Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro IV/Capitolo III

Capitolo III

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CAPITOLO TERZO

Lotta accanita di Colombo contro l’atmosfera. — Rigori della tempesta, sevizie dei mare. — Tempesta oceanica, lampi globulari, tromba marina. — Cristoforo Colombo agonizzante, rianimato dai gridi d’orrore degli equipaggi, invoca Dio e scongiura la tromba. — Il flagello passa tramezzo le quattro caravelle, e si dissipar da lontano. — Apparizione di cattivo augurio. — Gruppo di pesci cani girano intorno alle navi. — Corruzione de’ viveri. — Patimenti de’ marinai. — L’Ammiraglio entra nel fiume di Betlem, vicino al fiume di Veragua, e alle miniere d’oro. — Relazioni degli Spagnuoli cogl’indigeni. — — Il loro capo disegna distruggere gli stranieri. — L’Adelantado s’impadronisce di lui in mezzo al suo popolo, e fa prigionieri i suoi ufficiali e i suoi servi.

§ I.


Venti desolatori continuavano a ruggire: da quattro mesi, salvo rade giornate presso al capo Grazie a Dio, soffi nemici, torrenti di pioggia, aspre intemperie avevano logore le forze o il morale degli equipaggi. I capitani e la maestranza, non men che i mozzi, chiedevano di ritornare direttamente in Castiglia. L’Ammiraglio, la cui fermezza non si era mai data vinta ad ostacoli, finì nonpertanto a dubitare dell’esatta posizione dello stretto: comprese che, forse, a malgrado delle forti probabilità delle sue congetture, quel passaggio aperto dalla natura poteva essere posto sotto una latitudine molto più meridionale, verso la terra che aveva detto esistere nella parte australe del globo. Considerando lo stato della sua gente, delle munizioni guaste, e delle navi cui nugoli d’insetti attaccavano dalla chiglia alla linea dell’acqua, risolvette di dar addietro, e andare a visitare le miniere d’oro della Veragua, intorno le quali gli erano state dette mirabilia.

Il lunedì 5 dicembre, uscì dal porto il Cabinet, e si drizzò a ponente, volendo giungere a Veragua. Arrivò a Bel Porto, ove passò la notte. La dimane, non ostante il vento contrario, seguitò la via, e il vento spirò in breve a levante; era il soffio [p. 181 modifica]che l’Ammiraglio aspettava da tre mesi! Per un istante fu tentato giovarsene, non ostante il cattivo stato delle sue caravelle; nondimeno il suo istinto lo stornava da quel perfido invito. Diffatti, corse appena quattro leghe, continui colpi di vento impedirono di attenersi a qualsivoglia direzione. Colombo fu costretto di tornare a Bel Porto per attendervi il ritorno della calma; ma in quella che vi entrava, una violenta burrasca lo respinse al largo. Le onde erano sì alte, e le scosse così violenti, che non sapeva più come governare: ammalò di nuovo, gli si riaperse un’antica ferita, e per nove giorni lotto colla morte1. Soffi contrari e incessantemente variabili impedivano egualmente di entrare in porto e di guadagnar l’alto mare. Alle caravelle sovrimpendeva il pericolo di andare sommerse, oppure di rompersi contra gli scogli, che il ribollimento del mare impediva scernere.

Tuttavia i marinai e i piloti della spedizione, che pensavansi aver sostenuto in questa campagna tutti i rigori del mare, non avevano per anco subita una vera procella oceanica. E noto oggidì che sotto le latitudini intertropicali, presso la gran corrente equatoriale, i fenomeni metereologici aggiungono ad un grado di forza, di splendore e di maestà sconosciuto nelle nostre regioni. Talvolta la linea rotta dai lampi traversa tutto quanto l’orizzonte: il rimbombo della folgore vi ha una sonorità spaventevole: la portata delle onde vi oltrepassa le nostre misure.

Trastullo de’ flutti, le quattro caravelle venivano ora spinte sulla cima delle onde diventate montagne, ed ora precipitate ne’ cupi vortici scavati alla loro base: non fu mai che si vedesse l’Oceano cotanto orribile, e così coperto di spuma2. ll cielo, coperto di nubi tinte in rosso, cariche di folgori, era grave e soffocante. Ad ogni momento, immensi baleni solcavano le nubi e infiammavano l’orizzonte: gli occhi non sapevano sostenere lo splendore di quell’incessante sfolgoramento, e i marinai [p. 182 modifica]chiudevanli per non vederlo3: l’aria pareva incendiata; le scosse che la violenza delle onde imprimeva alle navi le facevano gemere: ad ogni istante parea che si dovessero aprire ad essere inghiottite dall’abisso. ll color sanguigno delle nubi si rifletteva nelle tinte rossiccie «di quel mare che somigliava sangue, e bolliva come pentola sopra un gran fuoco. Unqua il cielo non avea presentato aspetto così spaventevole: arse un giorno e una notte continui come fornace4: per ventiquattr’ore respirammo fuoco.» Lampi globulari, la cui accensione durava varii secondi, si succedevano senza interruzione: e tale era il loro bagliore che ad ogni momento, nonostante la sua oppressione, l’Ammiraglio si sollevava sopra il suo letto per vedere se gli alberi e le vele non erano stati portati via.

