Chi l'ha detto?/Parte prima/59

Parte prima - § 59. Probità, onoratezza, fedeltà alle promesse

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§ 59.

Probità, onoratezza, fedeltà alle promesse




1309.   Cada uno es hijo de sus obras.1

è proverbio, non soltanto spagnuolo, ma di tutte le lingue. Però gli spagnuoli vogliono trovarne le origini in ciò che dice della propria dama il Cavaliere dalla Trista figura nel Don Quijote (parte II, c. 32) : «Dulcinea es hija de sus obras»; ma fu proprio Cervantes il primo a usare questa locuzione? Ma foss’egli, od altri, sta in fatto che il più bel titolo di nobiltà per un uomo è l’onore; e chi può vantarlo intatto, può trovare conforto anche nelle maggiori avversità, ripetendo col cavalleresco re Francesco I:

1310.   Tout est perdu fors l’honneur.2

A proposito di questo celebre motto, scriveva Chateaubriand negli Études historiques (to. I. pag. 128): «On ne retrouve plus [p. 444 modifica] l’original du fameux billet, Tout est perdu fors l’honneur; mais la France, qui l’aurait écrit, le tient pour authentique.» Questa volta la Francia e Chateaubriand s’ingannavano: l’originale del famoso biglietto non si è ritrovato, ma si è ritrovato il testo autentico della vera lettera che Francesco I scrisse a sua madre, Luisa di Savoia, la sera stessa della disgraziata battaglia di Pavia, una lettera abbastanza lunga, e che in verità contiene nelle prime righe il senso del motto foggiato benevolmente dagli storici, ma senza il laconismo e la serenità che l’hanno reso celebre. Ecco il principio della lettera, che fu pubblicata per la prima volta da Dulaure nella Histoire de Paris (édit. de 1837, to. III, pag. 209), e quindi molte altre volte: «Madame, Pour vous faire sçavoir comme se porte le ressort de mon infortune, de toutes choses ne m’est demeuré que l’honneur et la vie qui est saulve, ecc.». Ma chi vuol conservare gelosamente il suo onore, deve aver cura di non legittimare nemmeno il dubbio: l’uomo onesto non ha da essere, neppure sospettato, come

1311.   La moglie di Cesare.

Narra Plutarco nella Vita di Giulio Cesare, cap. X, che Publio Clodio, innamorato di Pompea, moglie di Cesare, non potendo con essa ritrovarsi, entrò in casa di lei vestito a modo di sonatrice mentre celebravansi le feste della Dea Bona cui nessun uomo poteva assistere. Ma scoperto, fu cacciato ignominiosamente e quindi portato innanzi ai giudici per questo e per altri malefici. «Cesare ripudiò subitamente Pompea, ma chiamato in giudizio per testificare all’accusa di Clodio, rispose nulla sapere di quanto contra lui si diceva. E strana apparendo questa risposta, domandò a lui l’accusatore: perchè adunque ripudiasti la moglie? Perchè io non voleva (rispose) non che altro che venisse in sospetto.» Così la traduzione delle Vite parallele distesa da Marcello Adriani il giovane.

Chi tiene a conservarsi onesto non s’illuda di avvantaggiare i suoi interessi:

1312.   Probitas laudatur et alget.3

(Giovenale, Satira I, v. 74).
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Ma in compenso, volete sentire con qual semplice e dignitosa fierezza l’uomo probo può parlare dei casi suoi? Udite il Parini:

1313.         Me non nato a percotere
          Le dure illustri porte,
          Nudo accorrà, ma libero,
          Il regno de la morte.
          No, ricchezza nè onore
          Con frode o con viltà
          Il secol venditore
          Mercar non mi vedrà.

(La vita rustica, ode, str. 4).
«Questa strofa, dice il Carducci (Il Parini minore, ed. 1903. pag. 140), è bella in tutto e per tutto, per la verità del sentimento e per la rispondenza dell’espressione: dopo i poeti del Trecento e dopo l’Ariosto nelle Satire, nulla di altrettanto nobile era uscito dal petto di poeta italiano.»

Non altrimenti, benchè più brevemente, diceva di sè un altro illustre poeta lombardo:

1314.              Vergin di servo encomio
          E di codardo oltraggio.

E poichè ho nominato il Manzoni ricorderò gli altri nobilissimi versi di lui:

1315.                        .... Il santo Vero
Mai non tradir; nè proferir mai verbo
Che plauda al vizio o la virtù derida.

