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La gloria dell’ala destra

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La Battaglia di Novembre - La manovra vittoriosa Episodi della guerra nell’aria
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LA GLORIA DELL’ALA DESTRA.

Dalla fronte, 5 novembre.

Da ieri la battaglia è entrata nella fase di assestamento. Ai grandi obbiettivi di conquista succedono i piccoli obbiettivi di sistemazione. Fra i capisaldi espugnati la linea nuova si va formando e consolidando. Il limite raggiunto si modifica in rapporto alle necessità delle azioni future: la fronte di arrivo sta già divenendo una fronte di partenza.

Dopo la presa del Vallone, pur progredendo ad ogni attacco, non avevamo fatto mai tanto cammino in un solo sbalzo.

Negli ultimi ottanta giorni siamo penetrati di oltre dieci chilometri nel Carso e catturato in questo solo settore quasi venticinque mila prigionieri. In questa battaglia soltanto la nostra destra è rimasta quasi immobile, con la sua estremità sempre attaccata alle aspre pendici meridionali della Quota 208 sud.

E rimasta immobile perchè la nostra manovra tendeva, col massimo della violenza, al possesso del Veliki Hribach e del Dosso Fajti. Volevamo strappare al nemico quella maestosa successione di vette, a cagione del dominio che essa esercita non soltanto sull’Altipiano ma [p. 319 modifica] anche al nord, sulla valle del Vippacco e sulle alture di Gorizia. È rimasta immobile la nostra destra, anche perchè gli austriaci, sicuri di aver reso le vette imprendibili, confidando sopra tutto sulle enormi difficoltà del terreno da quella parte, hanno concentrato tutto lo sforzo della difesa dalla parte opposta. I nostri progressi erano stati sempre lievi verso il Veliki, mentre l’ultimo «colpo di spalla» ci aveva portati su Boscomalo, qualche piccolo nucleo nostro aveva persino raggiunto Jamiano, e, persuaso che noi volessimo spingere la nostra offensiva sulla grande via diretta di Trieste, il nemico è corso a sbarrarci il passo.

L’ala manovrante ha avuto gli onori della battaglia.

La vittoria italiana si è affermata nella sua azione; essa si delineava in una successione magnifica di assalti fortunati, nella invasione di sempre nuovi lembi di terra nemica. La nostra attenzione convergeva sulla conquista.

Ma sarebbe ingiusto non riconoscere che la gloria di queste giornate è di tutti, dell’ala marciante e dell’ala rimasta ferma sotto ai più terribili urti della concentrazione nemica, delle truppe che hanno avanzato e delle truppe che hanno resistito. La destra dell’esercito del Carso ha parte nel trionfo quanto la sinistra. La sua tenacia e il suo eroismo hanno contribuito all’impetuoso sviluppo degli attacchi sbaragliatori, come nell’offensiva di ottobre gli accaniti [p. 320 modifica] tentativi della sinistra per impossessarsi del Veliki e del Pecnka contribuirono all’avanzata di questa stessa ala che ora la battaglia ha invece inchiodato.

Il combattimento non è mai così terribile come quando è fermo. La immobilità nella lotta è l’indice dello sforzo massimo. L’azione della nostra destra, dalla strada di Castagnavizza alla Quota 208, è arrivata ad inaudite intensità di accanimento, ha avuto grandezze inenarrabili di valore e di abnegazione, senza il conforto del successo immediato e tangibile. Ma arrivavano laggiù come degli echi della vittoria, le notizie delle conquiste passando fra le truppe che sentivano profondamente la necessità del sacrificio per la fortuna delle armi italiane.

Gli austriaci sono certamente ossessionati dalla paura di un’avanzata nostra sulla strada di Trieste. Per spiegare la resistenza disperata fatta dagli austriaci sulla Quota 208, prima che noi la conquistassimo in una precedente offensiva, un ufficiale nemico prigioniero ha detto laconicamente: «Punto trigonometrico!» La strada di Trieste nasce, per così dire, fra la Quota 208 e la Quota 144. Le due alture sono come due pilastri di una soglia. Non lasciarci sboccare da quella gola, tenerci attaccati ai pilastri; ecco la idea informatrice del piano nemico in questa battaglia. Ma anche se gli austriaci non avessero voluto accumulare le [p. 321 modifica] massime energie della resistenza in questo settore, il còmpito della nostra destra sarebbe stato singolarmente difficile. Essa aveva avanti a sè due fortissime linee di difesa, la prima serpeggiante da Boscomalo alla Quota 208, la seconda risalente dalle alture di Jamiano a innestarsi alla prima presso Lucatic, dove un groviglio di trincee la annodava ad un’aspra altura, la Quota 238. Queste linee divergenti coprivano una così larga zona, che per spianare la strada agli assalti sarebbe stato necessario un concentramento esorbitante di fuoco d’artiglieria. Il bombardamento sulla destra non raggiunse quindi su tutta la linea una eguale intensità di schiacciamento.