E nondimeno in ciò non consisteva tutto il pericolo.

L’elettrico ammassato negli alti strati dell’atmosfera si scaricava ad ogni momento: il fuoco del cielo cadeva intorno alle caravelle, che, separate e nascoste dai mobili vortici del mare, avevano cessato di vedersi. A quegli scoppii così vicini, ogni nave credeva reciprocamente che l’altra scaricasse tutta la sua artiglieria per chiedere soccorso nel punto d’andare inghiottita5. Questa incandescenza durò la notte intera. Il fosforeggiare delle onde e le faville che si levavano dal mare conservavano uno splendor debole che impallidiva ad ogni istante alla luce dei lampi.

In mezzo a tutti questi disordini della natura, la pioggia cadeva in larghe gocce, e con iscrosci impetuosi. La pioggia finì col vincerla: spense le folgori, precipitò a torrenti le sue masse condensate: cadde senza interruzione e sì fitta che pareva la si versasse dall’alto a piene cataratte6: e continuò così per [p. 183 modifica]lo spazio di otto giorni. Nè questo si potea dir piovere, perocch’era un altro diluvio. Gli equipaggi si trovavano talmente rifiniti che chiedevano la morte ad essere liberati da tanti mali7. Pare che allora, estenuato dai patimenti che gli cagionavano quelle continue burrasche, il padre Alessandro succumbesse alle conseguenze dello sfinimento. Così il primo cappellano, che morì sull’Oceano nelle fatiche dell’apostolato, fu un Francescano. Le gloriose primizie di una tal morte erano legittimamente dovute all’Ordine Serafico.

Mentre duravano questi furori oceanici, una delle caravelle fu trascinata discosto: ell’era riuscita a gettare un’áncora e mantenersi; ma un colpo di vento portò via il gran canotto degli ufficiali, e, per non perire, l’equipaggio dovette in fretta tagliar la gomena8: per tre giorni fu trastullo delle onde. In mezzo a queste convulsioni della natura, i marinai pativano del mal di mare; la veglia, le fatiche, il timore avevano finito con gettarli in un cupo abbattimento; le navi avevano perdute scialuppe, ed ancore; erano quasi aperte e non avevano più vele9. Il naufragio pareva l’inevitabile conseguenza di quello stato infelice: unicamente ci sorprende che queste navi, sulle quali nessuno si sarebbe reputato sicuro per un mare tranquillo, resistessero così lungamente ad una così strana agitazione10.

Tuttavia, a malgrado delle sevizie dell’aria, e delle grandi collere dell’Oceano, dopo tanti pericoli, non era per anco venuto il maggiore: ultima impensata prova era riserbata a que’ miseri.

Il martedì, 13 dicembre 1502, mentre l’Ammiraglio agonizzava sovra il suo letto di dolori, un grido straziante partito da una delle caravelle, fu quasi incontanente ripetuto dalle altre. [p. 184 modifica]Questo grido di disperazione risonò sino all’anima del moribondo, che ne tremo da capo a piè, e riaperse gli occhi.

Alcunchè di orribile accadeva a vista di ognuno.

Agitato da un movimento vorticoso, il mare, gonfiandosi di tutti i flutti che attraeva al suo centro, si sollevava come una montagna, mentre negri nuvoloni, discendendo in cono rovesciato, si allungavano verso il turbine marino, che si ergeva palpitante come in atto di cercare quel congiungimento. Siffatte due mostruosità del mare e dell’aria maritaronsi improvvisamente con uno spaventevole abbracciamento, e si confusero in forma di un X che girava intorno. Quest’era, dice il padre Charlevoix, storico di San Domingo, una di quelle trombe marine, che le genti di mare chiamano fonks, che allora erano mal note e che indi sommersero tante navi11. Un orrendo fischio precedeva verso le caravelle il sovraggiungere di tal mostro sin allora innominato nelle lingue d’Europa. Questo genere di tromba è la più spaventevole manifestazione della procella oceanica; l’Oriente imposegli il nome stesso dello spirito del male Tifone. Guai alle navi che si trovano sul suo passaggio!

