De mulieribus claris/LXXXXII
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CAPITOLO LXXXXII.
Pompea Paulina.
Pompea Paulina fu famosa moglie di Lucio Anneo Seneca, maestro di Nerone; ma non mi ricordo aver letto se ella fu donna romana, o se ella fu d’altro paese; ma nondimeno quando io guardo alla nobiltà de’ suoi spiriti, voglio piuttosto credere che ella fusse romana che forestiera. Della quale benchè noi non sappiamo l’origine, per la testimonianza dei famosi uomini, non ci manca lo esempio del pietosissimo amore verso lo marito. Ma gli degni e onestissimi uomini di quella età hanno creduto, che piuttosto per crudeltà di Nerone, che per difetto di quel severo vecchio e famosissimo sopra gli altri uomini, fusse notato nel tradimento della congiurazione Pisoniana; sotto la quale ombra fu trovata la via da Nerone di fare crudeltà contro a Seneca per lo antico odio, anzi per lo debilitato animo per la virtù. Benchè alcuni abbiano pensato che per lo stimolare di Poppea e di Tigellino, solo consigliatore della crudeltà dello Imperadore, avvenisse che per lo centurione fusse comandato a Seneca, che egli s’eleggesse la morte; alla quale vedendo Paulina apparecchiare quello, lasciate le lusinghevoli consolazioni che ella volesse vivere per le quali ella era confortata; stimolata di castissimo amore, dispose con forte animo volere morire col marito insieme, e per quella medesima maniera di morte, acciocchè una medesima morte dissolvesse quei due, i quali onesta vita avea tenuti congiunti. E essendo quella entrata senza paura nell’acqua calda, acciocchè col marito in una medesima ora morisse, e avendo fatte aprire le vene, di comandamento dell’Imperadore, lo quale non aveva contro a quella alcuno particolare odio, ritraendo egli alquanto, per opprimere l’infamia della sua natura, quella fu campata dalla morte per gli servi, ma non si potè sì tosto stagnare lo sangue, che quella ottima donna non mostrasse per perpetua pallidezza, avere molto scemato dallo vitale spirito insieme col marito. E finalmente poichè per alcuni anni ella conservò la memoria di suo marito con laudabile vedovità, non potendo altrimenti finire sua vita con Seneca, almeno la condusse con suo marito. Che potè persuadere a quella ottima donna volere piuttosto morire, che, come fanno le femmine per la maggior parte, serbare la vita per maritarsi la seconda volta? questo fu la dolcezza dell’amore, un maraviglioso segno di pietà nello venerabile sagramento del matrimonio. E per grandissima vergogna delle donne, in questo tempo è si in usanza in alcune che non dico che elle si maritino la seconda e la terza volta, la qual cosa fanno quasi tutte, ma se è il caso da maritarsi, la sesta, la settima e l’ottava volta ed è sì per usanza di fare nozze de’ nuovi mariti, che parono aver tolta l’usanza delle puttane, le quali hanno per usanza mutare nuova brigata di notte in notte; e non vanno a marito con altra faccia che se elle servassero santissimamente l’onestà. E non è assai certo che sì fatte, si dee dire, sieno uscite di una cella di disonesto luogo o da una camera dello innanzi morto marito? e non penso dubitare se quella va a marito più disonestamente, o quello la mena più mattamente. Oh miseri noi! a che sono condotti i nostri costumi! Gli antichi i quali ebbero l’animo a santità per usanza, pensarono cosa vituperosa maritarsi la seconda volta, non che più volte, e che siffatte non si possono con ragione mescolare con le oneste donne. Ma le donne di questo mondo fanno molto diversamente; perchè, tacendo lo suo libidinoso pizzicore, pensano se più belle e più care; perchè, avendo soperchiata la fortuna della vedovità cogli spessi matrimonj, tante volte siano piaciute a varj mariti.