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tre la vocina sonora di Pretu saliva e si sperdeva nell’aria serena.
— «In nomen de su Babbu, de su Izu, de s’Ispiridu Santu, faghide sa caridade a cu sta poberu ezzu istorpiadu....»
— Se non ve ne andate vi faccio rotolar giù come una bacca di ginepro....
— Sant’Anna e Sant’Elia ti aiutino: dov’è il tuo padrone?
— Dove volete che sia? A cavallo nella sua tanca. Andatevene, fatevi ficcare in uno spiedo. Ma l’uomo fissava coi suoi occhi rotondi, chiari come due nocciuole non ben mature, la porticina di Jorgj avanzandosi curvo sotto la sua «tasca» piena.
— Dionisi, entra pure, — disse a voce alta il malato; e il mendicante entrò, seguito da Pretu che si alzava sulla punta dei piedi per guardare entro la bisaccia. — Dàgli qualche cosa, Pretu.
— Che cosa gli dò? Quello che ci avanza? Non vedete che ha la bisaccia colma di pane, di ricotta, di formaggio acido? Datemelo, zio Dionì, — aggiunse facendo smorfie di disgusto. — Faremo le focacce di Pasqua. Siete più ricco di noi e venite a seccare....
— Finiscila, Pretu! — gridò Jorgj irritato, senza smettere un momento di fissare il mendicante che si guardava attorno e sospirava.
— Tutti i giorni egli è qui, — brontolò Pretu sollevando il coperchio della cassa e prendendo la metà d’una focaccia rotonda e gialla come la luna.
E tutti i giorni il malato provava la stessa impressione: che Dionisi Oro, o per conto proprio o incaricatone da qualcuno (da chi? da Columba o dal vecchio?), entrasse nella stamberga per spiare; e a sua volta provava un senso di curiosità e di ripugnanza ma aspettava che il