Al grido d’orrore che lo percosse, Colombo si era rianimato ed esci dalla stanza affine di misurare il pericolo: a vedere il mare assorbito dal cielo, conobbe non avervi rimedio, e immantinente sospetto in questo spaventevole dispiegamento delle forze brutali della natura un’opera satanica. Egli non poteva scongiurare le potenze dell’aria secondo i riti della Chiesa, temendo usurpare l’ufficio del sacerdozio; ma ricordò ch’egli era capo di una spedizione cristiana; che il suo scopo era santo, e volle alla sua maniera, intimare allo spirito delle tenebre di lasciargli libero il passo: fece subito accendere ne’ fanali ceri benedetti, inalberare lo stendardo della spedizione; cinse la sua Spada sopra il cordone di san Francesco; prese in mano il libro de’ Vangeli; e ritto in piedi contro il Tifone che si avvicinava, gli notificò la sublime affermazione che comincia il racconto del Discepolo prediletto di Gesù, san Giovanni, figlio adottivo della Vergine. [p. 185 modifica]

Sforzandosi coprire colla sua voce il fragore della tempesta, il messaggero della salute dichiarò che in principio era il Verbo; che il Verbo era in Dio, e che il Verbo era Dio; che tutte le cose sono state fatte da Lui, e che nulla di ciò ch’è stato fatto, e stato fatto senza di Lui; che in Lui e la vita, e che la vita e la luce degli uomini; che la luce risplende nelle tenebre, e che le tenebre non l’hanno compresa; che il mondo ch’è stato fatto da Lui non lo ha conosciuto; ch’Egli e venuto pel comun bene, ma che i suoi non l’hanno ricevuto; epperò diede a quelli che credono in suo nome, e non son nati nè dal sangue, ne dalla carne, nè dalla volontà dell’uomo, la potestà di essere fatti figliuoli di Dio; che il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi.

Allora, da parte di questo Verbo Divino, la cui parola calma i venti e tranquilla i flutti, Cristoforo Colombo comandò imperiosamente alla procella di risparmiar quelli che, figliuoli di Dio, vanno a portar la croce all’estremità delle nazioni, e navigano nel nome tre volte santo della Trinità. Indi, traendo dal fodero la spada, pieno di un’ardente fede, delineò nell’aria il segno della croce, e descrisse intorno a se un circolo come a tagliar la meteora12: e diffatti, o prodigio! la meteora che veniva sopra le caravelle, assorbendo i flutti con un negro ribollimento, deviò, passò fra le navi a mezzo sommerse dal sommovimento delle onde, si allontanò ruggente, dislogata, e andò a perdersi nella tumultuosa immensità delle pianure atlantiche13.

Questo improvviso ritrarsi del fenomeno distruttore fu [p. 186 modifica]giudicato dall’Ammiraglio un nuovo favore di Dio. «Essi credettero di esserne stati guarentiti per virtù divina14.

La stessa pietà che lo aveva fatto ricorrere a Dio per essere preservato, lo impedì di dubitare che non andasse a lui debitore della sua salute in questa circostanza15. «Il fatto è che la tromba passò vicino alla nave dell’Ammiraglio; che non avendo in pronto veruno spediente nautico per difendersene, recitò il principio del Vangelo di san Giovanni, che fece colla sua spada il segno di taglierla a mezzo16, e che si allontanò rotta, spezzata, per dileguarsi discosto.

Non potendo obbiettar nulla contra l’autorità del fatto, il protestante Washington Irving, per indebolire l’effetto di questo miracoloso avvenimento, attribuisce ad una risoluzion collettiva degli equipaggi l’opera propria dell’ispirazione di Colombo. Egli dice: «a veder la tromba che si avanzava i marinai disperati, riconoscendo che nessuno umano sforzo poteva stornare quel pericolo, si misero a recitar passi di san Giovanni l’Evangelista. La tromba passò fra le navi senza fare ad esse alcun male, e i marinai tremanti attribuirono la loro salute all’efficacia miracolosa delle parole evangeliche17

Washington Irving ha un bel tentare di cancellare sotto il plurale l’iniziativa spontanea di Colombo, e di fare scomparire l’azion propria dell’ammiratore del Verbo; il fatto stesso intrinsecamente protesta contra questo mascheramento della storia e gli oppone impossibilità materiali e morali. Siccome le caravelle, separate da quella spaventevole agitazione, e che si potevano a grande stento vedere l’una l’altra in mezzo al vapore dell’acqua, (perocchè globi di spuma empievan l’aria, e meno [p. 187 modifica]poi si potevano udire distintamente), come avrebbero saputo in tale stato accordarsi intorno ad un mezzo di combattere la tromba, concertarsi sulla scelta dell’Evangelista, indicarsi i passi giudicati capaci di scongiurare il pericolo? Nel rapido suo corso, il tifone lasciava tempo di deliberare? Come e da chi prendere consiglio? D’altronde in nessuna delle quattro caravelle v’aveva marinaro che possedesse l’antico e il nuovo Testamento. L’uso delle Bibbie non si è introdotto presso il popolo che col protestantismo; nemmen oggi la Spagna lo ha adottato. Washington Irving, ignorando il domma cattolico, dimentica che in Castiglia nessuno aveva una fede superstiziosa al potere del testo sacro, ed alla sua efficacia taumaturgica: non comprende che nessun piloto avrebbe avuto quell’improvvisa chiaroveggenza, e concepito uno spediente così singolarmente estraneo alla nautica, e al tempo stesso così ardito sotto l’aspetto delle attribuzioni spirituali: tutt’al più si sarebbero recitate preghiere liturgiche destinate a stornare le tempeste: per ricorrere alle parole del prediletto Discepolo, per iscegliere cotesta sublime dichiarazione dell’annunziatore del Verbo, bisognava essere ben addentro negli splendori della conoscenza divina, trovarsi quasi all’altezza di quella intuizione sovrumana, meritare la protezione celeste, essere gradevole agli occhi del Signore, a dir breve, chiamarsi Cristoforo Colombo. Ogni anima cattolica penserà come noi, e niuno, che sia giudizioso, crederà al plurale, veramente inammissibile, adoperato da Washington Irving.


