Cortona convertita/Canto quarto

Canto quattro

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Canto terzo Canto quinto


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CANTO QUARTO


ARGOMENTO.



Il Missionario, a cui non acconsente
     Di fare il collo torto Don Simone,
     A radunar in procession la gente,
     Il Commissario, il Vescovo dispone:
     Questa finita, egli con zelo ardente
     In pubblico gli fa nuovo sermone;
     Si disciplina, e poi senza processi
     Confessan molti i lor nefandi eccessi.


I.


Da che mi entrò nel capo la pazzia,
     Mentre godevo dell’età primiera,
     E che per mezzo della Poesia
     Presi per vizio a canzonar la fiera,
     Il modo m’insegnò Mona Talìa
     Di far le fiche al Mondo in tal maniera;
     E nell’azioni altrui spropositate
     Il Democrito far colle risate.

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II.


Or più che mai tal vizio in me si scorge,
     Parto della mia pazza inclinazione;
     E tanto più che meco ora risorge
     Dal riposo la Musa, e mi dispone
     A proseguir l’istoria, che mi porge
     Di sfogarmi col canto l’occasione:
     E fare a voi, se pur bramate udire,
     Dei spropositi a balle ora sentire.

III.


Del Gesuita già da me lasciato
     Quando finito avea di predicare,
     Or vi dirò com’egli ritornato
     Dalla Chiesa alla casa a riposare,
     Se ne stava egli sempre apparecchiato
     Per udir chi s’andava a confessare;
     Quindi ogni sera dopo un bel sermone
     Se n’andava col Clero a processione.

IV.


E perchè poi ognun s’edificasse,
     E il Popolo devoto concorresse,
     Bramava che un Delfin si ritrovasse,
     Che la pesca de’ tonni gli accrescesse,
     Che una testa di morto in man portasse,
     E corona di spine in mano avesse;
     E l’animo tentò di Don Simone
     A fare in cotal guisa il Bacchettone.

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V.


Ma il Prete ch’era lesto, e volpacchiotto,
     E distingueva il giulio dal carlino:
     Rispose: o Padre non mi fate motto,
     Per mostrarmi alla gente Babbuino,
     Perchè parrebbe di somaro un trotto,
     E di servire al Mondo per uncino;
     Ma se volete far Gesuitate,
     Un Barbagianni più di me trovate.

VI.


Con energia dipoi, con argomenti
     Costui convinse i Peccatori erranti
     Nel predicare, e co' suoi rauchi accenti
     Fè tremar di paura i circostanti;
     Ad alta voce fè gridar le genti
     Misericordia con sospiri, e pianti;
     Con Testi, con Filosofi, e Dottori,
     Piantò la Fede, e intenerì i lor cuori.

VII.


Di fare andare un giorno a processione
     Con tutt’i Preti, e Frati egli dispose
     Uomini, e Donne d’ogni condizione,
     E persone da bene, e scandalose;
     Portare in testa poi con devozione
     Di spine una Corona lor propose,
     Con teschio in mano, che di morte è un pegno
     Per dar di contrizione aperto segno.

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VIII.


Ma prima ne parlò con Monsignore,
     Che gli diede di ciò buona licenza;
     Al Commissario ancor che di buon cuore
     Giudicò bene far questa apparenza:
     Il Vescovo dipoi come Pastore,
     Per pubblicar sì santa Penitenza;
     Fece attaccare in Piazza manoscritto,
     D’espresso ordine suo cotale Editto.

IX.


Philippus Galileus Gratia Dei
     Episcopus dignissimus Cortonæ
     In Domino Dilecti Filii mei,
     Comanda che venghiate in Processione
     Tutti cantando Miserere mei,
     Armati di modestia, e contrizione,
     Et ita est, Philippus, poi diceva,
     Et Bricchius Secretarius, soscriveva.

X.


D’ordine alfin del Commissario un Bando
     In piazza poi fu letto, e pubblicato,
     Ch’egli voleva, ed era suo comando,
     Che pronto ognun si fosse ritrovato
     In Chiesa Cattedrale alloraquando
     Colla campana il segno fosse dato,
     Uomini, e Donne ancor di mal’affare;
     E le Botteghe per quel dì serrare.

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XI.


Per ordine, diceva il Banditore,
     Del Commissario nostro di Cortona,
     Si notifica a tutti, che a vent’ore
     Dimani si ritrovi ogni persona
     Per obbedire al nostro buon Pastore
     In duomo, e porti in testa una corona
     Di spine, e faccin tutti il collo torto,
     Portando nelle man teschi di morto.

