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COPIA

DELLA LETTERA DEL GRAN TURCO

A PAPA

NICOLÒ QUINTO

tradotta d’arabico in greco, e di greco
in latino, e di latino in volgare
1

RE de’ re, Signore de’ signori Machabec, admiraglio, grande soldano Begri, figliuolo del gran soldano Marath, rettore de’ sette Musaphy dice quella salute, di chi è degno, a Nicola vicario di Iesu Cristo crocifisso dai Giudei. Non per ritrarti dal tuo sciocco proposito, il quale ha da essere moltiplicazione di nostra vittoriosa gloria, la quale di tanto pregio si dee stimare, quanto è chi perde; ma per mostrarti i tuoi non pochi errori e il nostro accuratissimo apparato; acciocchè forse per quelli illuminandoti l’intelletto senza fare

  1. Una lettera scritta dal Gran Turco Maometto Secondo a Papa Niccolò Quinto, e la risposta di questi a quel Conquistatore sono monumenti storici che, come mi sembra, non vennero finora a notizia d’alcuno. Ed è veramente da stupire che il Baronio, il quale ampiamente discorse le cose operate da Niccolò in occasione dello smisurato ingrandire della possanza turca, abbia poi taciute queste due lettere che di poco rilievo non vanno al certo stimate. Dal silenzio di questo chiaro Annalista non deve derivare sospetto sulla veracità di queste scritture, sì perchè le cose che in esse contengonsi non si oppongono alla storia del tempo, e sì anche perchè il Lambecci nel II Tomo, al foglio 631 dellasua Biblioteca Cesarea, fa pure ricordanza di una lettera dell’Imperadore de’ Turchi volta in favella germana; e forse non sarà diversa da questa che mandiamo a luce. L’Impero Greco, fondato sulle rovine di quel di Roma, nacque barcollante, e nel corso di 1123 anni che stette in piedi corse grandissimi pericoli e per le esterne aggressioni de’ Barbari, per intestine discordie, e per imbecilli governanti che a quisquiglie teologiche più che a’ maneggi de’ negozj dello stato avevano l’animo rivolto. Tra i Barbari, co’ quali i Greci sostennero più fiera lotta, furono i Turchi. Le opinioni religiose che predicò quel solenne impostore Maometto avea in certa guisa cangiata la condizione delle menti degli Arabi: un paradiso di voluttà carnali promesso a’ morienti in battaglia rendeva gli uomini oltre modo ardenti nelle zuffe, e sprezzatori per non dire cercatori della morte; e perciò loro possanza nel nascere fu come torrente che subita piena crebbe, innondò, devastò. I Turchi nell’undecimo secolo escirono dalle gole del Caucaso, e piombando sulla Persia, infiacchita per guerre durate coi signori di Costantinopoli, le posero il giogo, e minacciarono di rovina la stessa sede dell’Impero Greco. Sotto l’imperio di Costantino Ducas nell’undecimo secolo mettono a soqquadro gli stati della Grecia. Il prode Romano Diogene in molte battaglie avea rintuzzato loro orgoglio, ma finalmente sconfitto, fu preso ed acciecato. Il successivo cadere e sorgere de’ principi sul trono di Costantino, al quale per delitto vi ascendevano e per delitto ne venivano tratti, per lunga pezza facendo ondeggiare le redini del governo aggiungeva baldanza all’inimico. Alessio Comneno vede rapirsi da’ Turchi le isole di Scio, Lesbo, Rodi e Samo; sotto Andronico nel secolo XIV nel cuore dell’impero stendono i Turchi loro dominazione su tutta l’Asia Minore, che divisa in sette governi conobbe suo signore Ottomano; e finalmente sotto Giovanni Paleologo nel 1372 Amurat, spinge sue conquiste nella Tracia, prende Adrianopoli, e destina quella città a capitale del suo impero. I Turchi testimoni di quanta ricchezza andasse ricca la sedia del Greco allorchè da Niceforo Botoniate vi vennero menati per togliere a Michele