§ II.


Dileguata appena la tromba, il mare ristette dal suo furore: cadde la violenza delle onde; a poco a poco l’Oceano depose la sua collera; i venti erano quietati, e si diffuse una specie di calma.

I marinari, per la maggior parte malati, rimanevano rifiniti, nè più capaci di alcuna manovra. Considerando questi travagli, questi riscuotimenti, e le fatiche a cui nessuna costituzione poteva resistere, l’Herrera risguarda la sovraggiunta calma, come un atto della misericordia divina. Egli dice positivamente che [p. 188 modifica]Dio la concedette loro affine di conservarli in vita18: ma per ristorare le loro forze, non avevano che viveri corrotti e insufficienti.

Nonostante il quietare dell’aria, il sereno non ricompariva, l’orizzonte rimaneva cupo, una luce verdastra trascorreva sulla liquida pianura, della quale pesci-cani solcavano qua e là il torbido cristallo, sporgendone fuori tratto tratto le negre orride schiene: in breve, quasi convitati a sicura preda, quelle tigri dell’Oceano, che vanno ordinariamente sole, comparvero in sì gran numero intorno alle caravelle, che il loro adunamento riuscì a’ marinai di funesto presagio: ma l’Ammiraglio ne ravvivo il coraggio. Siccome non si avevano viveri freschi, fece pigliare alcuni di quegli insecutori all’esca di brani di carne corrotta, o con cenci di panno rosso. ll giovane Ferdinando Colombo, a cui quella pesca riusciva nuova, conservò memoria de’ suoi diversi casi. Vid’egli cavare dal ventre di un pesce-cane tartarughe larghe quattro piedi, le quali, vissero ancora lungamente a bordo della Capitana. Fu trovato in un altro pesce-cane, la testa di uno de’ suoi simili ch’era stata gettata in mare, e ch’egli aveva inghiottito. Per quanto ributtante fosse la carne di que’ mostri, pur la fame costringeva a cibarsene19; perocchè dopo otto mesi di mare, e tutte le intemperie patite, le provvigioni di carne si erano, corrotte, e la farina guasta dall’umidità presentavasi piena di vermi: il biscotto era siffattamente coperto di muffa e d’altro di peggio, che l’equipaggio non poteva decidersi a mangiare la zuppa, «a motivo della moltitudine degl’insetti che ne uscivano e cuocevano insieme20.» Gli uni mangiavano chiudendo gli occhi, gli altri aspettavano la notte, affine di non vedere a qual infetto nutrimento fosser ridotti21. [p. 189 modifica]Nonostante i suoi dolori e la sua malattia, l’Ammiraglio non era servito meglio dell’ultimo de’ marinai22.

Il sabato, 17 dicembre, giunsero ad un porto stretto e lungo, vicino al quale videro un villaggio costrutto sovr’alberi. Quegl’Indiani costruivano così le loro dimore per evitare le sorprese notturne, essendo in guerra coi vicini. Ivi la squadra riposo tre giorni.

Il martedì, sembrando favorevole il vento, aprirono le vele racconciate, e si misero in mare. Avevano appena preso il largo, che si levò furiosamente un altro vento, e li costrinse di ricoverare in un porto vicino. Sedotti dalle apparenze, il quarto giorno partirono con buon vento; ma si mutò dopo poche leghe. La sua violenza fu tale che non vi si potè resistere, bisognò gettarsi in una baia, ove a gran fortuna trovarono un luogo acconcio per ancorarsi. I falegnami si posero tosto all’opera, e giunsero a riparare il Galiziano, e a turare alcune vie d’acqua delle altre caravelle: fu rinvenuta una certa quantità di mais, e rinnovata l’acqua delle botti.

Il nuovo anno trovò in questo luogo le quattro caravelle.

Il 3 gennaio 1503, non ostante la pioggia e un vento contrario, la squadra tentò di ripigliare la sua via, e riuscì a penetrare il 6 gennaio, giorno dell’Epifania, in un fiume, che l’Ammiraglio, in onore dell’Epifania, chiamò Betlemme o per abbreviazione, Belen: gl’indigeni lo chiamavano Yehra; non era lontano che una lega da Veragua, paese delle miniere d’oro. Da Bel Porto a Veragua, la distanza è di circa trenta leghe: a percorrerla era bisognato quasi un mese di sforzi e di patimenti. In memoria di siffatti patimenti l’Ammiraglio chiamò questa parte del littorale Costa delle Contrarietà23. [p. 190 modifica]

