Così mi pare/Cose/La catacomba gloriosa
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La catacomba gloriosa
Assisi, settembre.
Bassa, ampia, raccolta come in uno sforzo di tutta la volta largamente arcuata, appoggiata sui piloni massicci possenti, velata sempre di penombra, contesa sempre alla libera luce del sole, la chiesa inferiore di San Francesco è come il cuore della costruzione poderosa raggruppata intorno alla Basilica.
La Basilica trionfa su, colla chiesa superiore eretta libera nel sole, coll’imponenza delle sue torri, colla maestà severa e un po’ minacciosa dei suoi contrafforti a picco sulla valle, come i bastioni d’una fortezza antica, colla fuga d’arcate agili e bianche — leggere all’occhio, resistenti ai secoli — sulle quali poggiano il Chiostro e il Convento. A chi arrivi dalla pianura venendo verso Assisi, la visione si presenta con una grandezza suggestiva indimenticabile. Tutta la complessa costruzione, che sembra una fiorita di chiese e di chiostri, par sbocciata dal lungo colonnato candido, che corre sotto il convento staccandosi niveo dalla massa bruna della roccia aspra, sulla quale tentano invano di arrampicarsi gli ulivi. Poggio e convento e basilica chiudono la piccola città a sinistra, sopra la valle: la chiudono, ma insieme la dominano e pare l'assorbano, tanto possente è la suggestione maestosa che da quella specie di fortezza mistica irradia sulla massa grigiognola, uniforme, raccolta, delle piccole case della città, vestite tutte dun solo colore: quello del tempo.
Naturale, d’altronde, che la fortezza francescana domini Assisi e l'assorba: non è tutta, forse, la città, piena del suo spirito? non fu in quella fortezza il suo cuore? non per la voce mistica che da quella si effuse andò il suo nome attraverso i secoli e attraverso il mondo? non è ancora, quella fortezza, il centro nel pellegrinaggio incessante che addita Assisi a tutte le anime assetate di fede, assetate di pace, assetate di poesia e di sogno?
La piccola città è tutta prona ai piedi della Basilica, e nella Basilica è riassunta tutta la storia francescana.
Ascoltiamo la tradizione.
San Francesco moriva nel convento della chiesa di Santa Maria degli Angioli, giù nella valle, in faccia alla collina del miracolo. Era P anno 1226. Intorno a lui, i fratelli inginocchiati pregavano e piangevano, Francesco, rinvenuto dopo un lungo deliquio, chiamò frate Leone e gli espresse la sua volontà di venir seppellito nella roccia viva d un orrido, chiamato il colle dell’Inferno, situato a oriente della città. Dodici anni dopo, sul suo sepolcro sorgeva, miracolo di grandezza e di gloria, la Basilica. Questo è dunque il monumento eretto al Santo, la consacrazione dell’opera Sua e la glorificazione della sua vita. Questa glorificazione è stata affidata all’arte, alla commovente arte ingenua dei primitivi, materiata di semplicità e di fede, esprimente il miracolo col consenso pieno di una mente, per la quale il soprasensibile e il soprannaturale sono la legge stessa della vita. Più evidente e più efficace è quest’espressione d’arte negli affreschi della chiesa superiore, alta, slanciata nella snellezza della sua struttura gotica, piena sempre d aria e di luce. Lungo le sue pareti, rovinate in gran parte dall’umidità, Giotto e gli allievi suoi hanno fissato in affreschi meravigliosi i pili rilevanti episodi della vita e della morte di San Francesco. Non è illustrazione nè commento nè glorificazione, questa, è storia — storia semplice e piana narrata nello stesso stile dimesso, limpido ed efficace dei Fioretti avvalorata dall’interpretazione scrupolosamente esatta degli episodi, dei fatti, dei miracoli, fatta da uomini che furono quasi contemporanei del Santo e la tradizione viva appresero dai compagni di Lui e seppero l’ambiente dove si svolgeva e seppero lo spirito che la interpretava. Tutta l’anima del Medio Evo semplice e mistico fluttua viva fra queste mura consacrate, un’anima che armoniosamente s’intona alla suggestione d’Assisi, che ne continua l’impressione di serenità, che come quella parla soltanto di azzurro e di pace. Diversa, invece, infinitamente più profonda, più grave, più composta, quasi austera è la suggestione della chiesa inferiore che sorregge sulle sue possenti spalle la prima.