VII Ducas la corona; ora che si vedevano quella vicinissima cominciarono più che mai a macchinarne il conquisto. E ai loro disegni non poco favoriva l’infievolir dell’impero, smembrato per lo innanzi in due altri imperi, in quello cioè di Trabisonda e di Adrianopoli, tenendo i Latini in Costantinopoli la somma delle cose. Era in sul principiare il secolo XV, ed Amurat II, poichè ebbe messo poco meno che in fondo la monarchia Greca, poichè su i campi di Varna ebbe rotto l’oste Ungarese e morto Uladislao che comandavala col famoso Uniade, tolse ogni l’Italia nel fragore delle armi che, mosse dall’ambizione de’ suoi padroni, si cacciavano ne’ petti, non ascoltò la voce del Pontefice, ed invilì sempre più. La Bolla di Niccolò per convocare popoli alla guerra e alla ricuperazione di Costantinopoli fu come fiaccola di che si spense nel freddo deliberare del Parlamento dei principi a Francfort, ove grandi e salutevoli di visamenti furono fatti, che rimasero in erba con la morte di Niccolò. La suddetta bolla sembra che sia quella che ha cominciamento: Fuit jam olim Ecclesiæ Christi hostis acerrimus, crudelissimus persecutor Mahometes, filius Satanæ, ecc., nella quale poi che ebbe il Pontefice assomigliato Maometto al dragone visto da S. Giovanni che di un colpo di sua coda trasse in terra la terza parte delle stelle; e dopo aver descritte le iniquità nelle quali il Turco nella presa di Costantinopoli trascorse, ed il divisamento di lui di stendere sua dominazione in Occidente, tentò di aggiungere animo ai principi cristiani eccitando le menti con sante esortazioni ad una Crociata, e promettendo paghe vive e sonanti, delle quali avrebbero forniti gli eserciti le decime da pagarsi non solamente dai Cherici, ma da’ Cardinali, e da sè stesso finanche. Un tanto gridare all’armi volse al Pontefice la mente del Conquistatore che nell’ebbrezza del trionfo ben si avvisava di quanto nocumento potessero tornargli le armi collegate de’ Cristiani: e perciò gli cadde in animo indirizzare a Niccolò V una lettera che, per timore o per isperanza, potesse farlo andare più rattenuto nel bandirgli la croce. Imperocchè, come a’ leggitori è facile scorgere, il Turco, premesso tutti quei titoli di che largheggiava l’alterigia turchesca, dei suoi diritti alla città di Roma, delle sue forze fa grandissima jattanza, e dice alcuna cosa della sua probabile conversione alla fede di Cristo. Ed infatti non doveva sembrare discorso d’impostore quello di Maometto, come se volesse menare in parole il Pontefice; imperocchè, cessata la strage ed i furori della soldatesca, Maometto trattò con meno aspro governo le cose de’ Cristiani, sì che di onori abbondò verso Giorgio Scolario da lui chiamato a reggere la chiesa de’ Cristiani in Costantinopoli. Papa Niccolò non si mostra gran fatto atterrito della lettera del Turco, ma per una fidanza nelle proprie e nelle forze de’ Principi Cristiani usa d’una foggia di scrivere, che doveva chiarire ilConquistatore, che egli attendevalo a piè fermo. E poichè come principe diè argomento di fermezza, come padre de’ fedeli si volge amorevole a Maometto per tornarlo alla via della verità. Gregorio Castellano, nominato nel Codice, che scrisse la lettera in arabico e poi la portò in volgare, è quel medesimo, come a noi pare, del quale fa menzione il Tiraboschi parlando deiletterati i quali teneva in corte Niccolò. Era quegli di Città di Castello, e dal nome di sua patria tolse il cognome. Se dal Tiraboschi vien predicato Gregorio quale uomo peritissimo delle greche lettere, crescerà la fama di lui dandoci contezza il nostro codice essere stato egli anche saputo dell’arabica favella.