XII.


Giunto quel giorno in cui da penitente
     Comparir si doveva in mascherata,
     Ripiena fu la Cattedral di gente,
     Che dal suon di campana era chiamata;
     Dopo lungo sermon con zelo ardente
     In Procession fu tutta incamminata,
     Dal Missionario già divisa in cori
     Di vacche, troje, verri, becchi, e tori.

XIII.


Quì si vedean passare a duoi, a duoi
     Sacchi rossi, turchini, bianchi, e neri;
     Altri a guisa di bufali, e di buoi
     Col giogo di una Croce; altri severi
     Battersi con flagelli, ed altri poi
     Sulle spalle portare alberi interi;
     Come se avesser con tal penitenza
     A rimpiantare allora la coscienza.

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XIV.


Io non so se tant’ossa Ezecchiello
     Nel Babilonio campo già vedesse,
     Quanti che fur cavati dall’avello
     Teschi di morti, perchè in forme espresse
     La memoria dell’ultimo flagello
     Portato ognuno avanti agl’occhi avesse;
     Pensando che tra le mondane pompe
     Tanta fava dell’uom poi si corrompe.

XV.


Correte ora curiosi a rimirare,
     Come pian piano camminan le Donne,
     Con modesti sembianti, e faccie amare,
     Con vesti vili, e rappezzate gonne;
     Che con languida voce già cantare
     Le sentirete il Kyrie eleisonne:
     Vedove, con zittelle, e maritate
     Vengon divise a schiere, e separate.

XVI.


Seguono poi le Donne da partito,
     Che d’esser liberali han per natura,
     Concorse anch’esse al generale invito
     Di chi di convertirle ha gran premura;
     Per non esser altrui mostrate a dito,
     Come ostinate, e di coscienza dura:
     Ond’ebbe a dire una delle più scaltre,
     Noi ancora facciam quel che fan l’altre.

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XVII.


La Besa, la Volpina, e la Saracca,
     La Muffa, la Rossina, e la Foriera,
     La Nina, la Tarlocca, e la Baldracca,
     La Bicchia, Petronilla, e Giulia nera,
     La Ricciolina con ogn'altra Vacca
     Si vedevano tutte in una schiera
     Accoppiar la modestia, e viso bello,
     Con molt’anni di chiasso, e di bordello.

XVIII.


Con modi affettuosi, e buona voglia
     Venivan dietro a queste i Preti, e Frati,
     Mostrando al collo torto aver gran doglia,
     Forse dalla coscienza travagliati;
     Sotto pretina, o sia fratina spoglia
     Spirti geniali se ne stan celati;
     Perchè legge più stretta a lor prescritta
     Gli obbliga a star colla coscienza dritta.

XIX.


Ecco già dietro a tutti s’incammina
     Il nostro Missionario al Clero appresso;
     E gode assai, che il Popolo s’inchina
     Ai suoi voleri con devoto eccesso,
     Con Croce in spalla, e in man la Disciplina;
     Giubbilando frattanto infra se stesso,
     Di potere in virtù di sue parole,
     D’un’intera Città far ciò che vuole.

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XX.


Sei specie ho ritrovato di minchioni:
     Che al mio parer sono de’ più massicci,
     La prima specie è quella dei padroni,
     Tien la seconda in servitù i capricci;
     La terza si divide in bacchettoni;
     Prender la quarta suol d’altrui gl’impicci;
     Quei della quinta, ad ogni vento cedono;
     La sesta è di color che a tutti credono.

XXI.


Fra questi posso dar il primo loco
     A Cortonesi miei compatriotti;
     Perchè li vedo omai a poco, a poco
     Entrare nella rete dei merlotti:
     Quindi in pulpito a dir cose di fuoco,
     Dal Missionario Gesuita indotti,
     Come uccellacci appunto nella rete
     Presi da esso come sentirete.

XXII.


Ma prima a noi conviene in compagnia
     Col medesimo andare in Processione;
     Ed alla Chiesa poi per altra via
     Tutti insieme tornar con devozione:
     Quivi la gente sì devota, e pia,
     A far atti esortò di contrizione,
     E per tal fine in pulpito montato,
     Pax vobis disse; il Ciel sia ringraziato.

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XXIII.


