Dal mio verziere/Dal mio Verziere/VII

VII. Edmondo De Amicis

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VII.

Edmondo De Amicis.

Nei nostri begli anni — negli anni che ascendete voi, signorine — quando nell’anima e nel corpo tutto è ancora così adorabilmente rudimentale; quando il vago panteismo dell’infanzia immaginosa tende a plasmarsi in un aspetto e a compenetrarsi d’uno spirito, allora, come nell’adolescenza dei popoli, sorgono gli idoli e l’adorazione vapora. Vapora l’adorazione, odorosa di tutta la purezza, di tutta la verità, di tutta la gentile incoscienza della vita interiore appena schiusa, ai piedi del simulacro.... il più delle volte insensibile. Arte e Amore, Iside ed Osiride eterni! Non v’ha scolaro di Ginnasio che insieme a un mazzolino, a un nastro, a una ciocca, tenui e care realtà, non esalti l’ombra auspice e divina di qualche principe del pensiero o dell’azione; ed ogni fanciulla a cui s’allunghi ancora l’abitino dell’anno precedente, chiude il prezioso fiore appassito dalle misteriose virtù fra le pagine del libro dalle quali un sapiente conoscitore del cuore umano ha intenerito e sorretto più volte il suo giovine cuore. Ditemi, bambine, pardon signorine, ditemi non colgo nel segno? Non è vero [p. 213 modifica]che Lei, soave bionda, ha una viola del pensiero in mezzo alla «Partita a scacchi?...» E Lei, signorina bruna, non rivolge da più di un anno gli occhi nerissimi a quella piccola costellazione di gaggie caduta chissà come nella lizza fra il torneo del «Marco Visconti?...» E quell’altra fanciulla malinconica dalle scendenti treccie castane che piange sullo sventurato amore di Gaspara Stampa, non sorride al fior d’eliotropio che un giorno fosco posò proprio sul sonetto cinquantaquattresimo?.. E infine tu, Gabriella, rosea sorellina mia, che cosa nascondi dunque fra le «Lettere a Maria» dell’Aleardi che veggo continuamente sul tuo tavolino?... Ebbene, che importa? Macchiate i libri di lacrime e di fiori fanciulle, ma serbatevi, oh serbatevi anche fra il tumulto sgarbato della vita le vestali gentili delle corolle morte e dei sentimenti immortali.

Quanti preamboli per dirvi che io idolatravo il De Amicis! E non lo idolatravo specialmente nei Bozzetti militari nei Racconti, nelle Poesie, ma nelle Pagine sparse, dove la mia anima di scribacchina sedicenne trovava qualche lembo da rispecchiarsi, da afferrarsi, da raccogliersi prima di tentare il gran volo... E mi ricordo che quando fu accolto il mio primo bozzetto nella Palestra delle giovinette (in questo stesso giornale) io non sapendo più come manifestare la riconoscenza che sentivo vivissima per quel mio duce invisibile mi slanciai sulle Pagine sparse e scrissi in fretta sul frontespizio — ebbi questo coraggio! — la famosa terzina dantesca:

Tu se’ lo mio maestro e lo mio autore...

Oh beate lenti de’ sedici anni!

Vi presento dunque oggi con affetto memore [p. 214 modifica]una mia vecchia conoscenza. Cioè ho detto male: vi presento: avrei dovuto dire: vi addito. Qual’è fra noi la famiglia che non ha nella sua biblioteca almeno un volume dell’illustre e simpaticissimo autore delle Porte d’Italia? Chi non conosce ad orecchio almeno, uno o due di quei suoi leggiadri sonetti sui bambini? Io non so e non spero che Edmondo De Amicis abbia seguito il mal vezzo di rinnegare i suoi lavori giovanili. Certo che se la prosa sua in generale e particolarmente la prosa della sua ultima maniera è di gran lunga superiore ai suoi versi, pure il sentimento che li avviva non è affatto inferiore; il sentimento è sempre così gagliardo e vero e bello da irrompere e trascinare all’entusiasmo o alla commozione attraverso e malgrado le dighe della forma. È un buon pane nutriente, che non ha la pretesa d’essere una focaccia; un buon pane dall’odor sano evocatore delle bellezze bionde della terra madre, delle fatiche dei nostri fratelli: un pane che si spezza benedicendo.

