Colombi e sparvieri/Parte II/III
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III.
Non essendo riuscito ad avere il «sonette» Pretu si contentava di certi minuscoli pifferi fatti da lui con grossi steli d’avena. Seduto sul ciglione sopra il quale s’apriva la porticina di Jorgj, egli suonava il motivo del ballo sardo o dei «Gosos»1 di San Francesco e il ronzìo della sua «leonedda»2 si confondeva con quello dei mosconi.
Era il meriggio. Grandi nuvole bianche passavano davanti al sole e tutto il panorama di valli verdi e grigie chiuso dalla linea violacea dell’altipiano pareva sonnecchiasse; ma di tanto in tanto il sole tornava a risplendere; l’erba allora e le macchie scintillavano e tutto il paesaggio si scuoteva al vento come svegliandosi all’improvviso.
Anche Jorgj sonnecchiava, ma ogni tanto si scuoteva e il ronzìo dei pifferi gli faceva tornare in mente certi versetti del suo libriccino.
«Le vane speranze e le menzogne sono per lo stolto, e i sogni levano in alto gli imprudenti.
«Come chi abbraccia l’ombra e corre dietro al vento così chi bada a false visioni....»
Eppure egli si ostinava a sperare, e la debolezza in cui ogni giorno di più cadeva come in un gorgo molle e tiepido gli dava spesso visioni morbose. Talvolta, arrivava a compiacersi della sua immobilità.
— Che fatica, doversi alzare e camminare! Perchè poi? La vita è nel moto dell’Universo, e le pietre e le piante vivono anche senza muoversi.
La sua stessa vertigine e il palpito del suo povero sangue gli sembravano causati dal roteare della terra; gli pareva che il moto perpetuo di tutte le cose lo trascinasse attraverso lo spazio e che le ore e i giorni corressero dietro di lui.
— La giornata, è passata egualmente per me e per i felici della terra, — pensava al cader della sera, — almeno io non ho fatto male a nessuno....
Ma quando alla notte si svegliava, solo, al buio, era preso dall’orrore dei sepolti vivi: una crisi di disperazione lo faceva tremare tutto, un freddo sudore gli inumidiva i capelli; qualche volta non si riaddormentava che all’alba, e allora il suo unico conforto era la speranza di morire presto.
La voce irritata del servetto lo scosse dal suo dormiveglia.
— Perdonate3 vi ho detto! Adesso che avete trovato la strada volete consumarla a forza di andare e venire....
Ma la voce cadenzata del mendicante risuonava nel silenzio del ciglione; pareva che le sue parole lente, staccate, cadessero sull’erba, mentre la vocina sonora di Pretu saliva e si sperdeva nell’aria serena.
— «In nomen de su Babbu, de su Izu, de s’Ispiridu Santu, faghide sa caridade a cu sta poberu ezzu istorpiadu....»
— Se non ve ne andate vi faccio rotolar giù come una bacca di ginepro....
— Sant’Anna e Sant’Elia ti aiutino: dov’è il tuo padrone?
— Dove volete che sia? A cavallo nella sua tanca. Andatevene, fatevi ficcare in uno spiedo. Ma l’uomo fissava coi suoi occhi rotondi, chiari come due nocciuole non ben mature, la porticina di Jorgj avanzandosi curvo sotto la sua «tasca» piena.
— Dionisi, entra pure, — disse a voce alta il malato; e il mendicante entrò, seguito da Pretu che si alzava sulla punta dei piedi per guardare entro la bisaccia. — Dàgli qualche cosa, Pretu.
— Che cosa gli dò? Quello che ci avanza? Non vedete che ha la bisaccia colma di pane, di ricotta, di formaggio acido? Datemelo, zio Dionì, — aggiunse facendo smorfie di disgusto. — Faremo le focacce di Pasqua. Siete più ricco di noi e venite a seccare....
— Finiscila, Pretu! — gridò Jorgj irritato, senza smettere un momento di fissare il mendicante che si guardava attorno e sospirava.
