De mulieribus claris/LXXXXI
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CAPITOLO LXXXXI.
Epitare serva.
Epitare serva, fu creduto piuttosto forestiera donna che romana; e non solamente ella non fu famosa perchè non fusse stata di nobile schiatta, ma ancora peggio, chè, figliuola d’uno servo, fu libertina femmina; e, che molto più brutta cosa è, non essendosi dilettata di molte buone arti, circa la fine di sua vita mostrò avere nobile animo e virile fortezza. Crescendo certamente appresso i Romani e tutti gl’Italiani la superbia e la lascivia di Nerone imperadore romano, avvenne che Lucio Pisone principe, e alcuni senatori e altri cittadini fecero congiura contro lui, e tentando mandare ogni cosa a termini con varj parlamenti1, venne a notizia di Epitare predetta. Ma indugiandosi troppo la cosa a suo parere, quasi gravata di rincrescimento andò in campagna; e a caso stando a Pozzuoli, acciocchè non passasse il tempo vacuo, andò a Volusio Proculo, prefetto dell’armata dei Romani, il quale avea morto Agrippina, pensando dare grande aiutorio alla congiurazione, se ella lo potesse trarre a quella parte. E mostrato a quello con lungo ordine la perfidia, i fastidj, le disconcità de’ costumi, la superbia, e poi la ingratitudine di quello contro a lui, che per sì gran fatto (cioè la morte d’Agrippina) in niuna cosa lo avesse promosso, come l’avesse ben servito; manifestogli il tradimento, e con tutta sua forza adoperò aggiungerlo compagno dei congiurati. Ma seguì molto diversamente da questo che pensava Epitare; perchè Volusio volendo piegare a sè la grazia dell’Imperadore, riportogli tutte le parole di Epitare, benchè egli non dicesse quello che ella pensava, perchè quell’astuta femmina, dubitando ancora di lui, non gli avea manifestato alcuni de’ nomi de’ congiurati: e mandato per quella, non si potè fare che confessasse alcuna cosa di che ella fu domandata. E finalmente essendo tenuta presa, manifestata la congiurazione da’ congiurati medesimi a caso; da capo tornata alla disamina, quasi come ella fusse più impaziente che gli uomini agli tormenti, e da lei si potesse sapere quello che desideravano; dopo lunghi tormenti fatti a lei, non confessò alcuni segreti alli tormentatori. Finalmente servata al di seguente, non potendo ella andare a’ suoi piedi, temendo, se ella fusse tormentata, la terza volta, non poter sostenere; disciolsesi una fascia dal petto e legolla a una carretta nella quale era portata, e fatto un laccio, messoselo al collo, e lasciatasi cadere, trovò a sè la morte, acciocchè ella non nuocesse ai congiurati; fallendo l’antico proverbio, che le donne non dicono quello che elle non sanno; e così lasciò Nerone ignorante e in paura. La qual cosa benchè paia grandissima in femmina, molto più maravigliosa parrà, se sarà considerata la incostanzia dei nobili uomini di quella medesima congiurazione, i quali si sapevano da altri che da Epitare: non fu tra quegli nessuno di sì robusta gioventù, che comportasse udire i nomi dei tormenti per la propria salute, che quella femmina comportò per la salute altrui: anzi incontanente confessarono quello che sapevano della congiurazione; nè niuno perdonò nè a sè nẻ agli amici, avendo quella gloriosa femmina. perdonato a tutti se non a sè. Io crederei che la natura delle cose errasse alcuna volta2, quando ella congiugne l’anima ai corpi degli uomini, cioè avere infonduta quella in un petto d’una femmina che credeva aver posto in un uomo. Ma perchè Iddio è datore di siffatte cose, è inconveniente credere che egli fusse negligente circa alla sua opera. Adunque è da pensare, che noi ricevemo ogni cosa, ma lo effetto dimostra se noi serviamo quella. Pensiamo, quegli uomini si debbono vergognare quando eglino sono vinti da lascivia di femmina, ma eziandio da ciascuna costantissima sofferenza di fatica; perchè se noi siamo eccellenti per esser maschi, perchè non lice che noi siamo eccellenti in fortezza? la qual cosa se non è, a ragione pariamo effeminati per li costumi.