O Cortonesi miei sì dolci, e cari,
     Figli degli Antenati gloriosi,
     Che oggi del mondo non avete pari
     Nell’esser buoni, docili, e pastosi;
     Ascolti il Cielo i vostri pianti amari,
     Segno di penitenti e dolorosi:
     Or dimandate a Dio sue grazie in dono,
     Misericordia, e d’ogni error perdono.

XXIV.


Niniviti novelli oggi vi miro,
     Ridotti a penitenza, e conversione,
     Mentre ogni vostra lagrima, e sospiro
     Un effetto mi par di contrizione;
     Perciò vogl’io quì compartirvi in giro
     Col Crocifisso la Benedizione,
     E rimandarvi a casa, o miei diletti,
     Tutti santificati, e benedetti.

XXV.


Dite, chi è tra voi quel peccatore,
     Così nefando, scellerato, e tristo,
     Quel Giuda, che tradì nostro Signore,
     Ebreo, che ha crocifisso questo Cristo?
     Gridi misericordia, e con dolore
     Dica son io, che poi sentito, e visto,
     Da me prima d’ogn’altro benedetto
     Voglio che sia con singolare affetto.

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XXVI.


Allor tra quella gente radunata
     Siccome appunto gli augelletti fanno,
     Quando che se ne allieva una nidiata,
     Che tutti a gara a bocca aperta stanno
     E che pronti a ricever l’imbeccata
     In uno stecco, aspettan con affanno;
     Alzano il capo, e gridan pio, pio,
     Rimbombò per la Chiesa un io, io.

XXVII.


Orsù, fratelli miei, diss’egli allora,
     Preghiamo dunque la Bontà Divina,
     Che ci perdoni; ed io, e voi ancora
     Facciamo assiem la santa Disciplina;
     Il suo corpaccio ognun senza dimora
     Alla frusta condanni, e alla berlina;
     Quindi intonato avendo il Miserere
     Si battevano tutti a più potere.

XXVIII.


In pulpito egli pur con un flagello,
     Che di lastre di ferro era formato,
     Faceva colassù sì gran bordello,
     Che pareva un Demonio scatenato;
     Ma chi non lo stimò per un baccello
     Giudicò che di legno fosse armato;
     O di cartone, o d’altra cosa dura,
     Come sarebbe il giaco, o l’armatura.

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XXIX.


In questo mentre un Prete bell’umore
     Con un pezzo di fune strepitava
     Sulla predella dell’altar maggiore,
     Che in vece del suo corpo flagellava;
     E perchè non avea contrito il cuore
     Nel perquoter quel legno dimostrava
     Fatta di legno ancora la coscienza,
     Nel ridur la predella a penitenza.

XXX.


La fune poi da non so chi si sia
     La mattina in quel luogo ritrovata,
     Come persona assai divota, e pia,
     Avendola raccolta, e poi baciata,
     Disse: or vedete se del Ciel la via
     Infino il Campanile ha quì mostrata!
     Benedetta la fune, ed in buon’ora
     Quel ch’adoprolla; ei n’ha bisogno ancora.

XXXI.


Ma quì conviene ormai narrarvi come
     Fu sentito più d’un de’ suoi peccati
     Sciogliere il sacco, e scaricar le some
     Di delitti commessi, e ancor celati;
     Quindi in pulpito poscia a proprio nome
     Coram, & clara voce pubblicati;
     Esortandone tutti il Gesuita,
     Per far l’anotomia dell’altrui vita.

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XXXII.


Costui una mattina predicando
     Molto si lamentò, che non vedeva
     In Cortona quel frutto, come quando
     Negli altri luoghi predicar soleva,
     Gli uomini, e donne in pulpito montando,
     Pubblica confessione ognun faceva;
     Tanto la Nobiltà, quanto i Plebei
     Con dir Mea culpa, Miserere mei.

XXXIII.


Quindi esortò ciascuno a far palese
     La sua coscienza, e dire i suoi difetti;
     Ed un Delfino alfin trovò che attese
     A simil pesca, acciocchè i tonni alletti;
     L’esempio poi di questo in molti accese
     Voglia di far l’istesso con gli effetti;
     Si sentì pubblicar più d’un misfatto,
     E dire; io son colui che ho detto, e fatto.

XXXIV.


Di questi alocchi il Capomastro e scorta
     Era di Croce rossa un Cavaliero
     Dell’Ordin Fiorentino, che affetto porta
     Del corno bigio al portator severo;
     Egli spesso con quello si diporta,
     Menando buona vita; e pensa in vero
     Per simil compagnia esser beato,
     E con il corno in gloria anche esaltato.