— Tutti i giorni egli è qui, — brontolò Pretu sollevando il coperchio della cassa e prendendo la metà d’una focaccia rotonda e gialla come la luna.
E tutti i giorni il malato provava la stessa impressione: che Dionisi Oro, o per conto proprio o incaricatone da qualcuno (da chi? da Columba o dal vecchio?), entrasse nella stamberga per spiare; e a sua volta provava un senso di curiosità e di ripugnanza ma aspettava che il mendicante gli dicesse qualche cosa di straordinario.
L’uomo però parlava poco e incoerentemente.
— Ebbene, Dionisi, che c’è di nuovo nel mondo? Sei andato ad ascoltar le prediche?
— Che, che, cuoricino mio!... Gli eremiti, in quel tempo, quando gli uomini non avevano malizia, mangiavano i cani....
— E adesso che han malizia mangiano i vitelli, e fan bene! — gridò Pretu, dandogli in malo modo la focaccia.
— Dico, sei stato a confessarti? Siamo di quaresima! — gridò Jorgj.
— Siete stato a confessarvi? — gli gridò Pretu all’orecchio.
L’uomo trasalì e s’irritò.
— Eh, non son sordo a quel punto! Sì, sono stato in chiesa. Bei sermoni, sì! Pare San Francesco. (Si segnò baciando le sue medaglie).
— Chi?
— Chi? — urlò Pretu.
— Ma vattene, lasciami in pace le orecchie. Dico, prete Defraja, che una palla gli trapassi la saccoccia.
— È vero, — ammise Pretu. — Egli predica che sembra un piccolo santo: la voce non è grossa, ma fa pianger la gente. L’ha detto mia madre.
— Allora è tempo di pensare ai peccati e convertirsi. Gridaglielo, Pretu.
— Allora è tempo di confessare i vostri peccati, — tradusse il servetto all’orecchio di Dionisi Oro.
— Tutti siamo in peccato mortale, — rispose il mendicante; poi non parlò più, per quante insolenze il ragazzo gli gridasse, ma continuò a guardarsi attorno, e finalmente s’avviò per andarsene volgendosi ogni tanto a fissare il soffitto corroso.
— Se non volete nulla vado anch’io. — disse Pretu, — giusto mia madre vuole andare in chiesa ed io guarderò il bambino piccolo.
— Va pure; ricordati di comprare la candela.
— Ziu Jò, — annunziò con voce dispettosa il ragazzo, — i soldi son finiti, lo sapete.... E voi date il pane a quello sfaccendato....
Jorgj sospirò infastidito, guardando fuor della porticina. Il tempo era bello e il riflesso delle chine coperte di erba brillante arrivava fino alle pareti della stamberga.
— Saran le due, Pretu. Alle quattro verrà il dottore e gli ricorderò che bisogna far l’atto di vendita della casa.
Pretu sollevò e lasciò ricadere rumorosamente il coperchio della cassa: nello stesso tempo qualcuno battè forte alla porta del cortile e il malato trasalì, non seppe per quale dei due rumori.
— Chi sarà? — domandò, fissando gli occhi spalancati negli occhi spalancati di Pretu. — Il dottore no, certo.
E Pretu non avrebbe aperto se una voce rauca non avesse gridato:
— Posta!
Una corrente d’aria fresca attraversò la stamberga, e il postino, o meglio uno dei vetturali che facevano il servizio della diligenza fra Nuoro e Oronou, entrò con un pacco e uno scartafaccio in mano. Era un uomo alto e scarno, vestito con una vecchia divisa da cantoniere i cui filetti rossi si erano come arrugginiti. Anche la pelle del suo viso, aderente alle ossa, era d’un rosso di ruggine, essiccata dal vento e dal sole; ma sotto le sopracciglia rossiccie sporgenti come cespugli secchi sull’orlo della roccia gli occhi d’un azzurro metallico sorridevano; ed egli portò nella stamberga come un soffio dei grandi paesaggi che attraversava ogni giorno. Pacco! Da Nuoro! Firma! gridò con la sua voce rauca. — E come andiamo, Jorgj?