Mandò a misurare la profondità del fiume Veragua, e non vi si trovò sufficiente acqua, laddove il fiume Belen era profondo quattro braccia sull’entrata: vi rimase dunque ancorato: e fu buon pensiero dell’Ammiraglio di non uscir di là, poichè un giorno più tardi non avrebbe potuto rientrarvi: lo attesta egli medesimo: «Il giorno dell’Epifania giunsi a Veragua non ne potendo più. Quivi nostro Signore mi fece trovare un fiume, e un buon porto: vi penetrai con pena, e il dì seguente ricominciò la tempesta. Se mi fossi trovato fuori, non avrei potuto entrarvi a motivo della gran sabbia24. Sulle rive di Belen era una borgata indiana, che si mise in armi alla veduta degli stranieri. La si quieto e se ne ottennero, quantunque con grave difficoltà, alcune notizie sul luogo delle miniere d’oro. La dimane una scialuppa armata entrò nel fiume. Gli abitanti mostrarono di opporsi allo sbarco: ma l’antico scudiere di Colombo, Diego Mendez, che sapeva alcun po’ l’indiano, fece loro comprendere che veniva unicamente per fare baratti: allora si calmarono, e cambiarono venti specchi d’oro con bagatelle d’Europa.

Il 12 gennaio, l’Adelantado coi canotti risalì il fiume di Veragua sino alla dimora del capo della contrada, che aveva il titolo Quibian, e che avvertito della sua visita andò a incontrarlo. L’abboccamento fu amichevole. Quibian diede i gioielli d’oro che aveva seco, e ricevette presenti che stimava di gran pregio: dipartironsi vicendevolmente soddisfatti. ll giorno dopo la curiosità condusse Quiban all’ancoraggio di Belen. L’Ammiraglio gli fe’ le migliori accoglienze, e gli mostrò le caravelle. Quibian si intratteneva con lui per via di segni. Le sue genti cambiarono specchi d’oro con sonaglietti. Improvvisamente venuto in qualche sospetto, partì. Dopo tutti i pericoli corsi dall’Ammiraglio, un altro pericolo doveva minacciarlo nel porto.

Il 24 gennaio, mentre una tempesta metteva sossopra l’Oceano, e gli Spagnoli dovevano reputarsi fortunati di essere al [p. 191 modifica]sicuro nel Belen, ad un tratto, senza motivo apparente, il fiume si gonfio all’improvviso e con sì terribile violenza, che le gomene si spezzarono: le caravelle erano spinte le une sulle altre. La Capitana fu lanciata con tanta forza contro il Galiziano che gli recò gravi avarie, e spezzò un de’ suoi alberi. Queste due caravelle andavano rasentando il fondo, ora sopra una riva del fiume ed ora sull’altra, trastulli della violenza e dello straripamento. «Fu per una grazia tutta particolare di Dio, che le due navi non andarono spezzate25.» L’Ammiraglio raccontava che il pericolo fu estremo. Le sue navi erano sul punto di essere portate via dalla furia delle acque, e aggiungeva schiettamente con modestia commovente «Nostro Signore apportò rimedio come ha fatto sempre26.» Donde procedeva questo rigonfiamento impreveduto? L’Ammiraglio non l’attribuì alle piogge continue, che avrebbero fatto crescere il fiume a poco a poco, ma ad una causa subitana, ad un immenso temporale scoppiato nell’interno delle terre sulla catena delle alte montagne che corrono dal nord all’ovest, alle quali aveva imposto il nome di San Cristoforo. L’esperienza ha giustificato l’ammirabile precisione della sua congettura.

Dal 6 gennaio al 14 febbraio la pioggia cadde senza interruzione; l’Ammiraglio lo ha scritto: «Piovette senza discontinuar mai sino al 14 febbraio, ed io non ebbi una sola occasione di penetrare nell’interno delle terre, nè di riparare in qualsivoglia luogo.» Tuttavia, a malgrado della incessante pioggia, l’Adelantado, alla testa di settanta uomini, si spinse nell’interno, e giunse dinanzi alla casa di Quibian il quale, con aria graziosa venne a incontrarlo. La dimane l’Adelantado, condotto da tre guide che gli aveva dato l’astuto Quibian, per far quattro leghe, dovette passare quarantatrè volte a guado27 un fiume, sulla cui sponda spesero la notte seguente. A mattina trovarono una specie di [p. 192 modifica]miniera d’oro alla superficie del suolo. Avendo le guide condotto l’Adelantado sopra una montagna elevatissima, gli additarono terre che si distendevano quanto può veder l’occhio, e lo assicurarono che in tutta quella regione ed anche a venti giornate al di là verso ponente, esistevano miniere d’oro, e nominarono le città e i villaggi ove se ne trovavano di più o meno abbondanti. Fu saputo poscia che Quibian aveva fatto condurre gli Spagnuoli, non alle sue miniere, di cui aveva tenuto celato il luogo, ma a quelle di un cacico suo nemico, affine di metterlo alle prese cogli stranieri.