È l’ombra dell’Imbonati che così parla al poeta. Questi versi lessi scritti, non esattamente, nel 1887, dal defunto Don Pedro II d’Alcantara, imperatore del Brasile, sull’albo dei visitatori alla Sala della biblioteca Braidense di Milano che raccoglie i manoscritti e le edizioni del Manzoni. E sempre a proposito del Manzoni [p. 446 modifica] ricorderò per incidenza, che fu un genero di lui, il compianto senatore G. B. Giorgini, il quale disse una volta alla Camera dei Deputati che

1316.   In Italia il potere non ha arricchito nessuno.

Sono parole scritte da lui nella relazione sul disegno di legge per una pensione e dono nazionale a Luigi Carlo Farini (dono da lui rifiutato quattro anni prima; ved. n. 1318), nella seduta della Camera il l6 aprile 1863 (Atti Parlam., Legisl. VIII, Sessione 1861-63, Camera dei Deputati, pag. 4622). Ecco l’intero periodo:

«Una delle glorie più vere della nostra rivoluzione e del nostro paese, una giustizia che tutti i partiti saranno superbi di rendersi scambievolmente, è appunto questa: in Italia le vicende politiche sono state per molti una causa di rovina: il potere non ha arricchito nessuno

Se il venerando uomo fosse ancor vivo, non oserebbe ripetere questa affermazione cosi assoluta oggi, nell’anno di grazia 1920! Come paion lontani e leggendari i tempi del Lanza, del Ricasoli, del Farini! Fu il secondo di codesti uomini integerrimi, il barone Bettino Ricasoli, che, essendo presidente del Consiglio, nella tornata della Camera dei Deputati del 9 dicembre 1861, protestando contro le false notizie che si facevano artatamente circolare anche da qualche deputato per agitare il paese e per screditarlo innanzi all’estero, proruppe nella vivace esclamazione:

1317.   Siamo onesti: non chiedo altro.

che sollevò un vero tumulto nella Camera. La Destra, il Centro e le tribune applaudirono; la Sinistra rumoreggiò e protestò vivacemente. L’on. Ricciardi gridò che la parola onesti doveva essere ritirata; e l’on. Zuppetta: «Qui non vi sono disonesti!» Ma si era nell’anno 1861: oggi un’interruzione simile solleverebbe la più schietta ilarità.

Dell’altro nominato di sopra, il Farini, è celebre la nobilissima risposta:

1318.   Non mi tolgano la gloria di morir povero.

Luigi Carlo Farini era stato nominato dittatore delle Provincie modenesi il 28 luglio 1859, e quindi dell’intiera Emilia. [p. 447 modifica] L’Assemblea dei Rappresentanti delle provincie modenesi nella seduta del 7 novembre 1859 votava una legge con la quale gli si assegnava come dono nazionale la tenuta di Castelvetro. Subito dopo la votazione al Presidente era recapitato un biglietto del Dittatore, nel quale molto asciuttamente esprimeva i suoi sensi di riconoscenza ma lo pregava di far sapere agli onorevoli rappresentanti del popolo che non poteva accettare il dono. «Condottisi il Presidente Malmusi ed alcuni deputati presso il Signor Dittatore non appena letta la riferita lettera, esprimevano il rammarico prodotto in loro dalla medesima e ne ottenevano tale risposta da sollevare la fama di lui più alto ancora, se pur fosse possibile. Terminava egli con queste ammirabili parole: “Non mi tolgano, o signori, la gloria di morir povero”.» (Le Assemblee del Risorgimento, vol. I, Roma 1911, pag. 570).

Uno dei principali elementi della probità è senza dubbio la fede alla promessa data, la quale, secondo Cicerone, è fondamento della giustizia:

1319.   Fundamentum (autem) est justitiæ fides, id est dictorum conventorumque constantia et Veritas.4

(De Officiis, i, 7, 23).

Benedetto colui che giunto al tramonto dei suoi giorni, può dire con l’Apostolo:

1320.   Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi.5

(S. Paolo, Epist. II ad Timoth., cap. VI. v. 7).