Ho ripassato le Poesie del De Amicis con la mente ancora illuminata dai riflessi malefici di qualche centinaio di pagine d’una rarissima bellezza; ebbene, quella lirica semplice, qualche volta pedestre, sorse subitamente ai miei occhi, al mio spirito, ad una altezza, ad una dignità vittoriosa. Una feconda luce di sole dopo una magica e insidiosa notte plenilunare.

«Ecco un libro, pensai, che può far del bene.» Ah di quanta lirica moderna si può dire altrettanto? Quale altra si potrebbe quasi raccomandarvi come un ricostituente, signorine?

Cominciamo da questa: [p. 215 modifica]

A MIA MADRE.

Amo il nome gentile; amo l’onesta
Aura del volto che il mio cor rinfranca:
Amo la mano delicata e bianca
Che le lagrime mie terge ed arresta;

Amo le braccia a cui fido la testa
Da tristi fantasie turbata e stanca:
Amo la fronte pura, aperta e franca,
Dove tutto il pensier si manifesta;

Ma più de le sembianze oneste e care
Amo la voce che mi parla il vero
E mi conforta l’anima ad amare;

La voce che ogni dì sulla prim’ora
Mi grida in suono d’amoroso impero:
È l’alba, figlio mio! Sorgi e lavora!

Scelgo dal gruppo intitolato: «Miserie.» È un sonetto che vi rattristerà, ma certe tristezze sono come il segreto e freddo battesimo della rugiada che ravviva i germi delle pianticine. Esse s’incurvano per riceverla: chiniamo il capo anche noi; perchè ci tocchi bisogna esserne degni.

II.

Povere bimbe con le vesti a brani
Curve sull’ago in abituri infetti,
Madri che al seno con le scarne mani
Vi stringete i morenti pargoletti,

Tristi fanciulli per le vie costretti
Il tozzo immondo a disputar coi cani,
Vecchi che brancolate oggi, sorretti
Dalla speranza di morir domani,

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Misera gente che la morte oblia,
Martorïati scheletri viventi
Per cui tutta la vita è un’agonìa,

Quante volte, nell’intimo del core,
Al mio stato pensando e ai vostri stenti,
Mi par d’essere un ladro e un impostore!

Sentite ora che umorismo fine e che delicatezza d’ispirazione. Eccola la poesia vera che aiuta a vivere, quella che non può dileguare:


SOPRA IL QUADERNETTO D’UN BIMBO

Ecco i quaderni sporchi dei bambini,
Tutti logori fogli accartocciati,
Chiazze d’inchiostro, calcoli sbagliati,
Buchi, macchie di pappa e burattini;

E nel bel mezzo azzurri cerchiolini
Fatti dal pianto, e scarabocchi ai lati,
E quà e colà foglietti lacerati
Per fare alle pallette coi vicini.

Tale è la vita, o bamboli, in succinto;
Conti sbagliati, lacrime frequenti,
E burattini ad ogni piè sospinto:

E ogni giorno una pagina si strappa,
E sotto ai più magnanimi ardimenti
C’è sempre un po’ la macchia della pappa.

Affrettiamoci. Non v’ha più che qualche sprazzo purpureo di sole occiduo nel mio verziere. Ma quale frescura! Udite: c’è un pò della malinconica stanchezza del Praga e della gentilezza profonda d’Enrico Panzacchi: [p. 217 modifica]

IN CASA DEL CURATO.

(ricordi della campagna)

Questa mattina desinai dal prete
In una stanza disadorna e bianca,
Dove non c’è che un desco ed una panca
E un grande crocifisso alla parete.