Dopo ch’ebbe reso conto della sua missione, l’Adelantado ripartì il giovedì 16 febbraio, procedendo lungo la costa alla testa di cinquantanove uomini, seguiti dalle scialuppe: percorse una parte del littorale d’Urira, vi ottenne provvigioni, e se ne tornò con molt’oro ottenuto mercè di baratti.

L’Ammiraglio risolvette, poichè lo stato delle sue navi gli vietava allora la ricerca dello stretto, di stabilire su quel punto un posto militare, che sarebbe al tempo stesso una fattoria per la ricerca dell’oro, mentre egli se ne andrebbe direttamente in Castiglia a prendere rinforzi e munizioni. Fece diversi doni a Quibian affinchè non s’insospettisse di quello stabilimento sulle sue terre. Fu scelto un luogo un po’ alto vicino al fiume, ad un chilometro dalla foce. Ottanta uomini vi sbarcarono sotto il comando dell’Adelantado, fecero case in legno con tetti di foglie di palma; costruirono sodamente un gran magazzino per racchiudervi le provvigioni da bocca, le armi e l’artiglieria. L’Ammiraglio lasciò loro il Galiziano provveduto il meglio che fu possibile, e munito di utensili di pesca; indi si dispose alla partenza. Già ai torrenti di pioggia ed alle innondazioni era succeduta senza transizione la siccità. Il fiume si era considerabilmente abbassato: la sabbia, spinta dai flutti, formava all’imboccatura una barriera insuperabile; non v’era là che un mezzo braccio d’acqua. Fu necessità pazientare. Colombo aspettò che cotesto pioggie, tanto maledette dianzi da’ suoi equipaggi, ed allora così vivamente desiderate, venissero a liberarlo da quel blocco. [p. 193 modifica]


§ III.


Quibian vedendo che si andava costituendo una durevole colonia sopra il suo territorio, risolvette di assalire all’improvviso quegli stranieri e d’incendiare lor navi. Dissimulando astutamente le sue intenzioni, fece mostra di raccogliere le sue schiere per combattere il cacico di Cobrava, con cui aveva testè avuta una scaramuccia, nella quale eragli tocca una ferita: mentre apparecchiava l’attacco sotto gli occhi degli Spagnuoli, a bordo del San Giacomo di Palos un uomo osservava attentamente l’andare ed il venire degl’indigeni.

Quest’uomo ha figurato troppo in questa spedizione, perchè abbiamo a non concedergli una menzione alla quale avrebbe diritto anche pel suo solo coraggio, se la virtù non superasse in lui il coraggio quantunque stupendo: egli era di Segura e si chiamava Diego Mendez: ammirazione lo aveva sin da principio attaccato alla persona di Colombo qual servo volontario: lo aveva accompagnato alla sua prima scoperta, ed era diventato uno de’ suoi scudieri, seguendolo in questa qualità nel secondo e nel terzo viaggio. Avendo l’Ammiraglio riconosciuto il suo merito, lo aveva assunto capo segretario della squadra, e posto a bordo del San Giacomo di Palos per rimediare all’incapacità del capitano Francesco di Porras.

Diego Mendez venne a trovare l’Ammiraglio, e gli disse: «Monsignore, le genti che sono passate di qua in assetto di guerra, dicono che vanno ad unirsi con quelle di Veragua per muovere contra gli Indiani di Cobrava: ed io penso che sia per incendiare le nostre navi e trucidarci tutti28.» L’Ammiraglio incaricò Diego Mendez di vigilare sugl’Indiani. Senza metter tempo a mezzo, Diego Mendez armò un canotto, e mosse lungo la costa di Veragua per riconoscere il campo nemico. Non ebbe corsa mezza lega, che trovò raccolti più di mille guerrieri ben provveduti di viveri [p. 194 modifica]e di liquori29. Facendo accostare il canotto, ardì scendere a terra ed avanzarsi solo in mezzo a loro: offrì di seguirli alla guerra; ricusarono, dicendo ch’era inutile. Egli rientrò in barca e rimase tutta notte a spiare le loro mosse. Quella notte medesima era stata scelta per l’esecuzione del loro disegno. Vedendosi scoperti, presero il partito di tornare a Veragua, mentre l’intrepido Mendez riedeva alla Capitana a far la sua relazione all’Ammiraglio: «raccontai, dice, ciò ch’era avvenuto, ed egli l’apprezzò infinitamente.»

Incoraggiato da questo primo successo e dai ringraziamenti dell’Ammiraglio, il bravo Diego Mendez si offerse di andar a spiare i selvaggi nel proprio campo: questo era il colmo dell’ardimento: siccome meditava uno stratagemma, gli bisognava un compagno, e lo trovò. Non è cosa che riesca meglio dell’audacia. Un giovane aspirante della Biscaglina, Rodrigo di Escobar, accettò d’andar seco. Fra via Diego Mendez incontrò due canotti d’Indiani stranieri, e seppe da loro che il disegno, sturbato dalla sua presenza, verrebbe messo ad esecuzione notturnamente fra due giorni: li pregò di condurlo, sino a Veragua nei loro canotti: ne lo dissuasero, perché dicevano che in giungere verebbero trucidati30. A forza di istanze, ottenne di essere sbarcato in faccia ai villaggi indiani: là i guerrieri di Quibian gli attraversarono la via: Diego Mendez finse di venire nella sua qualità di chirurgo, per guarire il loro capo della sua ferita e lo lasciarono passare.

