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una mia vecchia conoscenza. Cioè ho detto male: vi presento: avrei dovuto dire: vi addito. Qual’è fra noi la famiglia che non ha nella sua biblioteca almeno un volume dell’illustre e simpaticissimo autore delle Porte d’Italia? Chi non conosce ad orecchio almeno, uno o due di quei suoi leggiadri sonetti sui bambini? Io non so e non spero che Edmondo De Amicis abbia seguito il mal vezzo di rinnegare i suoi lavori giovanili. Certo che se la prosa sua in generale e particolarmente la prosa della sua ultima maniera è di gran lunga superiore ai suoi versi, pure il sentimento che li avviva non è affatto inferiore; il sentimento è sempre così gagliardo e vero e bello da irrompere e trascinare all’entusiasmo o alla commozione attraverso e malgrado le dighe della forma. È un buon pane nutriente, che non ha la pretesa d’essere una focaccia; un buon pane dall’odor sano evocatore delle bellezze bionde della terra madre, delle fatiche dei nostri fratelli: un pane che si spezza benedicendo.
Ho ripassato le Poesie del De Amicis con la mente ancora illuminata dai riflessi malefici di qualche centinaio di pagine d’una rarissima bellezza; ebbene, quella lirica semplice, qualche volta pedestre, sorse subitamente ai miei occhi, al mio spirito, ad una altezza, ad una dignità vittoriosa. Una feconda luce di sole dopo una magica e insidiosa notte plenilunare.
«Ecco un libro, pensai, che può far del bene.» Ah di quanta lirica moderna si può dire altrettanto? Quale altra si potrebbe quasi raccomandarvi come un ricostituente, signorine?
Cominciamo da questa: