Dell'entusiasmo delle belle arti/Discorso all'italiana gioventù
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ALL’ITALIANA
GIOVENTÙ1
Quale occasione facesse uscire alla luce
già due lustri addietro questo lavoro
giova esporre sin da principio, affin
di giustificare se fa di mestieri la nuova
idea di quello, o per confortarmi
nell’incerto riuscimento colla certezza
del mio buon volere inverso alla patria,
e specialmente alle più care speranze
di lei, all’ottima gioventù. In
un giro per me fatto allor nella Lombardia
m’avvenne di ritrovare eletti
giovani per molto ingegno, e studiosi per molto amore dell’ottime discipline,
cioè dell’utili insieme, e delle
ornate e liberali. Scosso assai prestamente
l’ingombro della lor prima e
languida educazione privata, già corsi
aveano varj e nuovi paesi di più vasta
letteratura, veduti aveano sentieri
e campi assai più fertili e più gloriosi,
e con nobile emulazione raccolte
a gara n’avean dovizie d’ogni maniera,
fissando il piede ed abitando più
lungamente in alcuno dietro la scorta
de’ grandi esemplari e maestri del nostro
secolo, e dell’antico. La storia,
le matematiche, la discernitrice ed osservatrice
filosofia succedute erano alle
utili lingue, e all’inutile e lieve filologia.
Ma principalmente animati mi
parvero a tentare progressi, non pensavano
esser dotti, conoscevano le difficoltà non meno, che l’estensione del
vero sapere; erano infine modesti, ma
non però scoraggiti. Per tutto vidi
emulazione e calore, ed in ogni lato
apparivano chiare speranze di chiare
imprese, che già in gran parte avean
messo frutto nella metropoli. Ciò rimirando
io spesso ed attentamente a
Milano, a Pavia, a Cremona, a Reggio,
a Modena, a Parma, ed a Verona
dove più dimorai; già trascorrea
col pensiero più avanti e tra me stesso
dicea con gioja: di quest’eletto drappello
d’ingegni lombardi quanti avrem
tra dieci anni prodi scrittori, preclare
opere, nuove scoperte, storie eccellenti!
e prevedeva un secolo luminoso filosoficamente
rinnovellato, estendo pur tanto
proprio del vero filosofare urtar sempre,
allargarsi, e produrre, e dicendosi non men proprio degl’italiani il
non potere nella mediocrità consistere
e far posa. Al qual pensiero e spettacolo
infiammandomi ognora più la memoria
de’ giovani mantovani, e vicentini,
de’ bolognesi, e de’ ferraresi da
me conosciuti, e in gran parte, siccome
gli altri da me educati alle lettere,
e al buon costume in compagnia
d’uomini di me migliori, e con a fianco
l’amor della patria, e dell’arti in
me sempre vivissimo, fui sospinto a
concorrere secondo mie forze, ma con
tutta l’anima, a così lieti presagj,
ponendo tutto me stesso a dar forma
ad un’opera un tempo abbozzata, che
senza stimoli tali rimasta sarebbesi
nell’ozio suo di molt’anni. Così pensai
di poter sempre meglio appianar
quella strada, che già tentato avea disboscare dall’impaccio di studj servili
ed infruttiferi, or col distogliere
ancor ridendo la gioventù dal prurito,
o dell’uso di verseggiar per far
versi, ora sferrando la superstiziosa
imitazione de’ mal conosciuti2 esemplari,
ed or mettendo sospetto di molte
false opinioni ed abusi nell’arti
italiane a gran danno allignati. E
quantunque avessi anch’io per ventura
gittato il tempo più che non bisognava
nel poetare, confortavami nondimen
la coscienza e l’amor proprio non
cieco d’aver sempre, ancor cantando,
mirato al bene e all’onore gli ottimi studj, e dell’arti a prò della patria, tal che pareami aver già prevenuto felicemente il bel senso e profondo di quelle parole da un de’ giovani scritte di gran pregio degno. “Per condur gli uomini alla verità bisogna3 per lo più non sol toglierli dalla nuda ignoranza, ma dall’errore, onde sono due operazioni da farsi, distruggere, ed edificare. Il metodo è forse questo; por l’errore in ridicolo, poi annunziare la verità seducendo il cuor colle immagini dell’eloquenza. Poi egli è tempo di freddamente ragionare, perch’egli è più facile il far ridere che il commovere, più il commovere, che il convinvincere„ Così mi proposi di far un ultimo tentativo de’ miei pochi talenti, e sebben diffidassi di poter fare quant’io bramava, nè quanto pure in quel detto intendea bisognare, pur fidato nel buon volere, e strignendomi quasi un obbligo di non mancare a primi sforzi già fatti contro quell’ignoranza e quegl’errori, m’accinsi all’impresa. Troppo lieto sarei e senza dubbio troppo superbo, se di rispondere mi lusingassi a un altro splendido sentimento d’altro giovane valoroso, che letto avendo l’analisi del mio entusiasmo scriveami “Così fa ella sentire come operi4 luminosamente l’entusiasmo medesimo. Amo grandemente, che ci sia una storia metafisica
dell’entusiasmo, la quale ci
compenserà di tutte le poetiche, che
dovremo ardere: così diverranno carta
da straccio il Castelvetro, il Minturno,
e quel crudele uomo del Quadrio.