La casa di Quibian posta sopra un’eminenza, occupava il centro di una piazza decorata in giro da trecento teste di vinti. Non badando a quegli orridi trofei, Mendez giunse alla porta del palazzo: a vederlo uno stuolo di donne e di fanciulli che stavano [p. 195 modifica]seduti sulla soglia rientrarono mettendo alte grida. Nonostante il sopravvenire di un figlio di Quibian, circondato da guerrieri, Diego osservo diligentemente i luoghi, e si ritirò senza che gli fosse recata noia.

Dietro la sua relazione fu risoluto l’imprigionamento di Quibian e de’ suoi ufficiali; e l’Ammiraglio incaricò l’Adelantado di porlo ad esecuzione. Don Bartolomeo prese seco ottanta uomini che lo seguirono a due a due a qualche distanza dalla casa di Quibian, nascosi fra gli alberi: indi penetrò, seguito da soli cinque uomini, nella fortezza del Capo, s’impadronì di lui, e trasse un colpo d’archibugio, in udir il quale accorsero gli Spagnuoli imboscati. Incontanente i parenti e gli ufficiali di Quibian, una cinquantina circa, muti della sorpresa, furon parimenti incatenati.

I vassalli del cacico mettevano urli di disperazione; supplicavano l’Adelantado di rendergli la libertà, offrendo pel suo riscatto un tesoro che dicevano nascosto nella vicina foresta. Ma l’Adelantado non avendo tempo da perdere, per evitare il radunamento della intera tribù, fece immantinente trasportare i prigionieri sulle scialuppe.

Quibian venne fidato alla guardia del primo luogotenente e piloto generale della squadra, Juan Sanchez, un Ercole di gagliardia. Alle raccomandazioni espresse dell’Adelantado, costui rispose con aria da gradasso, che permetteva, se il prigioniero fuggivagli, che gli fosse strappata la barba a pelo a pelo; e tosto prese seco Quibian legato a dovere, lo pose in fondo al canotto, lo legò ad un banco, e discese a seconda del fiume, perchè annottava. Quibian si lamentava de’ suoi ceppi che diceva’essere troppo stretti. Juan Sanchez non era privo di umanità; trovandosi in mare ad una mezza lega dall’imboccatura di Belen, ov’erano ancorate le caravelle, sciolse i ceppi del selvaggio e distaccò la corda che lo teneva fisso alla tavola de’ rematori, contentandosi tenerla in mano. Quibian seguiva attentamente i movimenti dal piloto. Cogliendo l’istante in cui guardava da un altro lato, l’indiano si slanciò nei flutti, cadde come un macigno in fondo al mare e scomparve. La scossa del salto aveva atterrato Juan Sanchez. Quibian, avvezzo a tuffarsi sott’acqua, [p. 196 modifica]nuotò e scampò. Questo incidente fece addoppiare la vigilanza sugli altri prigionieri.

Ordinato l’imbarco di Quibian e de’ suoi, l’Adelantado aveva inseguito l’esercito indiano; ma erasi questo disperso in boscaglie impenetrabili: egli si ristrinse, pertanto, ad esercitare i suoi diritti di conquista sulla casa di Quibian. L’oro non abbondava nella dimora del possessore delle più ricche miniere allora conosciute: non vi trovò che sei grandi specchi d’oro, due corone, diverse piastrelle e ventitrè gioielli31. Il tutto insieme poteva valere trecento scudi d’oro32, e li portò all’Ammiraglio. Per ricompensare questa abilità di esecuzione, che non era costata una goccia di sangue, prelevati i diritti regi, Colombo diede all’Adelantado una delle due corone d’oro, e distribuì il rimanente fra gli uomini che lo avevano accompagnato.

Sopraggiunsero pioggie abbondanti, che permisero di tirare le tre caravelle fuor dell’imboccatura: ma il cumulo della sabbia era così alto che non si potè, a malgrado che penetrassero poco nell’acqua, farle passare senza scaricarle interamente: quando furono in mare, bisognarono diversi giorni per trasportare a bordo colle scialuppe il carico, e distribuirlo in un colla zavorra. L’Ammiraglio aveva gettato l’áncora ad una lega dall’imboccatura, aspettando un vento favorevole per andare direttamente alla Spagnuola, donde avrebbe mandato alla piccola guarnigione rinforzi e provvigioni prima della sua partenza per la Castiglia. Quibian intanto, uscito dai flutti, si aggirava per le abitazioni de’ suoi sudditi, e ne infiammava l’odio contro gli Spagnuoli: nascoso tra gli alberi, spiava i loro movimenti e preparava segretamente la sua vendetta.