L’efficenza e la prontezza della difesa si rivelarono subito. Le mitragliatrici e i fucili austriaci scrosciarono immediatamente. Il terreno fra le nostre trincee e la prima linea nemica venne attraversato sotto raffiche di piombo. Tuttavia a mezzogiorno, cinquanta minuti dopo l’inizio dell’assalto, i trinceramenti nemici erano espugnati e sorpassati in più punti, e varie centinaia di prigionieri erano catturati. La linea nemica era rotta al sud della strada fra Oppacchiasella e Castagnavizza; le prime case di Boscomalo erano raggiunte, affrontando nidi di mitragliatrici incavernate; dei nuclei arrivavano a Lucatic; qualche plotone della prima ondata saliva la famosa Quota 238 in una [p. 322 modifica] tempesta di schrapnells; all’estrema destra il nemico si ritirava in disordine e dalla Quota 238 i nostri avanzavano verso le alture di Jamiano. Verso le tre, il nemico sferrava uno dei più poderosi contrattacchi.

Salivano da Jamiano e venivano da Selo, per una rete sterminata di camminamenti, nuclei e nuclei di austriaci sotto la protezione di un bombardamento di ogni calibro. I nostri dovettero ripiegare all’urto, ma difendendo disperatamente il terreno, passo passo. Dopo due ore l’intensità dell’attacco diminuiva. Si avvicinava la sera; alle cinque la formidabile reazione nemica si spegneva. Noi rimanevamo ancora padroni di qualche tratto delle trincee conquistate sui declivi della 208.

Lo svolgimento della battaglia alla destra e la logica della situazione attuale non appaiono chiaramente se non si tiene conto di quella strana montagna, alta quasi come il Veliki Hribach, che sorge isolata presso Duino come una grande sentinella del litorale: l’Hermada. Fosca, imponente, oblunga, regolare, essa non è più che una immane fortezza che gravita sulla nostra destra. Essa può essere considerata come il forte avanzato del campo trincerato di Trieste. Artiglierie innumerevoli vi hanno trovato rifugio. L’Hermada è un alveare di cannoni. Da lassù delle batterie incavernate fanno fuoco a tiro diretto sui fianchi della 208 e [p. 323 modifica] della 144 e sul costone meridionale del Carso. La vetta è un osservatorio che domina tutta la regione, poiché da tutta la regione è visto, e un potente proiettore lancia da lassù il suo raggio bianco ogni notte fino alle rive dell’Isonzo. All’Hermada si impernia l’azione della sinistra austriaca. Coperta di fumo e di vampe nelle ore di furore, l’Hermada traccia intorno a sé un raggio di difficile approccio, crea come una zona di interdizione, taglia un limite sul quale le battaglie perdono movimento per prendere quasi una fissità da assedio.

La nostra destra sembra disegnare quasi questo limite. Alla sera del primo giorno della battaglia essa appariva già paralizzata dall’enorme concentrazione della difesa austriaca. Ma assolveva il suo compito dimostrativo. Essa doveva precisamente attirare lo sforzo nemico. Anche senza speranze di avanzata bisognava che riprendesse gli attacchi. Un nuovo assalto su tutta la sua fronte fu deciso per l’indomani all'una e dieci del pomeriggio. Bisognava insistere, minacciare, premere il nemico in quel settore formidabile. L’artiglieria della destra ricominciò il bombardamento delle seconde linee austriache, che la preparazione precedente aveva meno danneggiato.

Fra la Quota 208 e Lucatic, la prima trincea nemica avanzava a saliente e il saliente era organizzato a ridotta. Non si volle [p. 324 modifica] aspettare l’ora dell’assalto per espugnare quel punto forte. Si operò una sorpresa, nella notte stessa. Strisciando adagio adagio, uno alla volta i soldati di una compagnia andarono silenziosamente ad adunarsi alla punta estrema del saliente e aspettarono la prima alba, l’ora in cui la vigilanza si intorpidisce. Appena l’oriente cominciò a sbiancarsi, piombarono dentro come indemoniati, fecero prigionieri i difensori, si asserragliarono.