Lasciò cadere il pacco — una cassetta con la cordicella e i sigilli rossi già staccati dalle assicelle — e il tavolinetto di Jorgj traballò sotto il peso insolito.
Il malato taceva guardando l’uomo e la cassetta con occhi quasi selvaggi; solo il ricordo che ogni anno per Pasqua la moglie di zio Conzu gli mandava da Nuoro certe focacce di pasta e cacio fresco lo tratteneva dal respingere il pacco.
— Come stai, dunque? Pensa, pensa ad alzarti, poltrone!
— Potessi, — mormorò Jorgj sporgendo il braccio per cercare la penna.
— Se vuoi puoi, con l’aiuto di Dio! Ebbene, anch’io, questo gennaio scorso, dopo Sant’Antonio, ho avuto una gamba rattrappita. Tutti dicevano: è la paralisi, perchè sta sempre seduto. Io un giorno, là alla cantoniera di San Giovanni dove sta mio fratello, dissi: o la gamba guarisce o me la faccio tagliare: tanto non ne ho di bisogno: le redini non lo prendo coi piedi.
Ebbene, sai cosa ti dico? Questa qui (si battè la mano sulla gamba in questione) ha avuto paura; e s’è mossa, questa poltronaccia. Ancora qualche volta fa la poltrona e si fa trascinare, ma io le dico: marcia, con l’aiuto di Dio. Va bene, firma lì: hai le mani bianche, poltrone! Alzati, alzati, che fai bene!
— Avete più veduto zio Conzu? domandò Jorgj rimettendo la penna.
— L’ho visto domenica: anzi bisogna che mi ricordi di passare da sua moglie perchè deve darmi qualcosa per te.
— Allora non è suo questo pacco!
— Può darsi che sia suo: come ti dico è da domenica che mi aspetta: forse avrà mandato alla posta. Addio: guarisci presto e ripartiamo, su!
E quasi intuendo l’idea che passava nella mente del malato, l’uomo se ne andò bruscamente, tirandosi addietro la porta che Pretu si affrettò a chiudere.
La stamberga rimase di nuovo illuminata dalla luce azzurra della porticina sulla cui soglia il sole si avanzava dolce e famigliare come un buon amico che tutti i giorni rinnova la sua visita.
— Pretu, taglia la cordicella.
Finchè c’era stato il postino il ragazzo non aveva aperto bocca per paura che Jorgj s’irritasse e respingesse il pacco; ma il cuore gli batteva forte. Da quanto tempo nella stamberga non succedevano avvenimenti simili!
Trasse il suo coltellino a serramanico, il suo coltellino nero e argenteo, suo orgoglio e suo tesoro (glielo aveva portato Jorgj dalla città, ai bei tempi), e cominciò a segare. La cordicella grossetta, forte, vibrava tutta come protestando.
— Zio Jò, vi dico la verità, mi batte il cuore. Che cosa ci sarà? La storia è di levare i chiodi, adesso: ma lasciato fare a me; son forte.
Mise la cassetta sullo sgabello e introdusse la punta del coltellino fra le assicelle; ma la lama si piegava e minacciava di rompersi inutilmente.
— No, no, non così, Pretu! prendi il coltello....
— Come pesa, Dio mio! Che ci sarà, dite? Se fosse piena di denari? Di soldi e di lire? Quanto sarebbe? Ah, col coltello va bene. Forza, Pretu, forza, bello! Ecco levato un chiodo: ahi, il dito! Eccone un altro. Maledetti i Giudei: essi hanno inchiodato così Gesù. Ah, sì, il cuore mi batte come quello di un porchetto entro un sacco! Ah! Ah!
Egli ansava, sudava, rideva: anche Jorgj si sentiva battere il cuore. Finalmente il coperchio di assicelle scricchiolò, parve sollevarsi da sè, rimase sospeso, attaccato ad un lato e da un solo chiodo. Con meraviglia il malato vide uno strato di violette quasi nere e credette che il pacco fosse pieno di fiori.