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XXXV.


In pulpito salito una mattina
     Mostrò porporeggiante il bel Crocione,
     Sopra ’l negro mantel di seta fina,
     Che pareva una fetta di polmone;
     Così davanti al Popolo s’inchina,
     E poi gli fa sentir questo sermone:
     Carissimi Signori, e mie Signore,
     Eccovi quì comparso un Peccatore.

XXXVI.


S’io avessi fatto mai per il passato
     Alla nascita mia cosa indecente,
     Chiedo di questo, e ogn’altro mio peccato
     Perdono a Dio, ed a voi buona gente;
     Chi si fosse di me scandalizzato
     Mi veda quì contrito, e penitente:
     (Uh benedetto sia) dissero a un tratto
     Benedetto la mamma, che t’ha fatto.

XXXVII.


Dicesi che la Moglie anco esortasse
     A voler fare in pulpito l’istesso,
     Ma che in risposta egli ne riportasse
     Dalla Consorte un nò chiaro, ed espresso;
     O come accorta, o che non s’arrischiasse,
     Dimostrossi più sodo il fragil sesso;
     E per non farsi all’altre uno zimbello,
     La donna più dell’uomo ebbe cervello.

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XXXVIII.


Oh se la donna in pulpito montata
     Avesse quivi il petto suo scoperto,
     L’interno io voglio dire, e palesata
     La sua coscienza, e quivi avesse aperto
     Dei segreti lo scrigno, oh gran frittata,
     Che si faceva! E come io penso al certo,
     Se in pulpito ogni Dama allor saliva
     Una selva di corna si scopriva.

XXXIX.


Perdonatemi pure, o Donne belle,
     Se di voi dico mal, perchè non posso
     Tener celato sotto le gonnelle
     Peccato, che tra voi è così grosso;
     A voi fanno la spia fino le stelle,
     Ed il letto talor da voi commosso
     Palesa spesse volte in tempi quieti
     Della fornicazion tutti i segreti.

XL.


Dice il proverbio, e non ha detto in vano,
     Quando salta una capra, ancor saltare
     Vogliono l’altre pur di mano in mano,
     Conforme appunto in questo caso appare;
     Mentre si vide poi più d’un Baggiano
     Per dir sue colpe in pulpito montare,
     Ed a certi di mente assai più sciocca
     I peccati più grossi uscir di bocca.

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XLI.


Dopo che il padre predicato avea,
     Sintanto che durò la sua Missione,
     Or l’uno, or l’altro in pulpito facea
     In pubblico sentir sua Confessione:
     Oggi confesso a tutti, un tal dicea,
     Che ho fatto sempre mai il Bacchettone
     Sol per esser tenuto in buon concetto,
     E il prossimo gabbar per mio diletto.

XLII.


Un Prete di bel tempo un dì s’accusa,
     Padre, dicendo, se ascoltar vi piaccia,
     Sappiate ch’io, come nel Mondo s’usa,
     Atteso ho sempre al giuoco ed alla caccia;
     E spesse volte al suon di cornamusa
     Molto mi piacque andar di donna in traccia;
     E come fanno al tempo d’oggi i Preti,
     Andar per gli altrui boschi, e castagneti.

XLIII.


Tengo poi per bisogno naturale
     Un par di Serve, oppur bestie da frutto,
     Che secondo il Decreto Sinodale
     In tutte due han cinquant’anni in tutto;
     E perchè sempre mai odio mortale
     Porto al Demonio, perch’è troppo brutto,
     Com’Angeli le scelsi, e belle, e buone,
     Da custodirmi in ogni tentazione.

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XLIV.


Non si trova, Signore, un furbo eguale
     A me, diceva un altro, o mal Cristiano;
     Io molto tempo ho già venduto il sale,
     Mestiere proprio da Giudeo marrano;
     Le libbre ed once ho dispensate male
     Gabbando il Cittadino, ed il villano;
     Finalmente quest’arte abbandonai,
     E senza sale in zucca mi trovai.

XLV.


So bene, che a ragion voi mi terrete
     Di cervello balzano, e stravagante,
     Perchè mostrai da Teatino Prete
     Nell’incostanza solo esser costante:
     Oh che pazzo, oh che pazzo! ancor direte,
     Nel vedermi voltar il passo errante;
     E coi Monaci bianchi in altro calle
     Camminar colla trippa sulle spalle.