Il secondo inciso è preso metaforicamente dai giuochi del circo dei Greci e dei Romani (donde anche altre locuzioni e parole dell’uso moderno, p. es. carriera). Invece biasimevole, ed anzi spregevole è l’uomo che tradisce chi confida in lui e fa come quello del proverbio antico che [p. 448 modifica]

1321.   Altera manu fert lapidem, panem obstentat altera.6

(Plauto, Aulularia, a. II, sc. II, v. 18).

e se pure meno abietto, è sempre da biasimarsi anche colui che per norma della propria vita tiene la massima:

1322.   Lunga promessa con l’attender corto.

Narra il Villani che questo fosse il fraudolento consiglio dato dal conte Guido da Montefeltro a papa Bonifazio che ne lo richiese volendo trar vendetta dai Colonnesi: per cui Dante lo pose nella ottava bolgia del cerchio ottavo fra i mali consiglieri. E. Jordan in un articolo che ha per titolo il verso succitato, comparso nel Bulletin Italien, to. XVIII (Bordeaux, 1918), pag. 45-60, cerca dimostrare che si tratta di una leggenda calunniosa, inventata dai Colonnesi per odio contro il papa.

1323.   Sit autem sermo vester; est, est: non, non.7

(Evang. di S. Matteo, cap. V, v. 37).

dice la Bibbia, ammonendo a non fare giuramenti vani, ma ad affermare semplicemente la verità: e poco oltre dà un altro aureo ammonimento di onestà:

1324.   Nemo potest duobus dominis servire.8

(Evang. di S. Matteo, cap. VI, v. 24).

Poco fedele alle sue promesse, non per animo malvagio, ma per frivolezza, era pur la famosa cortigiana Ninon de Lenclos. Saint-Simon, nelle sue Memorie, parlando della poca costanza di Ninon de Lenclos nei suoi amori, aggiunge: «Elle a quelquefois gardé à son tenant, quand il lui plaisoit fort, fidélité entière pendant toute une campagne. La Chastre, sur le point de partir, prètendit être de ces heureux distingués. Apparemment que Ninon ne lui promit pas bien nettement: il fut assez sot, et il l’étoit [p. 449 modifica] beaucoup, et présomptueux à l’avenant, pour lui en demander un billet: elle le lui fit. Il l’emporta, et s’en vanta fort. Le billet fut mal tenu, et, à chaque fois qu’elle y manquoit:

1325.   Oh! le bon billet. [s’écrioit-elle,] qu’a là La Chastre!9

Son fortuné, à la fin, lui demanda ce que cela vouloit dire. Elle le lui expliqua; il le conta, et accabla La Chastre d’un ridicule qui gagna jusqu’à l’armée où il étoit.» Cito l’ediz. dei Mémoires riscontrata sul ms. autografo da A. de Boislisle (Paris, Hachette, to. XIII, 1897, pag. 142). Questo stesso aneddoto è riferito anche da Bussy-Rabutin nel Discours à ses enfants, del 1694, e nei Mémoires, ed. del 1696; lo racconta anche Voltaire, il quale dichiara che nè le Taidi nè le Laidi nulla dissero mai di più arguto. Questo povero La Chastre è stato identificato dal Boislisle con Luigi conte di Nançay, detto il marchese di La Chastre, nato verso il 1633, morto in guerra il 1664; altri riferivano l’aneddoto al padre di lui, Edone, l’autore dei Mémoires sur la minorite de Louis XIV, ma l’annotatore dell’edizione Hachette dimostra l’erroneità di questa attribuzione.

  1. 1309.   Ognuno è figlio delle sue opere.
  2. 1310.   Tutto è perduto fuorchè l’onore.
  3. 1312.   La probità è lodata, ma trema dal freddo.
  4. 1319.   Fondamento della giustizia è la fede, cioè la costanza e la sincerità nel mantenere le cose dette e convenute.
  5. 1320.   Ho combattuto nel buon arringo, ho terminata la corsa, conservata la fede (Martini).
  6. 1321.   In una mano tiene il sasso, coll’altra mostra il pane.
  7. 1323.   Ma sia il vostro parlare, sì, sì, no, no.
  8. 1324.   Nessuno può servire due padroni.
  9. 1325.   Oh che bella carta che ho fatto a La Chastre!