— Dormo e sogno, pensò, e certo di svegliarsi da un momento all’altro, non provò più nè curiosità nè stupore.
Chi poteva mandargli quei fiori? Chi poteva ricordarsi di lui in quel modo, in quel tempo, come di un morto caro sulla cui tomba si depongono le violette di marzo?
Ma il servetto aveva sollevato la carta rosea su cui stavano sparse le viole, e traeva dalla cassetta altri oggetti, toccandoli e guardandoli con diffidenza, quasi dubitasse anche lui della realtà.
Dapprima furono due lenzuola, leggere e candide come la neve; poi tre asciugamani damascati, grigiastri e lucidi come le nuvolette che passavano sullo sfondo della porticina, poi alcune salviette ricamate che ricordarono a Pretu la tovaglia dell’altare maggiore di Santu Jorgj: poi sei fazzoletti orlati a giorno e legati con un nastrino azzurro; poi alcune foderette bianchissime con su ricamato un ramicello di biancospino. In fondo c’era una scatola di latta dipinta: due cammelli gialli carichi di roba guidati da due beduini bianchi e neri correvano attraverso un deserto rosso: il cielo era violetto e all’orizzonte apparivano le palme verdi di un’oasi.
Il servetto prese la scatola con le manine tremanti ed esitò prima di aprirla. I suoi occhi si incontrarono con quelli del padrone. Allora Jorgj si mise a ridere: un riso nervoso, di reazione, quasi di sdegno contro sè stesso e il suo stupore. La scatola era piena di biscottini, piccoli, secchi e sottili come ostie. Pretu provò un senso di delusione.
— Umh! saran buoni? Poteva mandare di quelli freschi!
— Questi son fini, son di lusso, — disse Jorgj con voce grave. Mangiane uno.
Mangiatelo voi.... Son biscotti da malato!
Ma nella cassetta c’era ancora roba: tre o quattro involtini legati con volgare spago grigio. E trae e svolgi e guarda, servo e padrone tornarono completamente alla realtà di tutti i giorni. Un involtino conteneva del cacao, un altro zucchero, un altro tre scatole di sardine, l’ultimo infine un salame.
Ma a misura che Pretu si rallegrava e calcolava ad alta voce quanto tempo potevan durare quelle provviste, Jorgj ricadeva, nella sua solita irritazione.
— È un’elemosina, ti dico! Chi, chi l’ha mandata?
— Se non lo sapete voi chi lo sa?
— Io non so nulla. Io respingo tutto....
— A chi? Se lo mangia il postino; sentite, zio Jò, è meglio che ve lo mangiate voi. Sarà quella dama di Roma, quella.... sapete, di cui avete parlato l’altro giorno!
Il ragazzo parlava tra il serio e il faceto, mentre gli occhi di Jorjgj fissavano di nuovo le violette e la commozione del primo momento lo riprendeva. Chi gli mandava il dono? Una donna senza dubbio. Ricordi vaporosi come le nuvolette che continuavano a correre sullo sfondo della porta gli passarono in mente; gli pareva di trovarsi ancora a Nuoro, in una sera fantastica, fra le luci colorate e i rumori della festa. Torme di donne scendevano con passo ritmico, quasi seguendo il motivo della marcia suonata dalla banda. Una di quelle (forse la sconosciuta dal velo scintillante?) aveva saputo la sua sventura e si era ricordata di lui....
Il suo cuore appassito ma non ancora morto, come quelle violette misteriose, batteva a sbalzi: così il cuore d’un anestesizzato piano piano si sveglia e torna alla vita.
Ma di nuovo quella gioia confusa si mutò, si fece angoscia: Jorgj provò quasi paura a guardare i doni; soprattutto i fiorellini morenti gli destarono come un senso di raccapriccio.