Intanto veniva dal nord il rombo di un bombardamento serrato: era l’inizio della controffensiva austriaca in direzione del Pecinka.

Sappiamo con quale esasperata violenza il nemico ha tentato di riprendere terreno al centro per far crollare la delicata catena delle nostre conquiste, non rafforzata ancora dal lavoro. Cominciava la fase più critica della battaglia. La ripresa dell’azione offensiva della destra diveniva più che mai necessaria per tentar di alleviare l’enorme pressione che subivamo al centro. Il nemico ha previsto il nuovo assalto, lo ha visto delinearsi nella preparazione e ha voluto prevenirlo, renderlo impossibile, schiacciarlo prima del suo sviluppo. Alle dieci e mezzo la nostra estrema destra era presa sotto un fuoco inaudito di grossi calibri dall’Hermada. Granate da 305, da 280, da 210, scoppiavano con spaventosa continuità sulla Quota 208, che [p. 325 modifica] svanì in una immensa cortina di fumo nero. Da laggiù il telefono chiedeva un soccorso; tiri di controbatteria; «ma se le artiglierie sono più utili altrove — diceva la voce lontana interrotta dai boati — non importa, sopporteremo tutto piuttosto che compromettere un’azione; le nostre truppe sanno quale è il loro còmpito....»

Il bombardamento andava facendosi sempre più violento, sconvolgeva tutto, e l’ora fissata per l’assalto si avvicinava. All’una e dieci l’uragano di fuoco era al colmo. L’attacco non sembrava più possibile, l’azione diversiva della destra doveva fatalmente mancare. Come potevano gli uomini abbandonare i ripari e slanciarsi in quell’inferno? Fu un istante di angoscia indicibile, di tragica sospensione. Al comando dell’ala destra si aspettava in un cupo silenzio. Ad un tratto un ufficiale al telefono ha mandato un grido: «Escono!».

L’inverosimile si avverava: «Escono, escono!... Sono usciti!» — I nostri assalivano nella bufera di acciaio. L’azione invisibile laggiù nel fumo e fra le vampe è subitamente apparsa alle menti come un evento sovrumano, ha assunto una proporzione titanica, pareva che delle forze soprannaturali e gigantesche si agitassero fra quelle nubi. Qualche cosa di smisurato si levava infatti in quell’ora decisiva: il coraggio del soldato italiano.

Uscirono i nostri nell’atmosfera di massacro, [p. 326 modifica] si buttarono avanti alla baionetta, rioccuparomo le trincee nemiche, sostennero i contrattacchi. Nel frattempo la pressione nemica contro al Pecinka scemava, la conquista nostra arrivava al Fajti, e dal Pecinka stesso l’avanzata italiana stava per riprendere con slancio nuovo. Ma la controffensiva austriaca, rintuzzata al centro, infuriava nuovamente alla nostra destra. Fino alla sera il combattimento ha continuato verso la 208. Alla fine nuovi tratti delle posizioni avversarie sono rimasti nelle nostre mani, a ponente di Lucatic.

Una fortissima trincea austriaca in quel settore è stata tenuta tutta la notte da due piccoli nuclei, appena una compagnia, decisi a resistere fino alla morte. Si erano asserragliati fra i «cavalli di Frisia», alle due estremità della trincea, e tenevano duro. Ogni momento la fucileria lacerava l’ombra intorno a loro. Un fuoco di interdizione li isolava. La loro sorte era seguita con ansia dai Comandi. «Hanno ripiegato?» chiedeva d’ora in ora il telefono.

«No, reggono sempre!» rispondevano dalle

prime linee. E nel lampeggìo degli schrapnells, verso quei prodi strisciavano plotoni di rincalzo, uomo per uomo, carichi di sacchi. L’occupazione si allargava, si completava lentamente, si rafforzava. Alla mattina del 3, la trincea, solido punto di appoggio, era saldamente unita al nostro sistema. [p. 327 modifica]Mentre alla destra si combatteva in tal modo, a piè fermo, per dir così, si verificava al centro una situazione bizzarra. L’avanzata della sinistra aveva trascinato in avanti tutta la linea nostra al nord della strada di Oppacchiasella. Al sud della strada invece, la resistenza di Boscomalo teneva la nostra fronte immobile. Una compagnia destinata al collegamento lungo la strada aveva seguito il movimento. Fra le forze della destra ferme e quelle della sinistra in marcia si minacciava di formare una soluzione di continuità. Stava per aprirsi un varco. La linea poteva spezzarsi. Verso mezzanotte, sopra un chilometro e mezzo non si stendeva che una magra e irregolare catena di vedette, ma un’ora dopo un battaglione fresco cominciava a rinsaldare l’apertura.