Gittata sul sepolcro del Santo e chinata a vegliarlo coll’oro stellato delle sue lampade, col baglior tenue delle nervature lucenti e degli stucchi a rilievo dorato, che disegnano l’ areola dei Santi negli affreschi del suo cielo istoriato, l'amplissima volta romana, così bassa e distesa in un abbraccio immenso, dà alla chiesa perpetuamente avvolta nella penombra r aspetto d’una catacomba. L’impressione risponde alla visione: lo spirito che lassù, nella chiesa superiore, si sollevava in un cantico che poteva essere una preghiera, si espandeva in un intima gioia che era ammirazione adoratrice, si raccoglie qui con un movimento immediato, si ripiega, medita, pensa, contendendo le ali al sogno, chiudendo il cuore all'effusione gioconda. Siamo nella chiesa del Santo ma siamo vicini a una tomba.
A poco a poco, anche da quella suggestione di gravità austera sboccia la serenità, così gli occhi abituati alla penombra ne penetrano lentamente il mistero, e allora la navata e la volta della chiesa-catacomba-cripta, appaiono interamente coperte da meravigliosi affreschi, come un messale miniato dell'età che esse rammentano. Non una parete, non uno specchio della volta che non siano animati da una pittura.
Ogni angolo della superfìcie liscia di queste muraglie ha il suo Santo, la sua leggenda, il suo episodio, la sua parabola — scene ricavate dalla vita dei Santi e racconti tolti dal Vangelo; allegorie sacre o simboli mistici. E tutte queste scene, queste figure, questi episodi mettono, nella solitudine buia e silenziosa della navata, un’intensità di vita intraducibile. L’arte è sempre quella: satura della poesia dei primitivi, fatta tutta di fede e di semplicità: Gimabue, Giotto, Simone Memmi, Pietro Lorenzetti. Giunta Pisano.
Sotto la volta del coro sono i quattro famosi affreschi, nei quali Giotto ha celebrato il trionfo della Carità, il Matrimonio di S. Francesco colla Povertà, il Voto d’Ubbidienza e la Gloria finale del Santo. Le quattro allegorie sono tradotte con un senso di verità così semplice ed efficace, da trasmutarle in quattro poemi. E certo dal divino Poema ha tratto Giotto l’ispirazione per il suo Matrimonio di S. Francesco colla Povertà. Ad attestarlo, ove non bastasse la figurazione dell’allegoria che ripete col disegno e col colore i mirabili versi dell’undicesimo canto del Paradiso, ecco il ritratto di Dante, che Giotto ha collocato in un angolo del Trionfo della Castità, un Dante austero, amaro, quasi arcigno ma assai più intenso e presumibilmente anche più vero di quello che Luca Signorelli ha dipinto nella cappella del Duomo d'Orvieto. Scendiamo ancora.
In una piccola cripta scavata sotto la catacomba gloriosa, è il sepolcro di S. Francesco.
La salma sacra non è visibile. Composta in una cassa d’argento, che oggi è ermeticamente chiusa, dopo il riconoscimento e la constatazione d’identità compiuta dal Pontefice Pio VII sulla scorta dei documenti conservati dall’ Ordine, la spoglia del Santo riposa ancora nella roccia di travertino dove, giusto il suo desiderio, i suoi fratelli la deposero sette secoli addietro e dove venne poi ritrovata.