— Porta via tutto, chiudi tutto nella cassa, Pretu; non voglio veder nulla.... Fa’ presto, se no ti faccio buttar via tutto.... Vattene.
Volse il viso al soffitto e chiuse gli occhi: Pretu abituato a quello stranezze si affrettò a rimetter tutto nel pacco; rimise la carta rosa e sulla carta rosa le violette; ma non riabbassò il coperchio e lasciò la cassetta sopra lo sgabello; poi se ne andò perchè aveva fretta di raccontare a qualcuno l’avvenimento.
Le ore passavano; il sole di aprile, dal calore eguale e dolce, sempre eguale e dolce come quello d’un cuore fedele, declinò sul cielo dove le nuvolette svanivano una dopo l’altra come macchie da un cristallo lavato. Il rettangolo di sole s’era avanzato fino ai piedi del letto, quasi cercando di salirvi sopra e di lambire il malato: la cassetta con la carta rosa e le viole metteva una nota insolita nello squallore della stamberga. Anche Jorgj sentiva cader la sua collera: quando il disco cremisi del sole sparve lasciando sull’orizzonte un gran velo violaceo gli parve che nella stamberga si spandesse il colore delle violette appassite e sul suo cuore un velo di pace.
No, chi gli aveva mandato il dono non poteva essere uno dei soliti volgari benefattori. Di fantasia in fantasia egli rievocava tutte le persone che aveva conosciuto a Nuoro e ricordava i piccoli orti chiusi da muricce a secco, coperti dai grandi fiori duri e pallidi dei cavoli e dalle capigliature verdi dello zafferano. Qua e là appariva l’occhio azzurro d’un giacinto e brillava l’oro bruno della violaciocca: ma per cercare le violette la persona che le aveva colte doveva essersi curvata lungo un sentiero dorato dal sole e annerito dall’ombra degli elci, nella pace del monte Orthobene. Chi era? E se era un uomo? E se era una povera serva? O una bambina scalza che si trascinava addietro un fascio di legna?
Chiunque fosse, Jorgj si sentiva legato al benefattore sconosciuto. Legato, legato per tutto il resto dei suoi poveri giorni. Qualcuno gli aveva gettato il laccio da lontano senza farsi vedere, come il piccolo mandriano che nei crepuscoli di primavera nascosto fra i cespugli getta il laccio al puledro indomito.
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Il ritorno del servetto lo scosse.
— Zio Jò, dormite? Adesso accendo il lume. Che occhi avete; sembra che abbiate la febbre. La levo la cassetta?
— No, lasciala lì.
— E se viene il dottore, dove si siede? E che dirà? Gli faremo veder tutto? Ah. — aggiunse curvandosi sulla cassetta, — che odore di roba buona! Però adesso è quaresima e bisogna digiunare. Il prete oggi ha fatto una predica così bella, ha detto mia madre, che tutti stavano a bocca aperta. Persino tutte queste diavolo di donne che stanno qui intono ci vanno. Solo Columba non ci va. io non so perchè. Domani arriva lo sposo per le pubblicazioni, e le porterà i doni; dicevano là, nella strada, ch’egli si farà accompagnare da due carabinieri, tanto valore porta....
Gli occhi di Jorgj si riempirono di lagrime.
— Ebbene, che tutto sia finito, — pensò volgendo il viso al soffitto, — che ella si sposi e che se ne vada. Dopo, forse, mi ridoneranno la fama.... Ma che importa anche questo? C’è ancora al mondo qualcuno che mi stima, se mi manda dei fiori....
Ed era questo pensiero, non la notizia dell’arrivo dello sposo, che lo faceva piangere: il suo pianto era di amore, non di dolore, e rinfrescava le sue palpebre come sponde riarse.
Il dottore tardava, quella sera. Finalmente nel silenzio del cortile s’udì un suono di passi lenti rumorosi e un canto che voleva esser triste e solenne ed era grottesco come il pianto d’un uomo forte.
Dai campi, dai prati....