Note

  1. Cristoforo Colombo, Lettera ai Re Cattolici scritta dalla Giammaica il 7 luglio 1503.
  2. “Ojos nunca vieron la mar tan alta, fea y hecha espuma” — Cuarto y ultimo viage de Colon.
  3. Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. xciv.
  4. “Alli me detenia en la mar fecha sangre, herbiendo como caldera por gran fuego. El cielo jamas fue visto tan espantoso. Un dia con la noche ardió come forno.” — Cuarto y ultimo viage de Colon.
  5. Charlevoix, Storia di San Domingo, I. IV, p. 241 in-4.
  6. Herrera, Storia generale dei viaggi e conquiste dei Castigliani nelle Indie occidentali, Decade 1, lib. V, cap. ix.
  7. Cristoforo Colombo. — “La gente estaba ya tan molida que deseaban la muerte para salir de tantos martirios.“ Cuarto y último viage de Colon.
  8. Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. xciv.
  9. “Los navios ya habian perdido dos veces las barcas, anclas, cuerdas, y estaban abiertos, sin velas.” — Cuarto y último viage de Colon.
  10. Charlevoix, Storia di San Domingo, I. lV, p. 241 in-4.
  11. Charlevoix, Storia di San Domingo, I. IV.
  12. Da quivi l’idea, dapprincipio sparsa nei marinari, che potevasi preservare dalle trombe tagliandole con una sciabola e coll’Evangelio di San Giovanni. Nella sua traduzione della vita di Cristoforo Colombo il provenzal Catolendy ci ricorda ingenuamente questa credenza. In una nota in margine al suo libro, parlando delle trombe dice, “si riesce a guarentirsene tagliandole con un coltello e l’Evangelo di San Giovanni.” La vita di Cristoforo Colombo, 2ª parte, cap. xxxii, in-12 da Claudio Berton 1681.
  13. Las Casas, Historia de las Indias, lib. II, capit. xxiv. Ms.
  14. Herrera, Storia generale dei viaggi e conquiste dei Castigliani nelle Indie occidentali. Decade 1, lib. V, cap. ix.
  15. Il Padre Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. IV, p. 242.
  16. “Manica che il martedì a 15 di decembre passò fra i navigli, la quale se non tagliavano dicendo l’Evangelio di san Giovanni, non è dubbio che annegava chiunque côlto ella avesse.” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. cxiv.
  17. Washington Irving, Storia di Cristoforo Colombo, lib. XV, cap. vi, tom. III, p. 211.
  18. Herrera, Storia generale dei viaggi e conquiste dei Castigliani nelle Indie occidentali, Decade 1, lib. V, cap. ix.
  19. “Ora quantunque alcuni gli avessero per mal augurio, ed altri per cattivo pesce, tutti nondimeno lor facemmo onore, per la penuria che di vettovaglie avevamo.” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. xciv.
  20. Herrera, Storia generale delle Indie, Decade 1, lib. V, cap. ix.
  21. “Io vidi molti, i quali aspettavano la notte per mangiar la mazzamora, e non vederci i vermi che v’erano.”— Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. xciv.
  22. Il P. Charlevoix, Storia di san Domingo, lib. IV.
  23. “La cagione di tutte queste contrarietà tanto è spaventevole da credere che giammai un navigatore abbia potuto averne di simili in sì breve cammino qual è quello da Porto Bello a Veragua. L’Ammiraglio denominò questa costa la Costa de los contrastes. Durante tutto questo perverso tempo egli ebbe la gotta con dolori acutissimi, e tutti quanti trovavansi nei vascelli, furono ammalati, e affranti di forze in modo strano. — Herrera, Storia generale dei viaggi, ecc., nelle Indie occidentali. Decade 1, lib. V, cap. ix.
  24. Cuarto y último viage de Colon.
  25. Herrera, Storia generale dei viaggi e conquiste dei Castigliani nelle Indie occidentali, Decade 1, lib. V, cap. x.
  26. “Y cierto los vi in mayor peligro que nunca. Remedió Nuestro Señor, como siempre hizo.” — Cristoforo Colombo, Lettera ai Re Cattolici indirizzata dalla Giammaica il 7 luglio 1503.
  27. Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. xcv.
  28. Relacion hecha por Diego Mendez de algunos acontecimientos del último viage del Almirante don Cristóbal Colon.
  29. “Cuando hallé al pie de mil hombres de guerra con muchas vituelles y brevages.” — Relacion hecha por Diego Mendez de algunos acontecimtientos del último viage, etc.
  30. “É yo les rogué me llevasen en sus canoas el rio arriba, y que gelo pagaria; y ellos se escusaban aconsejándome que en ninguna manera fuese, porque fuese cierto que en llegando me matarian á mi y al compañero que llevaba.” — Relacion hecha por Diego Mendez de algunos acontacimientos del último viage, etc.
  31. Inventario della presa disteso dal notaio reale Diego de Porras. — Relacion del oro que trajo el Adelantado de Veragua, cuando trajo preso al Cacique e ciertas piezas de guani.
  32. Il P. Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. IV.