Che non ci vedrà per entro il
dotto? Vedrà le cagioni di que’ fenomeni,
ch’egli ha tante volte gustato,
vedrà le successioni delle idee accresciute
per via divenire iliadi ed
eneidi, vedrà l’ode impetuosa correr
con brio tra le angustie del metro,
come l’acqua levata fra i tubi delle
fontane, vedrà la satira raccoglitrice
delle false conseguenze dello spirito
umano e destatrici di maraviglia negli
error segnalati che ci appresenta.
Quanto muove il cuore, quanto è che
ausciti le passioni, quanto è che scuota facendo che l’anima altrui non esista
per alcun tratto che nell’anima
del poeta, che la dirige, tutto gli
passerà sotto l’occhio quasi per una
mappa del mondo intellettuale. Io
aspetto dunque con impazienza quest’opera,
che sarà e la storia del bello,
che si scrisse, e la scuola del
bello che si dee scrivere” Le quali
parole siccome dimostrano di qual valore
d’ingegno fossero i giovani, de’ quai
parlava, così persuadono facilmente
qual esser dovea l’ardore che
mi spirarono a metter mano all’opera
mia. Tra sì eletto drappello pertanto, e tra così fatti eccitamenti, diss’io,
parmi aprire una bella carriera
a quest’anime ardenti di vero onore,
mentre ascoltandomi come amici e compagni
anelan meco a correrla, a divararla. Qual di loro già tesse un poema, qual medita nuova tragedia; altri porta la fiaccola nelle leggi, e nella politica altri, dentro alla fisica, alla medicina; molti stendono a gara alle storie patrie la mano, che implora lume e ragione su le tracce del gran Muratori, e del Maffei, or pesando con buona critica i fatti, or ragionando con buona filosofia su le cagioni, e gli effetti, ed or pingendo e disegnando gran quadri da pittor franco d’eroi guerrieri, e politici, delle rivoluzioni, e de’ governi italiani, delle decadenze, de' risorgimenti, e delle vicende del commercio, e del lusso, delle scienze, e dell’arti. Ma siam cinti da un anfiteatro di spettatori difficili, e discordanti. Da un lato le critiche e i pregiudicj, dall'altro la verità e il disinganno; noi pacifici pur siamo in guerra tra molti nimici, rivali, e partiti, che dividono tutti i suffragj, perturbano tutti i giudicj, che non potendo e non volendo con noi correre nella lizza, trionfar vogliono coll’invidia, con l'ignoranza, e col disprezzo peggior di quelle. Ove accademie o sette, ove discepoli prevenuti e più prevenuti maestri: noi siamo in mezzo a qualche plauso, ma timido ancora ed incerto, ed a molti schiamazzi o derisioni talora insolenti. Ma sopra noi rimiriamo a conforto sedere i giudici incorruttibili di questa nuova olimpica pugna, in lor fissiam gli occhj, da lor ne viene il coraggio, e ci appelliamo alla posterità.
Così allora io scriveva, e presagiva, l’opere molte di quegl’ingegni uscite in questi due lustri alla luce, e i lor poemi appunto e le tragedie, i trattati succosi, e filosofici su l’economia civile, le leggi, le fisiche, le matematiche, e soprattutto sopra la storia, e la letteratura italiana comprovarono i miei presagj, e fecero in parte l’ufficio, che dai posteri di più lustri d’ottener tutti speriamo.