Il servetto aprì e l’omone precipitò dentro col suo bastone, i suoi piedi pesanti, il suo berretto e il suo collo di pelo: forse per effetto di questo, poichè la notte era tiepida, egli era più rosso del solito; come un brillante velo di sudore gli copriva il volto e i suoi occhi splendevano.
Mentre Pretu si teneva fermo davanti allo sgabello pronto a levar la cassetta, il dottore preso il polso di Jorgj.
— E va benone! Come passiamo il tempo?
— Bene. Leva quella scatola, Pretu.
La voce del malato era dolce, debole. Il ragazzo sollevò la cassetta fra le braccia e stette fermo ostinatamente davanti al dottore; ma questi sedette, allungò la gamba, battè per terra il bastone senza accorgersi della novità e dell’insolita gioia che traspariva dal viso di Jorgj. Anche lui era allegro, il dottore, rideva delle cose che raccontava — un’avventura di caccia, una specie di conflitto con le guardie forestali che lo avevano sopreso nel bosco a tirare ad una pernice.
— Ma è il tempo della cova, dottore; perchè lei va a caccia adesso?
— Ah, ah, è il tempo della cova? Sì, è primavera, hai ragione; ma che il cacciatore in primavera non è un uomo? E uomo come tutti gli altri, e va in campagna; e se non caccia che cosa deve fare? mettersi sotto un albero a sognare una donna? Il cacciatore non è un poeta; egli ha bisogno di uscire, in queste belle giornate, di lasciare quella galera aperta che è il paese e respirare aria che non sappia di immondezza. E quando è là, fuori, dimentica chi è e perchè è uscito dal paese; fra lui e il cielo non c’è che la pernice: l’unico scopo della sua vita, in quel momento, è di far cadere la pernice. Se questo non avviene egli soffre, egli non si ritiene più un uomo vivo, un essere che possa spiegarsi il perchè della sua stupida esistenza....
— Egli è un selvaggio.... Tolstoi....
— Andate all’inferno, tu e il tuo Tolstoi, io amo quello che mi pare e piace; la caccia, il tabacco, il vino se occorre.... Tu e Tolstoi non mi seccate.... Io non faccio male a nessuno: gli animali non soffrono; io son qui grande e grosso e vivrò a lungo, mentre tu col tuo amore per il prossimo ti sei legate le gambe, hai fatto come le monache che si chiudono da sè in prigione.
Io voglio esser libero, libero (urlava e tutta la stamberga tremava per i suoi colpi di bastone) e infischiarmi di tutti, barbari o degenerati che siate. Io vado dove mi pare e piace, e il cinghiaie e il falco sono i soli nemici che io mi degno di perseguitare. Di voi, uomini, m’infischio; e se domani voglio fare una pazzia e questa non vi reca male che v’importa a voi? Io faccio quello che mi pare e piace!...
Era inutile discutere; il dottore cambiava spesso d’opinione e urlava quando era contento. Quella sera doveva essere molto felice: perchè? Un sorriso malizioso increspò le labbra di Jorgj.
— E lo spirito è ancora riapparso a Margherita?
L’omone si calmò, non solo, ma ricominciò a ridere e a cantare: «Margherita, non sei più tu.... »
— Adesso vi racconterò che cosa ha fatto quella scema....
Pretu si avvicinò silenzioso, fermandosi alle spalle del dottore; l’ombra delle due teste, una enorme e saltellante come un ragno mostruoso, l’altra, profilata e immobile come un disegno in nero, coprirono tutta la parete in fondo alla camera.
— Quella scema dunque è ricorsa alla vostra medichessa, che al solito le ha fatto bere i suoi intrugli. Pare che questi le abbiano sconvolto l’anima. Tutti questi giorni la vedevo melanconica e più scema che mai. Oggi, al ritorno dalla caccia, la trovo buttata per terra, gialla, istupidita: ebbene, ottimo amico mio, sai cosa mi dice? Che ha un serpe nello stomaco! Crepa, le rispondo. E lei piange; mi abbraccia le ginocchia, mi prega di darle il contravveleno! Le ho dato.... due oncie di olio di ricino, e l’ho lasciata che piangeva ancora. Eppure non è cattiva, ottimo Jorgeddu (i suoi occhi fissarono quelli dello studente con uno sguardo malizioso e dolce). Non è cattiva; tu capisci.... o almeno sembra disinteressata....