Il blocco, grossolanamente tagliato, isolato dal resto della roccia, si eleva ora, come un alto sarcofago, nel mezzo della stanza sepolcrale, chiuso intorno da una cancellata protettrice. Un’altra cancellata chiude l’accesso alla scala che dalla chiesa conduce giù nel sepolcro. Nella penombra non diradata mai tremano due piccole stelle d’oro, due lampade dalla fiammella tenue, sempre vegliante, sempre viva. E il silenzio è profondo, solenne, imponente.
Anche l’impressione è profonda: viene dalla stessa infinita semplicità della visione, dalle memorie che essa risuscita, dai pensieri che suggerisce, dalla meditazione che sollecita.
Oltre la custodia di granito, oltre la custodia d’argento, gli occhi immaginano, vedono il Santo. Lo vedono disteso rigido sotto il saio greve, come nell’affresco dei suoi funerali che è su nella chiesa superiore: lo ricompongono sulla scorta del ritratto che è nella tavola di Giunta da Pisa, conservata nella sacristia della catacomba: alto, inverosimilmente scarno, già trasmutato nel viso che ha l’espressione estrema dell’ascetismo, con appena quel tanto di materia indispensabile per formare il più ridotto involucro di uno spirito impaziente di liberazione; sopratutto lo rivedono vivo sulla scorta dei Fioretti della leggenda, della tradizione; rinnovatore della semplicità di Cristo, glorificatore della rinunzia, esaltatore della dolcezza.
L’eredità materiale del Santo della Povertà, tutto quello che di Lui è rimasto, si conserva, diventato reliquia, nella sacristia della chiesa inferiore. È il tesoro dei Minori Conventuali che hanno in custodia la Basilica. Ecco ciò che rimane del primissimo abito francescano; un pezzo di rozzo saio color terra, non bigio, non nero, non bruno, ma d’una tinta risultante dalla fusione di tutti questi colori insieme — una tinta che non temeva il sole, che fraternizzava coll’acqua, che conosceva la terra nuda per giaciglio, che passava incolume attraverso tutte le stagioni: accanto al saio, un paio di sandali cuciti da Santa Chiara; un paio di rozze scarpe grossolane, calzate dal Santo; l’abito che Egli indossava morendo; un lembo di pelle d agnello imbevuta del sangue delle stimmate; il cilicio del Santo, formato di grosse spine passate attraverso una corda: un pezzo di pergamena colla formula della benedizione di S. Francesco, scritta dalla mano stessa del Santo e donata a Frate Leone; infine, la Regola del Primo Ordine Francescano, tracciata anche quella dal Serafico e conservata dentro un quadro.
Questa, l’eredità materiale, trasmutata ormai anch’essa in suggestione di spiritualità. L eredità morale è riassunta in un altro quadro, che sta di fronte a quello dov’è custodita la Regola, e dove è tracciata la fioritura rigogliosa dell’albero francescano. Quanti rami da quel tronco unico! Francescani, francescane. Minori Conventuali, Minori Osservanti, Zoccolanti, Terziari, Terziarie, Cappuccine, Clarisse....
Di tutti codesti proseliti innumeri del Santo, moltiplicatisi per il mondo, questa Basilica è stata la culla venerata: per tutti essa è tuttora il cuore della terrena patria e il centro stesso della vita.
Usciamo dalla penombra mistica.
Fuori è una gloria di sole nel quadrato chiuso della gran piazza cintata dal porticato claustrale, dove un tempo sostava la folla dei pellegrini accorrenti per la festa del Perdono.
La piazza si apre sopra una via d’Assisi: sulla Basilica, sul Convento. Ma nel Convento la vita monacale tace. Essa s’è ritirata nel chiostro esiguo dietro l’abside della Basilica; sotto il colonnato bianco imponente maestoso, aperto non sul chiostro ma in faccia alla vallata ed alle lontane colline azzurre, e al cielo e al sole risuona l’eco d’una rinnovata vita gaia, spensierata e lieta. L’antico Convento è diventato collegio per i pupilli dello Stato, gli orfani dei maestri italiani.
Il cerchio magico di poesia non è interrotto.