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sentiva battere il cuore. Finalmente il coperchio di assicelle scricchiolò, parve sollevarsi da sè, rimase sospeso, attaccato ad un lato e da un solo chiodo. Con meraviglia il malato vide uno strato di violette quasi nere e credette che il pacco fosse pieno di fiori.

— Dormo e sogno, pensò, e certo di svegliarsi da un momento all’altro, non provò più nè curiosità nè stupore.

Chi poteva mandargli quei fiori? Chi poteva ricordarsi di lui in quel modo, in quel tempo, come di un morto caro sulla cui tomba si depongono le violette di marzo?

Ma il servetto aveva sollevato la carta rosea su cui stavano sparse le viole, e traeva dalla cassetta altri oggetti, toccandoli e guardandoli con diffidenza, quasi dubitasse anche lui della realtà.

Dapprima furono due lenzuola, leggere e candide come la neve; poi tre asciugamani damascati, grigiastri e lucidi come le nuvolette che passavano sullo sfondo della porticina, poi alcune salviette ricamate che ricordarono a Pretu la tovaglia dell’altare maggiore di Santu Jorgj: poi sei fazzoletti orlati a giorno e legati con un nastrino azzurro; poi alcune foderette bianchissime con su ricamato un ramicello di biancospino. In fondo c’era una scatola di latta dipinta: due cammelli gialli carichi di roba guidati da due beduini bianchi e neri correvano attraverso un deserto rosso: il cielo era violetto e all’orizzonte apparivano le palme verdi di un’oasi.

Il servetto prese la scatola con le manine tremanti ed esitò prima di aprirla. I suoi occhi si incontrarono con quelli del padrone. Allora Jorgj si mise a ridere: un riso nervoso, di reazione, quasi di sdegno contro sè stesso e il suo stupore.