— Lei è un bell’uomo, dottore!
Il bell’uomo rise di nuovo; pareva si beffasse d’un suo intimo pensiero, ma anche la vanità, la soddisfazione, la gioia dell’uomo che si crede amato vibravano nel suo riso sonoro.
— Tu la credi capace di darsi per amore? — domandò in francese rivolgendosi a Jorgj come ad un uomo di mondo che potesse meglio di lui conoscer la psicologia d’un cuore femminile. — Io le ho detto brutalmente che non la sposerò. Non ho sposato una borghese; figurati se mi metto il giogo per una paesana. Ella dice che è più contenta così; ha l’anima della schiava.... superstiziosa, barbara, complicata più che un’anima modernissima. La storiella dello spirito se l’è inventata lei, caro! Io non la chiamai, l’altro giorno; entrò lei, nel mio studio, e disse che voleva andarsene perchè l’avevo sgridata tre volte in una mattinata. La cacciai via, le dissi che se se ne andava mi faceva un piacere santissimo. Lo spavento è stato questo, ottimo amico mio! che io la cacciassi via davvero. Ritornò mogia mogia, e poco fa.... accadde quel che doveva accadere. Ella mi baciava le mani; le sue labbra ardevano. Dice che mi ama fin da quando aveva dodici anni: pare che fosse malata, in quel tempo, e che io la curassi con premura.... Basta, basta. La terrò con me, sono contentone; ma sposarla no, non lo sogni neppure!... E non sperare neanche nel mio testamento, le dissi. No, cara, io non credo all’amore delle donne: e neanche a quello degli uomini, a nessun amore. Non esiste che l’istinto, l’interesse, l’abitudine....
— Allora lei un giorno o l’altro, quando sarà stanco, caccerà via la sua serva...
— Questo no, mai!
— E se la terrà vuol dire che le vuol bene!... Se la terrà anche quando non la desidera più vuol dire che l’amore esiste.... Sì, sì, esiste! Gli diamo diversi nomi: dovere, pietà, affetto, compassione, anche abitudine. In fondo è tutto amore.... Esistei Esiste!
Egli pensava alle violette, al benefattore sconosciuto, e siccome il dottore sorrideva guardandolo ironico, finì col rivelargli la causa del suo insolito entusiasmo.
— Ascolti, dottore, qualcuno mi ha mandato dei fiori.... A me, capisce, proprio a me.... Vuol dire che ho destato pietà a qualcuno, ma vera pietà, vero amore.... Sono così contento che mi sembra di dover da un momento all’altro guarire.... Pretu, fa vedere al dottore....
Pronto, il ragazzo prese di peso la cassetta e la depose davanti al letto, ma la scostò subito perchè il dottore accennava a frugarvi dentro col bastone.
— Lei ride, eppure è così, — riprese Jorgj, mentre Pretu rimesso il pacco sulla cassa levava di nuovo la carta rosa e faceva veder da lontano gli oggetti al dottore che scuoteva la testa di sotto in su e ridacchiava, — io sono contento. Mi pare che un ponte sia stato gettato fra l’abisso ove sto io e il mondo.... Se potessi alzarmi.... dottore!
L’uomo s’alzò, battè; forte il bastone al suolo e fissò gli occhi lucenti in quelli del malato, quasi volesse suggestionarlo.
— Se tu vuoi puoi! Alzati!
Ma Jorgj sorrise con tristezza.
— Lei non è Cristo! E che fosse un semplice mortale il dottore lo dimostrò avvicinandosi a Pretu, togliendogli di mano gli oggetti e a sua volta esaminandoli con curiosità e commentandone la provenienza.