Sulla tovaglia fresca di bucato
C’era un vinetto trasparente e puro,
E in faccia a me danzavano sul muro
L’ombre de le alborelle del sacrato.

Un grato odor d’incenso a quando a quando
Veniva dalla muta sacrestia,
Ed una vecchia serva umile e pia
Ci girellava intorno zoccolando,

E c’era un’aria, un’ombra, una freschezza
In quella stanza candida e modesta!
E tanta pace in quella faccia onesta
Di vecchio prete, e tanta gentilezza!

Ei mi parlava de la sua cappella
E dell’orto e dell’uve e del paese,
E ogni sua parola era cortese
E ingenuamente colorita e bella.

E muto tratto tratto e sorridente
Fissava in contro al sole il suo vinetto,
E mettendo la man larga sul petto
Ne delibava un sorso lentamente.

E in me figgendo le pupille vive
Come volesse indovinarmi il core:
— Ebbene, ebbene — mi dicea — signore.
Cosa scrive di bello? Cosa scrive? —

Quindi, bevendo un’altra sorsatina,
Soggiungeva: — Signor, non si sgomenti
Bisogna pur ch’io beva e mi sostenti!
Lo sa che a giorni tocco l’ottantina? —

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E mi facea gli onor dell’umil desco
Dicendo in atto di gentil rispetto:
— Provi il mio vino, e mi dirà se è schietto;
Provi il mio burro, e mi dirà se è fresco. —

Indi tacendo, in un pensiero assorto,
S’accarezzava i candidi capelli,
Ed io sentito bisbigliar gli uccelli
E una zappa sonar lenta nell’orto.

E a quando a quando un alito di vento
Facea stormir le viti all’inferriata
E portava nel mio volto un’ondata
D’un sano odor di legna e di frumento.

E mi toccava il cor l’alta quïete
Di quel recesso pio, bianco e modesto...
L’avrei baciato quel buon vecchio onesto
Quel santo volto d’innocente prete.


La spontaneità dell’ispirazione, la nitidezza melodiosa della forma fanno di questa una delle migliori liriche del De Amicis. E che mondo palpita nella mite sincerità della trama! Quelle ombre di giovani alberi che danzano sulla parete intonacata, quelle folate d’incenso uscenti dalla pace semibuia della sacrestia, quel pispigliare d’uccellini, lo stormire delle viti che rampicano ed origliano all’inferriata, gli odori del legno, del grano, e quella zappa risonante ritmicamente nell’orto — oh candida, dolce, antica ed eterna poesia delle Egloghe — la vera sapiente sei tu!

Ma Edmondo De Amicis è innanzi tutto uno spirito bellicoso. Alla zampogna di Pane egli preferisce i canti di Tirteo — canti incitanti alla pugna, non importa quale — anche, forse, la guerra alla guerra. Non indugiate sul bisticcio; piuttosto ascoltate: [p. 219 modifica]

Ah! un giorno finirà l’orrida lite,
Disseccherà l’amore in fra le genti
Questo fiume dai vortici cruenti,
Questo mare di lacrime infinite!

Ma quelle razze dall’affetto unite
Ricorderan devoti e reverenti
Le stragi enormi e il sangue e gli ardimenti
A cui dovranno quell’età più mite.

E gli stendardi venerati e santi,
Delle trascorse età pegno e memoria,
Avranno onor di cantici e di pianti;

Ed alzerà ogni gente un arco immane
E scriverà sulla sua fronte: Gloria
A tutti i morti delle guerre umane.

Era il De Amicis dei Bozzetti militari che scriveva così. Non lo dimentichiamo, oggi. [p. 220 modifica]

Piccolo intermezzo in prosa.

«L’arte di comandare a sè stessi consiste in gran parte nel trovare argomenti e parole efficaci per smuovere in noi la vergogna. Ci vuole immaginazione ed eloquenza».

E. De Amicis.