
          Linquere, nec scombros metuentia carmina nec thus?

Ma non v’è questo solo allettamento che possa, v’è ragione più forte che debba persuadere il farlo: e questa è il publico interesse, che trascurar non si può con iscusa d’essere poco curante del proprio. Tanto più, che la Sapienza non si riceve dal Cielo, come dono che possa perdersi in noi, ma come prestanza, perchè a’successori si renda. Sì che il farlo non tanto è Liberalità, quanto in certo modo´ [p. 112 modifica]Giustizia. Si riceve come il lume dal Sole nell’aria, perchè si trasfonda alla terra, e nou si ritenga invisibile ad altrui e poco utile a noi.

Dunque nel corso di tanti secoli avranno i nostri antenati, solitarj, pallidi, smunti, vegliate le lunghe notti, e consumate non tanto l’ore del giorno quanto i giorni della lor vita, per cavarsi a colpi d’ostinatissimi studj dalle ricche miniere de’loro ingegni vene d’oro di nuove verità, e nuovi conoscimenti; e isponendole liberalmente, avranno fatto publica eredità il privato lor patrimonio, perchè noi, ingrati a gli avoli, invidiosi de’nepoti, e il loro e il nostro avaramente sepelliamo?

Chi si mette in mezzo fra i nostri maggiori e quei che ne verran dietro, e mira l’esempio di quelli e ’l bisogno di questi, non veggo come possa aver cuore per negare o a quelli l’imitazione o a questi l’ajuto. Che se il solo mirare le morte imagini di coloro, che ne’ publici maneggi di pace o di guerra acquistarono nome di grandi, non può di meno che non ci punga il cuore e non c’invogli i desiderj di somiglianti imprese; in vedere ne’ libri espresse al naturale le vive e spiranti imagini dell’ingegno di quell’animè grandi che ivi a pro del mondo ancor vivono, ancor parlano, ancor” insegnano, può chi è rozzo non invogliarsi d’intendere, e chi sa non vergognarsi di tenere avaramente nascoso ciò, che altri solo per commun giovamento raccolse? Sume in manus indicem Philosophorum (dice il Morale1). Hæc ipsa res expergisci te coget. Si videris quam multi tibi laboraverint, concupisces et ipse ex illis unus esse.

Pur’è, disse Filone2, la Sapienza un Sole, a cui non può torsi lo splendore senza distruggerla. E l’anime di più alto intendimento, molti Platonici le formarono Simbole di natura col fuoco, cujus unius ratio foecunda; seque ipse parit, et minimis crescit scintillis3.

Che se a persuaderci non basta l’esempio de’maggiori, si miri il bisogno de’ posteri; a’ quali è doppia crudeltà [p. 113 modifica]negare ciò, che noi daremmo con guadagno, ed essi riceverebbon con utile. Togliete dal mondo questa inviolabil legge, che non si truova scritta ne’ marmi, ma si porta stampata nel cuore, di fare che, come il nostro amore, così i nostri beni discendano a’posteri; non avete con ciò, senon distrutto il mondo, fattolo barbaro e selvaggio? Che se avventurosi ci pajon coloro, che a’posteri di lor sangue tramandano copiose rendite annovali, e stabiliscono con le ricchezze che lasciano una felice fortuna al casato; qual più preziosa e più stabile eredità può lasciarsi, che le dovizie della mente e i talenti d’oro del proprio ingegno? Rendite sono coteste, che nè sceman coll’uso, nè si consuman col tempo, nè con le publiche o private rovine finiscono. Sempre vive, sempre intere, e sempre col primo prezzo in colmo, ugualmente giovevoli. E di qui trasse il secondo Plinio quel gagliardo motivo, con che persuase ad un’amico a lasciar per publico giovamento qualche frutto de’suoi lunghi e faticosi studj. Effinge aliquid et excude, quod sit perpetuo tuum. Nam reliqua rerum tuarum post te alium alque aliam dominum sortientur. Hoc numquam tuum desinet esse, si semel cœperit4.