La battaglia di movimento aveva stranamente quasi troncato in due lo schieramento delle masse combattenti; bisognava portare nuova forza al centro per chiudere solidamente il varco e, se fosse possibile, profittare dell’apertura formatavi per insinuarvi una pressione. Si presentava un lungo tratto di fronte nuovo, addizionale; nella stessa notte delle artiglierie nostre si spostavano per dominarlo. Il giorno 3 si preparava questa azione di collegamento, che doveva essere favorita da un altro attacco dimostrativo della destra estrema, l’ala del sacrificio. [p. 328 modifica]L’attacco è cominciato alle quattro della sera. L’Hermada si è destata furibonda e allarmata. La Quota 208 è stata di nuovo obbiettivo di un bombardamento dei grossi calibri. La feroce montagna austriaca, nelle brume del crepuscolo, appariva tutta costellata di vampe. Razzi rossi e razzi verdi, scintillanti multicolori di stelle filanti nelle caligini della battaglia, guidavano il tiro delle artiglierie nemiche. I nostri soldati combattevano nel fumo con la maschera sul viso. Avevano riconosciuto fra le esplosioni fragorose il tonfo cupo di qualche granata a gas asfissiante.

Le reazioni nemiche più violente si sono quasi sempre abbattute sulla Quota 208. Ogni fase della battaglia ha avuto per contraccolpo il martirio di quell’altura desolata. Pur di non permetterci di avanzare da lì, gli austriaci si sono rassegnati a vederci avanzare da per tutto altrove. Da dietro a Lucatic e da Jamiano, si sono riviste avanzare contro la 208 le masse di attacco. Fino alla notte il combattimento ha imperversato così all’estrema destra, e nello stesso tempo le truppe destinate al collegamento centrale operavano in relativa tranquillità. Ma operavano su terreno ignoto, in una notte buia e nuvolosa. Hanno dovuto sospendere ad una certa ora ogni manovra ed attendere il giorno. Al mattino il nemico, allarmato da quella concentrazione, ha cercato di ostacolarne con ogni [p. 329 modifica] mezzo l'azione. Ed ha ripreso il bombardamento della 208 con i grossi calibri.

Il collegamento centrale si è robustamente consolidato al sud della strada di Oppacchiasella dopo un’avanzata assai lenta e combattuta, durata tutta la giornata di ieri. L’esplorazione aerea, audacemente condotta, ha certamente giovato al nemico in questa azione. Qualche aeroplano austriaco ha potuto volare senza contrasti sulle nostre linee a poche centinaia di metri dal suolo e riconoscere i nostri schieramenti. Bisognerebbe poter rendere il cielo infrequentabile al nemico in certe giornate.

La costituzione di una forte linea nel vano formatosi fra le vicinanze di Boscomalo e quelle di Castagnavizza, è stata l’ultima manovra della battaglia. Ed è l’ala destra, l’ala immobile, che ha portato fino all’ultimo il peso di un sacrificio necessario, la passività della vittoria.

Questa notte un altro attacco è piombato su di lei. Gli austriaci hanno sferrato un assalto di sorpresa per riprendere la trincea di Lucatic. Contavano sulla mortale stanchezza del quarto giorno di combattimento per arrivare sui nostri addormentati. Quatti quatti gli assalitori si sono avvicinati ai parapetti e all’improvviso hanno cominciato un lancio di bombe a mano. Ha risposto un urlo selvaggio. Erano capitati addosso ad un reparto di sardi, che sono saltati [p. 330 modifica] fuori alla baionetta, subito, esasperati, inferociti, veementi. Vi era un barlume di luna coperta che permetteva di vederci, vagamente. Una parte degli austriaci è fuggita. Quelli che hanno accettato la lotta sono morti, tutti, in un corpo a corpo breve e impetuoso. Tutti meno uno.

Un austriaco non è fuggito e non si è difeso; afferrato per la vita nella colluttazione, si è abbandonato come un fantoccio. Il soldato nostro che lo aveva assalito, sorpreso da questa inerzia, lo ha rovesciato a terra e lo ha guardato. Era un ufficiale ubriaco.