XLVI.


Altri diceva poi, per i misfatti
     Già commessi da me, l’ira celeste
     Armò di denti i lupi, e d’unghie i gatti,
     Gli orsi, le tigri, e ci mandò la peste;
     Son dalla fame gl’Uomini disfatti,
     Cancheri, guerre, fulmini, e tempeste;
     Perchè in lisciar la coda a Satanasso
     Mandai più donne ad abitare in chiasso.

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XLVII.


Signori, a tutti voi ora m’inchino;
     Il Prete Bricchi in pulpito diceva;
     So ben che un tempo fa Prete Bricchino
     Da Cherico chiamarmi ognun poteva;
     Per qual voi mi stimate io l’indovino;
     E che mutar il nome si doveva,
     Mentre all’età, costumi, e discrizione
     Mi potete chiamar Prete Briccone.

XLVIII.


Cherico fui di questa Cattedrale,
     Dove molte zizzanie ho seminato
     Tra’ canonici, e feci molto male;
     Ora in gastigo d’ogni mio peccato
     Non potrebbe al mio merto esser eguale
     L’inferno mille volte replicato:
     Piano, fratel, che se lì a tanto fuoco
     Tu ti scaldassi, non sarebbe poco.

XLIX.


Per far suoi falli in pubblico sapere,
     Un mercante di pepe e di cannella,
     Confessando sua colpa, disse avere
     Deflorata a suoi giorni una zittella:
     Dicon però, che non toccasse a bere
     A lui vin puro di tal botticella;
     Perchè prima forata, il vin se n’era
     Uscito già dal buco della cera.

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L.


Vi fu dipoi un certo umor bestiale,
     Che Preti, e Frati messe in Confusione;
     Dicendo, o Padre santo, io sono il tale,
     Che voglio far solenne confessione:
     Il mio cognome è di quell’animale,
     Che con suoi trilli alletta le persone,
     Col far trì trì nella stagion estiva
     Dentro de’ buchi, e mai al quattro arriva.

LI.


Udite tutti, o miei fratelli amati,
     Son troppo galantuomo ed alla mano,
     E vi vorrebbe a scriver miei peccati
     Un libro grosso più dell’Alcorano
     Per dirla schietta fino ai Preti, e Frati
     Ho fatto ai giorni miei sempre il Ruffiano;
     Con tutto ciò, come di buona razza,
     Posso mostrar fronte scoperta in Piazza.

LII.


Un figlio poi del quondam Ser Marchetto,
     Che nel butroque iure era Dottore,
     Entrar pur volle al popolo in concetto
     D’essere un scellerato peccatore;
     Onde battendo colle mani il petto,
     Misericordia, disse, o mio Signore:
     Fratelli, io sono alquanto carnalaccio,
     E confesso che feci un peccataccio.

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LIII.


Giunto ch’io fui al quindicesimo anno,
     Con una mia sorella un dì scherzando,
     Fece il demonio con astuto inganno
     Che alla verginità si desse bando:
     Allora in ver non me ne presi affanno
     Perchè tra i baci andai considerando,
     Che l’armi han luogo fra nemiche genti,
     E usar devesi il C... fra i parenti.

LIV.


Però questo mio caso or vi consiglia,
     O Padri, o Madri, ad aver molta cura
     Di separare il figlio dalla figlia,
     Acciò resti la carne più sicura,
     Perchè alla cruda volentier si appiglia,
     Che troppo ingorda, e ghiotta è la natura;
   „ E se vi accada che il moscon vi cachi,
   „ Conviene alfin che si marcisca, o bachi.

LV.


Venne ad un Perugin ancora il baco
     Di far la sua solenne Confessione,
     E cominciò: Da che nel nostro laco
     Le lasche Iddio creò tra le persone,
     Del più furbo di tutti oggi m’incaco,
     E mi tengo tra gli altri il più briccone:
     Ma affè del mondo, se ho pur mangiato
     Il pesce, ho poi le lische anco cacato.

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LVI.


Ma vi sarebbe in un troppo da fare,
     Per farvi ogni minuzia quì palese;
     Basta che udite le più grosse, e rare
     Cose successe in così buon Paese:
     Licenza or chiedo a voi di riposare;
   „ Mentre con gote di rossore accese
   „ Omai mi sgrida, e fa tacer la Musa
     Nelle vergogne altrui tutta confusa.


Fine del Canto Quarto.