་Ma eccovi ciò, che questi sordidissimi avari sanno dire per lor difesa. Io non son debitore a veruno di quello che è mio, Fatichino gli altri come me, troveranno da sè ciò, che viltà è mendicare da altrui. Questa è pietà, non rigore; amore delle Lettere, non odio de Letterati: conciosiecosachè infingardi s’allevino gl’ingegni, quando truovano in altrui ciò, che trar dovrebbero da sè stessi. La necessità rende ingegnoso, e fa, che chi sarebbe sempre scolare studiando l’altrui, diventi maestro inventando di proprio. Così si fanno gli Achilli, dando loro intere le ossa de’ Lioni, perchè se le spezzino, e ne mangino le midolle: così i bravi notatori, abbandonandoli ove più rapida è la corrente, perchè non tanto l’arte, quanto la necessità insegni loro ad uscirne.

le Or non s’avveggon costoro, che, quando ciò sia, Lettere staranno sempre su’l cominciare? Se chi spese molti [p. 114 modifica]anni cercando, non insegna a verumo ciò che trovò; chi viene dopo lui, quando anche sia ugualmente sollecito in cercare, ugualmente felice in trovare, non saprà nulla di più: e quando faranno accrescimento di Lettere? Anzi il sapere ciò che altri trovò, fa trovare ciò che altri non seppe. Servono a noi di principj quelle, che ad altrui furono conseguenze; e di lì cominciamo noi a cercare, dov’essi cercando finirono. La Sapienza, disse Agostino, si dà non per ischiava, ma per isposa; e vuole da noi successione e figliuoli: Hoc est, ingenii fructus, et quosdam mentis partus, quos non tam libros, quam liberos dicimus. E quando ella ciò non impetri, piange, non dirò come colei che diceva: Saltem mihi parvulus aula Luderet Æneas, ma come l’innocente figliuola di Jefte, che piangeva più la verginità che la morte; essendo vera e sola morte, morire senza lasciare posterità in cui si viva. Che se una colpevole sconciatura fa omicida la madre, et quæ originem futuri hominis extinguunt (disse Minuzio5, parricidium faciunt antequam pariant; uccidere in seno alla Sapienza ciò ch’ella quasi gravida de’ nostri pensieri concept, ucciderlo perchè non nasca, non è parricidio? Non è homicidii feştinatio prohibere nasci6?

Altri vi sono, che si difendon con gli anni, e si scusano con la vecchiaja; che, potendo a grande stento viver per sè, come possono faticar per altrui? A chi ha girato assai, crudeltà è il negare che raccolga l’ali nel nido, e ammaini le vele nel porto. Altri tempi, altre cure. Gli occhi inclinati al sonno della morte, più che alle veglie degli studj, non possono fare altrui, senza pericolo d’errori e d’inciampi, la scorta.

Ma, s’io mal non intendo, queste non sono parole di chi voglia vivere i pochi anni che gli restano, ma di chi vuol morire alcuni anni prima che gli venga la morte: e morire chiamo io il non far’altro che vivere. Gli studj dell’ultima sua vecchiezza riuscivano a M. Varrone tanto più dolci, quanto egli era più vicino a morire: perchè, non conoscendo altro vivere più da uomo che intendere, così [p. 115 modifica]allungava la vita, come lo studio; e diceva a sè stesso: Dum hæc musinamur, pluribus horis vivimus7. Anzi Seneca, quel nobile ingegno, prendendo dalla vecchiaja stimoli per affaticarsi, onde altri cerca titolo di riposo, su gli ultimi anni della non intera sua vita s’applicò a rinvenire gli occulti segreti della naturale Filosofia; e con ciò, quasi maggior di sè stesso, diceva col suo Poeta,

          Tollimus ingentes animos, et grandia parvo
          Tempore molimur.

Indi, quasi spronandosi il fianco, e stimolando la pigrizia della fredda età, Festinemus, diceva8; et opus, nescio an superabile,magnum certe, sine ætatis excusatione tractemus.

Chi vide mai, dice Plutarco9, le Api per vecchiaja anneghittite, starsi infingarde e oziose co’ fuchi, e non volare a’ fiori, e non raccorre il mele; ciò che giovinette facevano? Toglietemi il potere scrivere, diceva Gellio10, m’avete tolta la vita. Tanto solo dimando di viver per me, quanto posso servire ad altrui. Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc facultatem scribendi commentandique idoneus.

Sia dunque il ripartimento della vita di chi fa professione di Lettere, qual’era quello delle antiche Vestali di Roma, che in tre aggiustatissime parti si divideva11. Nella prima, imparavano le cerimonie e i riti, Scolari delle Maggiori: nella seconda, le praticavano, Compagne delle Mezzane: nell’ultima le insegnavano, Maestre delle Minori. Così le foglie servieno a’ fiori; e i fiori cadendo, con un felicissimo fine, si legavano in frutti.

Note

  1. Sen. Ep. 39.
  2. De insomn.
  3. Plin. l. 1. c. 107.
  4. Lib. 1. Ep. 3. Ruffo.
  5. In Octavio.
  6. Tertull. apolog. c. 9
  7. Plin. præf. lib. 1.
  8. Præfat. lib. 3. quæst. nat.
  9. An seni gerenda Respub.
  10. In fine Noctium Attic.
  11. Plut. ibid.